martedì 29 aprile 2008

venerdì 25 aprile 2008

La fabbrica del consenso

"L'unico modo per assicurare la sopravvivenza della democrazia è avere la garanzia che il governo non controlli la possibilità dei cittadini di condividere informazioni e di comunicare"

Nel nostro paese siamo portati a credere di vivere in una democrazia e che tutto ci sia quindi garantito. Non è così. La Freedom House (organizzazione no-profit e imparziale che si occupa di monitorare e incrementare la libertà di informazione nel mondo) classifica l'Italia al 64° posto nella per niente onorevole classifica della libertà d'informazione nel mondo. Joseph Goebbles, ministro della propaganda nella Germania nazista, insegnava che ripetere una bugia cento, mille, un milione di volte la rende una verità. Questo è esattamente quello che succede in Italia da diversi anni. L'albo dei giornalisti esiste solo in Italia, e fu introdotto nel 1925 da Mussolini come strumento e forma di controllo insieme alla limitazione della libertà di espressione. Oggigiorno, l'intero settore delle agenzie di stampa, Ansa in primis, e altre 386 testate sono finanziate con denaro pubblico per oltre il 50%, per il 33% dalla pubblicità (contro il 55% della media europea) e solo il restante è coperto dall'acquisto da parte del lettore/cliente. I finanziamenti sono, inoltre, assegnati in base alla tiratura (le copie stampate) e non in base alla diffusione (copie effettivamente vendute) [il che permette episodi come quelli imputabili al quotidiano Libero che distribuisce le copie in eccedenza gratis nelle metropolitane]. Un editore, insomma, non ha nessun interesse a farsi seriamente apprezzare dal momento che prende ugualmente i finanziamenti a vita. L'editoria è controllata al 100% da pochi privati (banchieri, finanzieri, imprenditori, costruttori, società varie) tutti più o meno direttamente collegati alla politica e alla finanza, che di fatto decidere cosa si può far sapere e cosa no: Berlusconi (Mondadori, Fininvest, Medusa, Publitalia: il 35,7% del mercato pubblicitario italiano), De Benedetti (Repubblica, Espresso), Mieli (Rizzoli-Corriere della Sera), Caltagirone ( il Messaggero, il Mattino), il gruppo Fiat (la Stampa). Il consiglio di amministrazione Rai e l'Agicom (autorità per le garanzie nelle comunicazioni) sono entrambi nominati dai partiti. Mediaset è controllata da Berlusconi e La7 dalla Telecom, ossia da Tronchetti Provera. I giornalisti sono precari, ricattabili, sotto scacco: o si piegano al volere dei direttori (spesso a loro volta asserviti) o non lavorano. E, infatti, in Italia non si vede mai un'inchiesta giornalistica fatta bene.
I finanziamenti all'editoria nacquero con il preciso e lodevole scopo di diffusione della cultura e dell'informazione, ma in 50 anna le vendite e i lettori sono praticamente rimasti invariati (appena il 10% degli italiani) nonostante finanziamenti che ammontano a 700 milioni di euro, ai quali vanno aggiunte varie tipologie di rimborsi come quelli postali (297 milioni di euro, ne usufruiscono 7124 testate), elettricità, telefonate, IVA (pagano solo il 4% invece del 20% per tutti i prodotti allegati come dvd, cd rom, giochi, etc.). In Finlandia e in Svezia non esistono finanziamenti pubblici, eppure più del 55% della popolazione compra e legge quotidiani e periodici. In Germania il 70% degli under 14 legge quotidiani! In Italia, invece, il costo della costante disinformazione va, appunto, oltre il miliardo di euro di finanziamenti, concessi senza trasparenza, concorrenza e generando mostri del calibro di Tanzi, Cragnotti e Fiorani, con rimesse da parte dei poveri cittadini. La Parmalat insegna: tutti sapevano, ma nessuno lo scriveva o osava parlarne.Senza informazione libera, insomma, non c'è mercato e neppure protezione dei cittadini.
Nessun altro stato europeo finanzia l'editoria con soldi pubblici, a parte la Francia che distribuisce circa 250 milioni di euro all'anno, ma solo ai giornali di partito. La legge Gasparri impedisce a Europa 7 di trasmettere, salvando rete 4 che sarebbe invece dovuta finire sul satellite. Il controllo dell'informazione, dunque, è l'ultima spiaggia che i nostri politici hanno, e lo sanno fin troppo bene. Si comportano come veri e propri banditi: controllano il paese nel più totale disprezzo dei cittadini. L'Italia è cosa loro. Chi viene eletto è cosa loro, viste le liste bloccate create con la legge porcata di Calderoli e del centro-destra berlusconiano. Ben 70 parlamentari condannati, prescritti, imputati, indagati o rinviati a giudizio sono stati eletti grazie ai collegi blindati. Del resto, meglio un seggio sicuro che una probabile brandina in carcere. E poi, se finissero in galera, quanti se ne porterebbero dietro? Esiste, infatti, una fitta rete di ricatti, favori, omertà e clientele: mentono i politici, i loro direttori di testata e tutti i loro servi alleati. Un posto alla Camera o al Senato valgono più della dignità, se mai ne hanno avuta una. La collusione viziosa tra informazione e politica va, dunque, estirpata, eliminata, abbattuta, o la democrazia morirà del tutto.

APPROFONDIMENTI:
---> Freedom House:
---> Filmati:
- Lichtenstein (bellissimo filmato).


La Casta dei giornali

giovedì 24 aprile 2008

Alitalia, se il buon giorno si vede dal mattino...

Dalle tasche degli italiani, già pesantemente prosciugate dal dissesto senza fine di Alitalia, vengono ora prelevati altri 300 milioni - dovevano essere 150, ma è stato Berlusconi a chiederne il doppio - per quello che soltanto con cinica ipocrisia può essere chiamato un prestito-ponte. Ponte verso che cosa, infatti? Di certo non verso la soluzione dei guai della disastrata compagnia. L’unica strada realmente aperta al riguardo, quella di Air France, è stata chiusa da Parigi con un comunicato che gronda irritazione e disprezzo per il teatrino politico-sindacale italiano. Per il resto all’orizzonte non vi è niente altro di concreto: nell’aria c’è sempre il fantasma di un’iniziativa patriottica, ma la sua sostanza è solo quella delle parole di chi evoca cordate imprenditorial-bancarie al momento del tutto latitanti. Tanto che lo stesso Corrado Passera - amministratore delegato di Intesa-Sanpaolo, la banca indicata dai sedicenti salvatori come il pilastro finanziario dell’operazione nazionale - ha liquidato ogni fantasticheria in proposito con parole eloquenti e lapidarie: «Oggi sul tavolo non c’è niente».
E allora, ponte verso che cosa? La risposta è amara: ragioni politiche assai prima che finanziarie sono all’origine di questo prestito. La cui finalità principale, infatti, è quella di tenere la testa di Alitalia fuori dall’acqua per il tempo necessario al passaggio di consegne fra il governo di Romano Prodi e quello di Silvio Berlusconi. Su questo punto davvero non vi possono essere dubbi dato che ieri è stato il portavoce ufficiale del Cavaliere a sollecitare il decreto, bollando come «condotta irresponsabile» un’eventuale scelta diversa da parte del governo ancora in carica. Al quale non è rimasto altro che fare quello che gli veniva richiesto.
In altre parole: se per la forma il decreto reca la firma del premier uscente, il suo vero proponente e responsabile si chiama Silvio Berlusconi. Altro, dunque, che la promessa di non mettere le mani nelle tasche degli italiani: al Cavaliere è riuscito in proposito un vero capolavoro acrobatico, quello di smentire se stesso perfino in anticipo sul suo ingresso a Palazzo Chigi. Come, in fondo, era scritto che avvenisse visto che proprio Berlusconi in prima persona ha fatto il possibile e l’impossibile, nel corso della recente campagna elettorale, per chiudere l’unica strada aperta, quella della trattativa con Air France. Dapprima si è avvolto nel tricolore demonizzando l’accordo con Parigi come una colonizzazione dell’Italia che il suo futuro governo non avrebbe mai potuto accettare. Poi si è spinto, con qualche eccesso di tracotanza, a rievocare la sua prima e non proprio limpida battaglia contro Prodi ai tempi dell’operazione Sme. Infine, sotto la spinta pressante del trio Bossi-Formigoni-Moratti, si è prodigato nel difendere gli interessi di quella Malpensa che è stata l’ultima esiziale sanguisuga del bilancio Alitalia. Non pago di aver così turbato pesantemente i corsi di Borsa del titolo e la trattativa in atto coi francesi, il Cavaliere ha lanciato nell’aria l’amo di una cordata italiana, al quale le corporazioni sindacali del settore si sono aggrappati con la disperata spregiudicatezza di chi è disposto a tutto pur di evitare la resa dei conti con la lunga catena di errori commessi in anni e anni di follie.
Ora, una volta ottenuto l’ampio successo elettorale che si sa, Berlusconi non ha fatto altro che rincarare la dose della sua offensiva contro Air France. Da un lato, ha proclamato che l’accordo coi francesi si poteva fare ma soltanto a condizioni di pari dignità: belle parole da comizio, ma che suonano del tutto comiche nel caso specifico di negoziato fra un’azienda ormai provinciale e moribonda e un’altra che macina profitti sui mercati di tutto il mondo. Dall’altro lato, ha scelto la sontuosa cornice della sua villa in Sardegna per un ennesimo colpo di teatro: la richiesta al suo grande amico, Vladimir Putin, di tenergli bordone nel prospettare l’entrata in scena niente meno che della russa Aeroflot come alternativa all’accordo coi francesi. Così disinvoltamente trascurando anche il piccolo particolare che l’ingresso di un’azienda di uno Stato extracomunitario comporterebbe per Alitalia la tragedia finale della perdita dei diritti di volo non solo nelle rotte interne all’Unione, ma anche in quelle intercontinentali.
In queste condizioni il ritiro dei francesi dalla partita era il minimo che ci si potesse attendere da chi è abituato a stare sul mercato in base alle regole più elementari del medesimo. Su questo punto critico Silvio Berlusconi ha giocato le sue carte ed ha avuto una volta di più successo, mettendo in campo una determinazione spudorata e a tratti feroce. Tanto spudorata e feroce da infilare le mani nelle tasche degli italiani a pochi giorni dalla chiusura di una campagna elettorale nella quale si era sbattezzato a proclamare che non l’avrebbe mai fatto. Se il buon governo si vede dal mattino...
Articolo di Massimo Riva, Il tavolo vuoto del Cavaliere - La Repubblica, 23 aprile 2008

giovedì 17 aprile 2008

La Terza Repubblica

Berlusconi trionfa sia alla Camera sia al Senato e torna a Palazzo Chigi. Gli effetti dell’exploit elettorale della Lega. Veltroni vince la campagna elettorale, ma perde al verdetto popolare. Scompare la sinistra storica e si svolta a destra. Cosa pensa la stampa estera. E nel futuro, si vedranno quelle grandi riforme di cui l’Italia ha bisogno?

1) Terremoto elettorale: la svolta a destra

In quella che per molto tempo verrà ricordata come una tornata elettorale ‘storica’, stravince Silvio Berlusconi, conquistando un’ampia maggioranza sia dov’era prevedibile (alla Camera) sia dove la partita sembrava essere più complicata (al Senato). Una tornata elettorale ‘storica’ perché registra due clamorosi elementi di novità mai accaduti prima: una semplificazione estrema dei partiti rappresentati in Parlamento e la scomparsa dalle aule della sinistra radicale erede del pensiero comunista. Uno spostamento massiccio e inequivocabile dei consensi verso destra, oltre ad un abbattimento delle parti estreme tale da far ritenere ad alcuni che Lega ed Italia dei Valori siano da considerare come le nuove “ali radicali” del neoeletto potere legislativo.
A conti fatti, quella che possiamo considerare la Terza Repubblica nasce oggi esattamente com'era nata la Seconda, quattordici anni fa: una vittoria netta e indiscutibile di Silvio Berlusconi. La storia politica della nazione si compie così, con un moto perfettamente circolare, e l'eterna transizione italiana riparte dall'eterna rigenerazione berlusconiana. Dopo quattro travagliatissime legislature si ritorna al punto di partenza. Il Cavaliere si riprende l'Italia. Sarà vecchio, sarà spompato, sarà unfit, ma la maggioranza degli italiani ha deciso di riconsegnargli comunque le chiavi del governo, sanando per la terza volta - con la legittimazione di un voto che equivale ancora una volta a un condono - le sue inadeguatezze, i suoi conflitti di interesse, le sue traversie giudiziarie. Il verdetto del popolo sovrano, piaccia o no, in democrazia è l'unica cosa che conta.
Dal punto di vista ‘sistemico’, queste elezioni rivoluzionano la geografia politica nazionale, segnano un deciso passo avanti verso un bipartitismo di stampo più europeo e gettano le basi per una conseguente modernizzazione istituzionale. Il prezzo di questa forte polarizzazione dei consensi è la polverizzazione delle ‘terze forze’ e la desertificazione delle istanze rappresentate in Parlamento: alla camera si salva appena l'Udc, ma spariscono la Destra, la Sinistra arcobaleno, i socialisti, mentre al Senato, di fatto, avranno accesso solo quattro gruppi parlamentari: Pdl, Pd, Lega e Udc. Un esito che, nell’ambito di una forma di governo che vede nell’assemblea rappresentativa il suo centro di gravità costituzionale, può generare un impoverimento della dialettica democratica (fino a far riaccendere una extra-parlamentarizzazione del conflitto sociale), ma che, per alcuni, rappresenta di sicuro una grande occasione perché aiuta la governabilità politica e l'efficienza legislativa.

2) No, non si può fare

Berlusconi ha perso la campagna elettorale, ma ha vinto le elezioni (al contrario del 2006). Secondo una felice definizione, il Cavaliere non è più ‘il nuovo che avanza’, ma semmai ‘il vecchio avanzato’. Eppure si conferma il più magnetico catalizzatore dei sogni della nazione, il più carismatico affabulatore dei suoi bisogni: rappresenta il campione di un'Italia populista, insofferente alle regole e diffidente nelle istituzioni, il videocrate che riduce l'etica ad estetica, che vive la politica come opportunità e non come responsabilità.
Ora vedremo cosa succede. Molti ipotizzano un colpo di coda della Lega sulla questione del federalismo o dell'immigrazione (cosa che potrebbe creare problemi anche con Bruxelles) come avvenne nel 1994 nel primo governo Berlusconi. Del resto, in quell'occasione Massimo d'Alema ebbe buon gioco ad affermare che "la Lega è naturalmente una costola della sinistra", senza per altro avere torto, visto che ormai i lavoratori e gli operai votano Bossi. Ma è anche vero che la Lega ha una capacità tutta sua di attrarre consenso, dal momento che non si iscrive nel classico asse destra-sinistra, ma in quello centro-periferia, incarnando l'insofferenza dell'ente periferico di fronte all'autorità centrale. Se è vero, quindi, che con i senatori il Carroccio tiene in ostaggio la coalizione, mai come stavolta il Cavaliere ha molto da offrire in cambio della sua fedeltà per un'intera legislatura: dalla presidenza di Palazzo Madama alla poltrona da vicepremier unico, da un altro ministero per le Riforme alla poltrona di governatore della Lombardia, che nell'immaginario delle camice verdi trasformerebbe finalmente la "Madre Padania" da mito virtuale a luogo reale, il Nord del Senatur.
Veltroni ha vinto la campagna elettorale, ma ha perso le elezioni. Il bilancio del Pd ha indubbiamente più di una posta al passivo. La costituzione del nuovo partito, aprendo a scenari completamente diversi, ha di fatto indebolito il governo Prodi contribuendo nella definitiva caduta; presentarsi da solo (o comunque senza una parte importante della sinistra) secondo alcuni ha finito per consegnare l’Italia saldamente nelle mani di Berlusconi; e, in ultima analisi, con gli appelli al voto utile ha dato il colpo mortale ad una sinistra radicale già in evidente affanno. Veltroni ha probabilmente pagato una rincorsa troppo breve e una strategia eccessivamente ritagliata sul modello ‘one man show’ (il terreno di Berlusconi, per intenderci), oltre ai suoi messaggi generali nell’illustrare un programma pieno di promesse.
Ma per il Pd le poste all'attivo valgono forse anche di più. Dalle elezioni esce come il primo grande partito riformista della storia del paese, forte di uno zoccolo duro che sembra quantificabile in un 35% dell’elettorato. Per cui, al di là del responso dell'urna, va dato pieno merito al Pd di aver impresso una svolta al sistema grazie alla disaggregazione delle vecchie alleanze e la riaggregazione dei nuovi partiti: il Paese ritorna sui binari di un solido bipolarismo, dopo il deragliamento neo-proporzionalista prodotto due anni fa dal "porcellum" e per la quarta volta in cinque elezioni cambia lo schieramento al governo, elemento che rafforza il meccanismo dell'alternanza.

3) Sinistra extraparlamentare

Per la prima volta nella storia, dopo la fine della dittatura fascista, il Parlamento italiano non avrà tra i suoi banchi, dove anche la nascita della Costituzione venne salutata da un gruppo di camicie rosse, un solo 'rosso'. Dopo appena 60 anni da quando un comunista, Umberto Terracini, firmava la Carta costituzionale della neonata repubblica, e per la prima volta da quando il fascismo li aveva messi fuorilegge, nel Parlamento italiano non siederanno né comunisti, né socialisti. Come ha scritto Edmondo Berselli su La Repubblica, “Probabilmente siamo davanti al più brutale processo di razionalizzazione politica che si sia mai visto in Italia. Sparisce dal Parlamento un cartello elettorale, la Sinistra Arcobaleno, che riuniva partiti capaci in astratto, ma anche per storia politica alle spalle, di superare il dieci per cento. La sinistra anticapitalista si trova ai margini della politica, fuori dal gioco, esclusa dal circuito istituzionale. È di nuovo una sinistra extraparlamentare”.
Ma una seppur drastica semplificazione dello spettro politico non può, da sola, bastare a spiegare un evento tanto inatteso. Hanno avuto un peso rilevante i continui ‘no’ opposti alle maggioranze, la mentalità della classe dirigente ancora troppo ancorata ad un’idea vecchia della politica, l’elevato astensionismo. Ancora, è da considerare il comportamento degli elettori di sinistra – evidentemente sacrificatisi sull’altare del voto utile – che, come ha fatto notare Andrea di Nicola su La Repubblica, “pur di non beccarsi Berlusconi hanno preferito ‘turarsi il naso’ e votare Veltroni”. Senza contare la perdita di elettorato in aree chiave (come ad esempio operai e lavoratori dell’Emilia Romagna e in generale del nord) a favore della Lega, rimproverata da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera al movimento dell’ex presidente della Camera.
Quel che appare certo, è la necessità di una ristrutturazione profonda della sinistra italiana in chiave più moderna e pragmatica, meno ostruzionista e più collaborativa, rivolta alla ricerca di una nuova dimensione che sappia dare voce ad una parte consistente del paese che crede nell’opportunità di una società più giusta ed equilibrata.

4) Visti da fuori

FRANCIA – Per Libération “l’Italia è alla mercè di Berlusconi. Le elezioni legislative consacrano il ritorno in carica del Cavaliere. Ma ormai, di fronte a lui, i democratici di Walter Veltroni sembrano un avversario di peso, capace di incarnare un’alternativa credibile”, mentre secondo Le Figaro, "Berlusconi è sopravvissuto ai magistrati, ai fracassi in economia e anche al ridicolo, ed è sempre più il dominatore incontrastato del suo schieramento. La sconfitta del 2006 sembrava la fine della sua corsa ma gli ha messo la voglia di rivincita". Le Monde è uno dei pochi a notare il tonfo della Sinistra Arcobaleno: "La sinistra radicale, vittima della semplificazione e del voto utile come tutti gli altri partitini italiani, non aveva mai conosciuto una sconfitta così dura da inquietare persino i suoi avversari. Pier Ferdinando Casini si è detto infatti preoccupato che una parte del paese non sia più rappresentata in parlamento. Questo scrutinio potrebbe portare alla fine un cambiamento. Anche se la destra si presenta dietro un redivivo, nella persona di un Berlusconi rinvigorito dalla prospettiva di una nuova vittoria, il paesaggio politico italiano sta mutando. Sotto la direzione di Veltroni la sinistra democratica si è riunita senza immischiarsi con alleati tra le diverse creature prodotte dai reduci del comunismo. Questo rifiuto gli è forse costato il potere, ma può far progredire il bipartitismo in un paese celebre per le sue coalizioni contraddittorie e effimere”.
SPAGNA - "Silvio Berlusconi torna al potere, e con una maggioranza sufficiente a non fare la fine dell’ultimo governo Prodi", scrive El País, secondo il quale "il leader della destra ha ormai 71 anni e tre governi sulle spalle. Sarebbe consolatorio pensare che questo lo convincerà a non riproporre i suoi sforzi per salvare dal carcere sé e i suoi amici e mantenere i suoi privilegi". Per El Mundo "la sinistra ha pagato le sue divisioni e la pochezza dei suoi risultati al governo. Veltroni ha raccolto un risultato dignitoso, ma il suo azzardo di correre da solo lo ha condannato alla sconfitta e ha cancellato la sinistra radicale […] Veltroni, leader di un partito che si presentava per la prima volta alle elezioni generali, ha sottolineato che il risultato ottenuto è «molto importante» e ha ricordato che lo scorso settembre la differenza con il Popolo della libertà era di 22 punti. Ha parlato di una «gran rimonta» che gli permetterà di portare in Parlamento «la maggior forza riformista mai avuta in Italia». Tra le vittime del trionfo di Berlusconi c’è invece il presidente della Camera Bertinotti. In una decisione che ricorda, in Spagna, le dimissioni comunicate alla base dal leader di Izquierda Unida Gaspar Llamazares, Bertinotti ha annunciato che abbandonerà la guida della coalizione”. Secondo La Vanguardia, questo scrutinio in Italia presenta tre novità: 1) Il voto va ai partiti e non alle coalizioni: Veltroni ha preso la decisione intrepida di correre da solo e gli altri hanno dovuto adattarsi per non apparire “vecchi”; 2) dal nuovo governo dipenderà il futuro del Paese. Dovrà affrontare una crisi senza precedenti, per il problema della povertà, della casa, dell’inadeguatezza dei trasporti pubblici, del cattivo andamento dell’economia a causa del comportamento delle corporazioni e della mancanza di meritocrazia. Ma nessuno di questi temi è stato veramente affrontato in campagna elettorale; 3) queste elezioni sono anticostituzionali, perché 350.000 cittadini hanno chiesto un referendum per cambiare la legge elettorale e hanno ottenuto che si tenesse ad aprile, ma la crisi politica lo hanno rimandato a data da destinarsi.
GRAN BRETAGNA - Il Guardian parla di scarso entusiasmo generale: "Berlusconi ha preso il potere senza le aspettative che hanno accompagnato i suoi precedenti mandati. Forse un giorno i problemi dell'Italia diventeranno così evidenti che destra e sinistra saranno costrette a formare una coalizione per affrontarli […] Il futuro di Alitalia diventerà più chiaro con Berlusconi primo ministro. La compagnia aerea perde un milione di euro dei contribuenti al giorno e da questa settimana riprenderanno i negoziati per il suo acquisto da parte di Air France/Klm. Il miliardario re dei media si è sempre opposto a questa operazione e adesso ci svelerà se c’è una soluzione italiana”. Sull’Independent, l’economista della Jp Morgan Silvia Pepino descrive i problemi italiani come “di lungo corso e ben radicati, che difficilmente si risolveranno dopo le elezioni, indipendentemente dal vincitore […] La morale dei cittadini è minata dalla crisi della spazzatura a Napoli come dall’affare Alitalia e dallo scandalo mozzarella. La crescita economica stimata dal Fondo monetario è dello 0,3% e il debito pubblico è al terzo posto tra i più alti del mondo. Berlusconi, che domina i media italiani, ha promesso di eliminare il debito, tagliare le tasse e far fuori il crimine. L’analista politico D’Alimonte ha dichiarato alla televisione che queste elezioni rendono l’Italia un paese normale, perché adesso ci sono due partiti che da soli rappresentano il 70% degli italiani”.
ALTRI - Il New York Times (Usa) si chiede "se gli italiani abbiano votato Berlusconi per fiducia o come il minore dei mali, dopo due anni d’immobilismo del frammentato centrosinistra. In un momento di bassa autostima nazionale l'Italia ha scelto un uomo le cui commedie, gli scandali e i capelli sempre più folti funzionano davanti alle telecamere". Sueddeutsche Zaitung (Germania) sottolinea che “Finalmente due partiti popolari sembrano aver stabilito il loro potere in Italia, rinnovando il panorama di divisione partitica che contraddistingueva il Paese. Gli analisti considerano il rinnovo del sistema un buon risultato. L’Italia soffre soprattutto per la crisi internazionale dell’economia, cattive infrastrutture, lentezza della burocrazia. Veltroni ha subito offerto al vincitore la sua disponibilità a collaborare per le riforme elettorali e costituzionali”. Le Soir (Belgio) non ha mezzi termini: “La destra è tornata a Roma. I grandi perdenti sono i piccoli partiti che hanno snobbato le alleanza. L’Udc, che ha abbandonato la coalizione di Berlusconi di cui aveva fatto parte dall’inizio della sua storia, ma soprattutto la Sinistra arcobaleno che aveva partecipato al governo Prodi (paralizzandolo regolarmente) e di cui Veltroni ha preferito sbarazzarsi”. Kathimerini (Grecia) va oltre: “Il leader della destra italiana ha annunciato la sua vittoria sottolineando che l’Italia va incontro a mesi molto difficili. Bertinotti, leader della Sinistra arcobaleno, ha annunciato le sue dimissioni dopo un clamoroso fallimento: «Il mio ruolo di guida finisce questa sera, anche se continuerò nella mia attività politica». Il presidente della Camera ha aggiunto che «la grandezza della sconfitta era imprevedibile. Adesso tutti i soggetti della sinistra italiana devono partecipare a una redefinizione»”. Infine, Gazeta Wyborcza (Polonia) fa un po’ di ironia: “Tifoso di calcio, miliardario e magnate delle televisioni, Berlusconi ha vinto contro i politici intellettuali. La mancanza di grandi differenze tra i programmi dei due principali schieramenti ha fatto sì che gli italiani abbiano scelto Berlusconi ma anche dimostrato stima al rivale Veltroni. Il leader del Pdl consigliava alle giovani precarie di sposare suo figlio, ma gli italiani sperano che con lui avverrà un miracolo economico”.

5) E ora, inciucio o riforme?

Tra le armi che Berlusconi ha utilizzato in questa campagna elettorale non ho menzionato il suo smisurato potere mediatico, dovuto alle sue televisioni, alle sue testate e a quella rete complessiva di controllo e indirizzamento del consenso di cui è proprietario. Si lo so, sono cose che vengono dette da anni. E poi ormai ha vinto, quindi 'amen'. Ora il governo seguirà l'iter costituzionale e il candidato in pectore diverrà il primo ministro. Ma la maggior parte delle persone normali si chiederanno: cosa accadrà adesso? Personalmente spero di non dover vedere 5 anni in cui repressione dei diritti civili, inasprimento normativo, aumento di una cultura xenofoba e perseguimento di un consumismo sfrenato la facciano da padrone. Berlusconi ha una maggioranza più che solida e i numeri a sua disposizione autorizzano la previsione di un governo di legislatura. La domanda cruciale è se sarà anche una legislatura costituente, come servirebbe al Paese. Le prime mosse del Cavaliere sembrerebbero concilianti: parla di riforme condivise, ipotizza la riesumazione della Bicamerale, si dichiara diverso dal premier che vinse nel 2001, dice di volersi consegnare alla storia come statista. Salvo poi, ovviamente, affermare che non sarà data all'opposizione la presidenza di nessuna delle due camere e sostenere, contrariamente alle laute promesse di pochi giorni prima, che quelli che verranno saranno "giorni duri". Nella sua terza reincarnazione, l'unto del Signore sembra voler impersonare l'idea di un populismo morbido, di un bipolarismo mite. Staremo a vedere se dal cilindro uscirà l'ennesimo bluff...


APPROFONDIMENTI:

- Repubblica tv, filo diretto con Eugenio Scalfari;
-
Videocommento di Ezio Mauro;
-
Beppe Grillo, Perché non voto – Firme, Internazionale;
- vignette;
- blog: in Europa.

lunedì 14 aprile 2008

Chi è il terrorista?

Questo è il video di una canzone ("Meen Erhabe" - Chi è il terrorista?) di un gruppo rap palestinese, i DAM (Eternità). I sottotitoli in inglese traducono il testo. Un testo pervaso di un linguaggio molto aspro, ferocemente critico verso Israele, a volte sfociante verso posizioni estremiste. Il linguaggio di giovani palestinesi nati e vissuti in una condizione priva dei loro più elementari diritti. E' tempo di rendersi conto che 40 anni di umiliante occupazione hanno ridotto uno dei popoli più laici del medioriente alla disperazione. In questo clima, più che estirpare il terrorismo la strategia internazionale lo fomenta.



DAM - Min Irhabi? (Chi è il terrorista?)

Chi è il terrorista? Io sono un terrorista? Perché sono io il terrorista quando tu mi hai preso la terra? Chi è il terrorista? Tu sei un terrorista. Hai preso tutto ciò che possedevo mentre vivo nella mia patria...Vuoi che rispetti la legge? Tu sei testimone, avvocato e giudice...Non sono contro la pace, la pace è contro di me...So come mi vorresti, in ginocchio e con le mani legate, lo sguardo basso, circondato di corpi, di case distrutte, di famiglie espulse, di bambini orfani, la nostra libertà in catene...Quando i cani muoiono ricevono simpatia il nostro sangue non vale quello dei cani...Invece no, il mio sangue vale e continuerò di difendermi anche se tu mi chiamerai terrorista.

sabato 12 aprile 2008

mercoledì 9 aprile 2008

Veltrusconi?

In Italia siamo abituati a vedere e sopportare di tutto. Ma una campagna elettorale così anomala non si era mai vista e, sinceramente, ne abbiamo avuto abbastanza. Alcuni [editoriale di Sartori sul Corriere della sera] l’hanno interpretata come una campagna “flaccida”, che qualcuno (Veltroni) avrebbe giocato su toni troppo soft, tanto da apparire eccessivamente arrendevole. Avrebbe, insomma, “combattuto un’elezione quasi senza combatterla: nomina il meno possibile il suo principale avversario, non risponde o risponde debolmente (senza contrattaccare) ai suoi attacchi. Diciamo che questa è una strategia irenica (in greco irene è pace). È una strategia vincente? Per chi si trova a dover risalire una china di circa 7 punti percentuali di svantaggio direi proprio di no”.
Non so se Sartori abbia ragione. Probabilmente (come sempre) si. In ogni caso questa si è contraddistinta come la campagna elettorale più insulsa di quelle che io ho avuto modo di vedere. I candidati dei cosiddetti grandi partiti, o meglio coalizioni (PD e PDL), hanno sciolinato una serie di promesse palesemente non realizzabili, alla luce dell’attuale situazione interna e, soprattutto, dell’onda anomala “subprime” in arrivo dall’Atlantico occidentale. I candidati dei partiti minori hanno provato a trarre forza dal senso di opposizione ad un sistema che ha con evidenza teso a modellare il consenso su due soggetti politici. Ne è nata una bagarre su ‘voto utile’, ‘voto disgiunto’ e (non ultimo) sulla polemica in seguito alla conformazione della scheda elettorale, che ci ha reso ridicoli all’interno e totalmente inaffidabili all’osservatore situato all’estero. Il tutto rigidamente scandito da ferree regole di par condicio, ma – guardacaso – privo di un confronto diretto tra i candidati a Palazzo Chigi. Una campagna elettorale orfana di alcuni temi essenziali, come la laicità dello stato e, in special modo, la politica estera.
Ma (meno male che Silvio c’è) una campagna elettorale generosissima in quanto a sparate ridicole fuoriuscite dalla bocca di una persona che incarna la mediatizzazione di sé stesso, alcune anche gravissime. Oltre alla discutibile operazione di insider trading nel caso delicatissimo dell’Alitalia (stranissimo, un caso di un liberista con probabile incarico di governo che fa opera di ingerenza sul mercato paventando l’esistenza di una fantomatica cordata italiana), il Cavaliere si è reso protagonista di un attacco decisamente inappropriato verso la prima carica dello stato. Quella con funzione di garante della Costituzione, parola che Berlusconi con ogni probabilità detesta. Capisco che Berlusconi veda rosso ovunque, che possa spingersi fino ad avallare un complotto verso di lui da parte di giudici ‘comunisti’, spalleggiati da un’informazione e dai media ‘comunisti’. Arrivare ad affermare che in caso di sua vittoria non assegnerebbe la presidenza di una Camera (presumibilmente il Senato) all’opposizione perché il Quirinale sarebbe in mano alla sinistra è, addirittura, da alieno. Nel senso di persona estranea alle istituzioni. Espressione di un “altro” che non ha il senso dello stato e di ciò che rappresenta. C’è da comprenderlo. O, meglio, non possiamo, perché che ne sappiamo noi del suo “profumo di santità”?
Chiunque vinca avrà, per effetto del ‘porcellum’, una maggioranza fissa alla Camera (55%) e una di minore entità al Senato, tenendo soprattutto conto delle aspre diversità presenti nelle uniche due coalizioni che possono aspirare a tale ruolo. Ma non è detto. Come ha scritto Sartori in un editoriale, "Mai come questa volta molta gente è incline a non votare. Anche perché mai come questa volta la gente non sa per chi votare. Mi astengo? Mi turo il naso? Pensa e ripensa mi è venuta una pensata. Lasciamo da parte il nocciolo duro dei partiti, i fedeli che votano e voteranno sempre per il loro. Il fatto è che gli 'infedeli' sono aumentati, e che in questa elezione il numero dei cosiddetti indecisi arriva ad essere stimato addirittura un terzo dell'elettorato. Si sa anche che un buon numero di questi indecisi ha deciso di non votare: sono infuriati e ce l'hanno con tutti. Questi signori hanno ragione di essere infuriati. Ma astenersi a cosa serve? Punisce davvero la Casta? Rimedia davvero qualcosa?".
Comunque finirà, quindi, ci sarà bisogno di trovare intese con le altre forze presenti, in particolare per quelle grandi riforme e quelle difficili svolte che tutti noi attendiamo da anni. Pazienza se queste intese verranno stipulate per effetto di scelte politiche contingenti piuttosto che per garantire al paese le sue reali esigenze. Del resto, si diceva, siamo abituati a vedere di tutto. Anche il Veltrusconi…

Tensioni africane

Dal Kenya allo Zimbabwe fino all’Uganda: non si fermano le tensioni che nascono dalla volontà di molti di rimanere al potere nonostante tutto e tutti. Sullo sfondo le grandi potenze che, invece di intervenire, restano a guardare e, anzi, sponsorizzano l’una o l’altra parte nella speranza di poterne ricavare profitti. Del resto, il continente africano, seppur privo di grandi infrastrutture, elargisce circa il 12% della produzione mondiale di greggio.


KENYA - Dopo la tornata elettorale, le tensioni in Kenya non accennano a placarsi. Al 7 gennaio, circa 600 i keniani erano rimasti uccisi negli scontri seguiti alle elezioni del 27 dicembre 2007. Lo aveva reso noto la polizia keniana i cui dati superavano drammaticamente quelli diffusi in un primo momento che parlavano di 486 vittime delle violenze post elettorali. I leader dell'opposizione avevano sospeso tutte le manifestazioni di protesta previste, in attesa dell'arrivo del presidente del Ghana a Nairobi, incaricato di avviare la mediazione tra il presidente Mwai Kibaki e i suoi avversari politici guidati da Raila Odinga.
La stampa europea commentava preoccupata gli ultimi sviluppi della crisi e auspicava unanime l'intervento della comunità internazionale. Secondo lo spagnolo El País: "È un errore spiegare le violenze di questi giorni solo con l'argomento dell'odio etnico. Così come è fuorviante parlare di crisi umanitaria. Quello che il Kenya sta vivendo è un conflitto politico sanguinoso nato dalla volontà del presidente Kibaki di rimanere al potere a ogni costo, anche con una frode elettorale". El País invocava l'intervento internazionale, in primo luogo dell'Unione europea che, sostieneva il quotidiano, "deve essere più presente che mai. In ogni caso occorre tenere presente che, trattandosi di un paese africano, servono formule di mediazione diverse rispetto al resto del mondo. Bisogna pretendere innanzitutto che i partiti keniani rifiutino la violenza e la condannino ufficialmente".
Il giornale spagnolo Abc scriveva: "Il Kenya sta pagando un prezzo troppo alto e il suo presidente lo ha tradito due volte. Per il modo in cui ha gestito il suo mandato e per non aver accettato le critiche dei suoi concittadini. Kibaki si sta trasformando in un nuovo Robert Mugabe".
Infine il premio Nobel per la pace ed ex deputata keniana Wangari Maathai interveniva sul Guardian esortando i politici locali a risolvere la situazione: "Sosteniamoci l'un l'altro, lasciando da parte le nostre origini etniche e le convinzioni politiche. Siamo noi cittadini la coscienza del paese. Un'ingiustizia contro uno di noi è un'ingiustizia contro tutti noi".
Ma proprio in questi giorni, la situazione politica del Kenya precipita ancora una volta. Martedì il leader dell'opposizione Raila Odinga ha deciso interrompere i negoziati per la formazione del nuovo governo di coalizione. L'opposizione accusa l'ala legata al presidente Kibaki di non aver rispettato gli impegni presi nelle ultime settimane. Il governo doveva essere varato domenica, ma Kibaki ha cambiato le carte in tavola e alcuni importanti ministeri, che sembravano destinati all'opposizione, sono riapparsi tra quelli assegnati agli uomini del presidente. I sostenitori di Odinga sono già tornati in piazza e minacciano nuovi scontri, dopo quelli che, nel febbraio scorso, hanno causato più di mille morti. [Fonte: Daily Nation - Kenya]

Links:
- Il Kenya di fronte alla sfida elettorale;
- Il Kenya sull’orlo della guerra civile;
- Kenya: scontri etnici e di classe;
- Kenya: la mediazione di Annan in un corno esplosivo;
- Kenya: road map per la pace;
- Kenya, accordo sulla divisione dei poteri; [Limes on line]
- Il Kenya come nazione, Internazionale.


ZIMBABWE - Nonostante il successo netto dell'opposizione nelle elezioni di fine marzo, Robert Mugabe, il presidente uscente dello Zimbabwe che da 28 anni è alla guida del paese, sta facendo di tutto per restare al potere. Mugabe ha, infatti, cercato di bloccare la commissione elettorale incaricata di annunciare i risultati delle elezioni, ritardando così un verdetto che appariva comunque scontato. Il Movimento per il cambiamento democratico, il partito di opposizione, ha vinto quattro dei primi sei seggi attribuiti dalla commissione elettorale. Il presidente uscente ha comunque intimato al leader dell'opposizione Morgan Tsvangirai di non proclamare la vittoria fino a quando non verranno resi ufficiali i risultati e ha ordinato alla polizia di controllare le strade della capitale Harare. [Fonte: Mail & Guardian – Sudafrica, 31 marzo 2008]
Dopo quattro giorni dalla chiusura delle urne sono arrivati i risultati ufficiali per quanto riguarda la nuova distribuzione dei seggi in parlamento. Come previsto, il partito del presidente Robert Mugabe, lo Zanu-Pf, non ha più la maggioranza nell'assemblea dello Zimbabwe. Secondo la Commissione elettorale dello Zimbabwe (Zec), sui 210 seggi disponibili, il movimento per il cambiamento democratico (Mdc), guidato dallo sfidante alla presidenza Morgan Tsvangirai, ha conquistato 105 seggi. Il partito di Mugabe ne ha ottenuti 94. Uno è stato guadagnato da un candidato indipendente. Per quanto riguarda l'elezione presidenziale, invece, non ci sono novità, anche se il partito di opposizione continua a dichiarare che Morgan Tsvangirai sarà il prossimo presidente. [Fonte: Libération – Francia, 3 aprile 2008]
Negli ultimi giorni, lo stesso Morgan Tsvangirai ha scritto sul Guardian che il Fondo monetario internazionale deve sospendere gli aiuti allo Zimbabwe finché Mugabe non riconoscerà la sua sconfitta: "Ancora una volta Robert Mugabe e i suoi stanno cercando di mantenere il controllo sul potere in Zimbabwe […] Ma questo non sminuisce la vittoria della democrazia sulla dittatura in un paese devastato dal malgoverno e dall'ignoranza. La democrazia è orfana in Zimbabwe. I 28 anni di dittatura di Robert Mugabe l'hanno minata come il precedente governo coloniale di Ian Smith. Ora Mugabe ammassa truppe, blocca i procedimenti giudiziari e i lavori della commissione elettorale e impone l'ombra oppressiva del suo governo".
"È tempo di agire con decisione", continua Tsvangirai. "Chiediamo al Fondo monetario internazionale di sospendere gli aiuti allo Zimbabwe finché il presidente non riconoscerà la sua sconfitta. Abbiamo assicurato a Mugabe che non lo perseguiremo. Le cose da fare per ricostruire lo Zimbabwe sono altre e sono tante".

Links:
- Zimbabwe con il fiato sospeso, Limes on line.

- Zimbabwe: lotta dura tra Mugabe e Tsvangirai, affari internazionali.

UGANDA - Una delle guerre più sporche dell'Africa centrale è, invece, quella combattuta da Joseph Kony, leader dell'Esercito di resistenza del Signore (Lra), contro il governo ugandese. Da vent'anni l'Lra semina il terrore nel nord dell'Uganda – ma dispone di basi anche nel Sudan meridionale e nel nordest della Repubblica Democratica del Congo – con l'obiettivo d'instaurare un regime basato sui dieci comandamenti.
Il conflitto ha causato decine di migliaia di morti e due milioni di profughi. L'Lra è composto per l'80 per cento da ragazzi che hanno meno di 15 anni, la maggior parte rapiti durante i raid nei villaggi del nord del paese. Ora sono in corso dei negoziati di pace a Juba, in Sudan, ostacolati però dalla questione della sorte di Kony, accusato di crimini contro l'umanità dalla Corte penale internazionale. Kony chiede la garanzia di non essere estradato all'Aja, dove rischia una condanna all'ergastolo. Le alternative sono la consegna alla giustizia ugandese o l'esilio. Quest'ultimo permetterebbe a Kony di restare in libertà, ma il leader dell'Lra teme di essere estradato in un secondo momento, com'è successo al dittatore liberiano Charles Taylor. Tuttavia, potrebbe essere costretto ad accettare un compromesso perché la crisi dell'Lra sembra ormai irreversibile. [Fonte: Le Nouvel Afrique Asie – Francia, dicembre 2007]

Links:
- La guerra in Uganda e il ‘profeta’ Kony, Limes on line.

martedì 8 aprile 2008

Vinitaly, la lode al dio Bacco

Vini eccezionali e un’atmosfera del tutto speciale. Il vino al metanolo e i tempi sospetti in cui è stata resa nota l’indagine sulla presunta contraffazione dei brand più prestigiosi. Ma una certezza: i nostri prodotti sono veramente i più apprezzati nel mondo. Possiamo stare tranquilli: in vino veritas!


LA MISSION - Da grande appassionato e cultore del vino, anche quest’anno non potevo certo perdermi il Vinitaly. Homines bibunt vinum. Vinum nectar dei. E così, la decisione di partire alla volta di Verona con un amico è stata del tutto naturale: giacca, cravatta e gemelli (oltre al pass per operatori del settore – procurati da mio cugino) per lanciare l’attacco al mitico stand (foto sopra) dell’azienda Castello Banfi, produttrice del famosissimo Brunello di Montalcino e di tanti altri prodotti che fanno la felicità di chi ama il dono che il dio Bacco ci ha fatto dalla notte dei tempi.
La missione era, ovviamente, quella di poter degustare i migliori vini italiani: Amarone (Veneto), Barolo (Piemonte), Brunello (Toscana). Ma anche quella di approfondire la conoscenza di alcune cantine che offrono prodotti veramente eccezionali. Una di queste, la Frescobaldi (foto qui sotto), ci ha trattato benissimo e ci ha permesso di degustare diversi vini che non capita tutti i giorni di poter apprezzare. Cantine che non permettono a tutti di invadere il loro stand, riservandosi di far accedere solo coloro che hanno un invito personale o che, comunque, si presentano – in una certa maniera – per godere della commistione tra frutto divino e faticoso lavoro dell’uomo, e non certo per ubriacarsi come fossimo all’osteria.


VELENITALY - Di vino ne contengono poco: un terzo al massimo, spesso di meno. Il resto è un miscuglio micidiale: una pozione di acqua, sostanze chimiche, concimi, fertilizzanti e persino una spruzzata di acido muriatico. Veleni a effetto lento: all'inizio non fanno male e ingannano i controlli, poi nell'organismo con il tempo si trasformano in killer cancerogeni. I test sono concordi: tra il 20 e il 40 per cento, non di più. E il resto? Acqua, concimi, fertilizzanti, zucchero, acidi. Sì, acidi: usati per mimetizzare lo zucchero vietato per legge. L'acido cloridrico e l'acido solforico vengono utilizzati per 'rompere' la molecola dello zucchero proibito (il saccarosio) e trasformarlo in glucosio e fruttosio, legali e normalmente presenti nell'uva. Un metodo che consente così di sfuggire ai controlli. Risultato: da una normale analisi non emergerà la contraffazione. I due acidi, assieme alle altre sostanze cancerogene, non uccidono subito, ma lo fanno progressivamente, in modo subdolo. L'acido cloridrico, comunemente chiamato acido muriatico, può provocare profonde ustioni se finisce sulla pelle, se ingerito è devastante.
L'inchiesta è tutt'ora in corso, ma gli elementi raccolti dagli investigatori mostrano un sistema industriale di contraffazione che nasce dalla criminalità organizzata e alimenta le grandi cantine: le aziende coinvolte nello scandalo sono già 20 (8 si trovano al Nord - in provincia di Brescia, Cuneo, Alessandria, Bologna, Modena, Verona, Perugia - il resto invece è sparso tra Puglia e Sicilia. Perché con questo sistema criminale i produttori riuscivano a risparmiare anche il 90 per cento: una cisterna da 300 ettolitri costava 1.300 euro, un decimo del prezzo normalmente chiesto dai grossisti del vino di bassa qualità. L'episodio non è, purtroppo, nuovo: una cantina di Veronella 22 anni fa venne coinvolta dal dramma delle bottiglie al metanolo. Diciannove persone uccise mentre altre 15 persero la vista per colpa del mix a base di mosto e di un alcol sintetico, normalmente utilizzato nelle fabbriche di vernici.
La grande truffa dei marchi made in Italy non riguarda solo le devastanti sofisticazioni che danneggiano la salute, ma anche la presunta qualità dei brand più prestigiosi del nostro mercato agroalimentare. Che dietro le etichette blasonate nasconde spesso e volentieri calici amari. Negli ultimi mesi alcuni dei migliori prodotti nostrani sono finiti nel mirino di procure, dei carabinieri, degli esperti della Forestale e della Guardia di finanza, che hanno aperto inchieste a catena che fanno traballare l'immagine (e le vendite) del food&wine tricolore, proprio durante un appuntamento fondamentale come il Vinitaly di Verona.


NEL BRUNELLO C’è IL TRANELLO - Partiamo dal Brunello di Montalcino, tra i vini Docg più celebri del mondo. Il lavoro degli investigatori sta disegnando una frode in commercio colossale, per cui il 30-40 per cento del carissimo vino prodotto nel 2003 (ma sotto la lente ci sono anche le annate dal 2004 al 2007) rischia di non poter fregiarsi né del marchio di Denominazione d'origine controllata e garantita né del nome 'Brunello'. I pm hanno guardato dentro al bicchiere, e nel fondo hanno scovato il marcio.
Allo stato le aziende coinvolte sono cinque, gli indagati più di 20. L'accusa dei magistrati è, per i cultori, una vera bestemmia: aver mischiato all'uva di qualità Sangiovese, l'unica ammessa dalle rigide regole del disciplinare, altre qualità di origine francese: dal Merlot al Cabernet Sauvignon, dal Petit Verdot al Syrah. Vitigni usati per produrre dal 10 al 20 per cento del prodotto finale. I motivi del taroccamento sono due: le quantità del Sangiovese disponibile, in primis, sono insufficienti a coprire la domanda crescente di mercato. Inoltre il miscelamento sarebbe legato a una mera questione di palato: il consumatore, soprattutto quello americano, preferisce al gusto forte del Brunello Doc una variante morbida, più dolce e 'transalpina'. Molti negano, qualcuno rettifica, Montalcino è sgomenta, ma le prove sembrano schiaccianti.

“CHIANTI D’ABRUZZO” - Se l'alterazione rischia di demolire l'immagine del Brunello, sul piano penale sono molti i capi d'accusa che potrebbero sporcare la fedina degli indagati. Oltre al declassamento del vino e la frode in commercio aggravata dalla norma che tutela i prodotti doc, i pm ipotizzano reati come la falsificazione dei registri di cantina, falso ideologico, la ratifica di documenti truccati. La frode sul Brunello è, infatti, simile a quella messa in piedi sul Chianti classico. L'inchiesta, segretissima, investe alcune grandi aziende che producono - come si legge in vecchi comunicati stampa - 'i rossi italiani più amati dagli americani'. Peccato che il Chianti finito in milioni di bottiglie, in realtà, fosse mescolato con il Montepulciano d'Abruzzo. La truffa è stata smascherata dagli uomini della Guardia di finanza, coordinati dai pm senesi: in controlli di routine hanno scoperto che alcune ditte toscane compravano quantità industriali di Montepulciano dalla Cantina sociale di Tolla, in Abruzzo.


CONCLUSIONE - Abbiamo concluso la serata con la degustazione al Palazzo Gran Guardia (foto qui sopra) in quel di Piazza Brà, compresa una bellissima lezione sulle proprietà (ed il gusto!) del mitico Amarone della Valpolicella. Solo qualche dubbio ci ha sfiorato la mente - ormai decisamente poco lucida, ma abbastanza vigile da riflettere ancora. Innanzitutto la confusa informazione che ha fatto di tutta l’erba un fascio: un conto è la questione del vino ‘avvelenato’ (che coinvolge prodotti di bassa qualità – i vini venduti in brick a pochissimi euro, se non centesimi), un altro quella del presunto taglio di alcuni vini pregiati con altri. In secondo luogo, il fatto che la polemica sia scoppiata proprio in concomitanza con l’appuntamento annuale a Verona. E’ mai possibile che in Italia ci si accorga e si parli di certe cose solo in ben precisi momenti? C’è forse qualcuno che cerca di screditare l’eccezionalità del ‘made in Italy’? La mia esperienza può essere trasparente testimonianza: nessuno sarà mai in grado di abbattere certi nostri prodotti, tanto meno di poterli imitare. Aspetto già con ansia la prossima edizione!

mercoledì 2 aprile 2008

Rialzo Italia

Se le intenzioni di Berlusconi erano quelle di far rialzare l'Italia, di certo non ha mancato di rialzare anche sé stesso. Del resto non è nuovo a stratagemmi del genere. Quello che viene da chiedersi è se avesse pensato ad una soluzione simile per il paese quando ha coniato il suo slogan elettorale. Speriamo di non doverlo mai scoprire...

Le manie di persecuzione e i 'comunisti' del Quirinale

1. È infiacchito. Sembra imbolsito. Si dice che non abbia più tanta voglia. Ma ora che si avvicina l'ordalia del 13 aprile, sempre più spesso il Cavaliere stanco si lascia sopraffare dal vecchio Caimano che è in lui. Dai giorni ruggenti della sua discesa in campo del '94, Berlusconi ha trasformato il conflitto ideologico in uno strumento irriducibile della sua legittimazione politica, e il conflitto istituzionale in un metodo irrinunciabile della sua avventura di governo. Ora che risente vicina la possibilità di un ritorno a Palazzo Chigi, il leader del Pdl non resiste al richiamo della foresta. E riapre le ostilità contro con un simbolo che per gli italiani rappresenta la più preziosa delle istituzioni, ma per lui costituisce la più tormentosa delle ossessioni. Equiparare la presidenza della Repubblica alle "forche caudine" di un Capo dello Stato "che sta dall'altra parte" non è solo un'offesa nei confronti di un galantuomo come Giorgio Napolitano, che in questi due anni difficili non ha mai sconfinato dal perimetro delle funzioni istituzionali che la Costituzione gli assegna e non ha mai valicato il confine delle attribuzioni politiche che il mandato delle Camere gli ha assegnato.

2. La sortita del Cavaliere è soprattutto un insulto nei confronti del sistema dei valori repubblicani, fondato sulla leale collaborazione tra le istituzioni, sul rispetto degli organi di garanzia, sul bilanciamento dei poteri dello Stato. Nonostante i quindici anni di militanza politica e i sei anni e mezzo di esperienza di governo, Berlusconi dimostra di non aver mai metabolizzato fino in fondo questi valori. Lui è e resta "altro". Per lui non ci sono interlocutori istituzionali o politici con i quali dialogare, ma solo nemici da sconfiggere o da imprigionare. Per lui il governo è e resta il Quartier Generale da espugnare, e il Quirinale è e resta il Palazzo d'Inverno da assediare. Ovviamente nell'attesa messianica di conquistare anche quello, e di consegnare finalmente se stesso alla Storia.
La sua uscita di ieri si può spiegare solo in questa ottica distorta del gioco democratico. E a niente valgono i soliti tentativi di ridimensionare la portata dell'attacco al Colle, con la prassi collaudata delle autosmentite successive. Non bastano le parole riparatorie nei confronti di Napolitano, non basta evocare "l'ottimo rapporto", la "stima e l'affetto" ricambiati. Non basta la telefonata di scuse con il Capo dello Stato, per precisare che "lui non c'entra niente".
Per quanto cordiale e contrita sia stata quella chiamata, il danno si è già prodotto. O meglio: ri-prodotto. La toppa che il Cavaliere prova a mettere in serata è peggiore del buco che creato nel pomeriggio. Berlusconi chiarisce che il suo discorso si riferiva al precedente settennato di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale il suo governo ha avuto "un rapporto dialettico", e con il quale si è creato un attrito a proposito della riforma della legge elettorale, con quel premio di maggioranza regionale "che il Quirinale ha preteso".

3. Il Cavaliere mente due volte. La prima volta: il "rapporto dialettico" con Ciampi lo ha creato lui, con le continue forzature legislative che hanno piegato l'economia ai suoi sogni personali e il diritto ai suoi bisogni processuali. Se Ciampi ha rifiutato di firmare la legge Gasparri sulle Tv o la legge Castelli sulla giustizia non dipende dal fatto che stesse "dall'altra parte", cioè che fosse un pericoloso "comunista", ma dal fatto che "dall'altra parte" ci stesse invece lui, il Cavaliere, che era e resta un avventuroso populista.
La seconda volta: non è stato certo Ciampi a imporre il premio su base regionale a Palazzo Madama nella formula mostruosa declinata dal "porcellum". Il Colle, in quell'occasione, si limitò a segnalare la necessità che si rispettasse il dettato costituzionale: l'articolo 57 prescrive che il Senato della Repubblica sia "eletto a base regionale". Tutto qui. Il resto, che l'Italia sta pagando a caro prezzo, lo fecero i sedicenti "esperti" della vecchia Casa delle Libertà: quattro apprendisti stregoni riuniti in una baita di Lorenzago. Semmai, se l'ex Capo dello Stato ha avuto una colpa, è stata quella di non aver rimandato alle Camere anche quell'orribile legge Calderoli, costruita con l'unico obiettivo (purtroppo raggiunto) di rendere il Paese ingovernabile. Altro che "dall'altra parte": Berlusconi dovrebbe ringraziare Ciampi, invece che insolentirlo.

4. Si tratta ora di vedere quali saranno gli effetti di questo ennesimo strappo istituzionale, nei pochi giorni che restano prima delle elezioni. Anche se animato dalla giusta intenzione di ristabilire un principio, ma anche di svelenire la polemica, è difficile che il comunicato diffuso dal Quirinale possa chiudere la partita. Quel testo è al tempo stesso inquietante e confortante. Inquieta il fatto che la più alta magistratura istituzionale del Paese debba essere costretta a ribadire, in piena campagna elettorale, un'evidenza oggettiva di cui nessun leader politico e nessun cittadino comune dovrebbe mai dubitare: la presidenza della Repubblica è per definizione sostanziale e costituzionale un organo di garanzia, che interloquisce ma non interferisce con gli altri poteri dello Stato.
Conforta il fatto che in questa nostra "Repubblica transitoria" in cui tutto sembra rapidamente deperibile e variamente manipolabile, dai fatti della cronaca ai giudizi della storia, il Quirinale rappresenta l'unico presidio autenticamente no-partisan del sistema democratico. L'unico "luogo" fisico e simbolico della politica italiana che non si lascia snaturare dalle logiche iper-partisan e che assicura la necessaria unità dell'azione e la doverosa continuità della missione, indipendentemente da chi sia l'inquilino che lo abita. Non è una cosa da poco, visti i possibili scenari del dopo 13 aprile. E visto soprattutto l'incontenibile istinto del Cavaliere ad usare l'Italia come una semplice appendice di Forza Italia.

Fonte: da un articolo di Massimo Giannini su La Repubblica.

Le sparate del Cavaliere e la campagna elettorale

Da un po' avevo in mente di scrivere qualcosa sul comportamento di Berlusconi in questa campagna elettorale, ma volevo farlo usando parole per le quali avrei avuto bisogno di molto tempo. Non sono solito scrivere solo per farlo. Ho bisogno di informarmi bene, di ragionarci, e poi di esprimerlo nel miglior modo possibile. Ma per fare ciò c'è bisogno di dedicare tempo e fatica ad una passione che purtroppo non mi porta da mangiare. Ergo, il tempo non c'è. Per fortuna ogni tanto sui nostri giornali mi capita di leggere qualcosa che avevo già pensato, ma che - per un motivo o per un altro - non ero stato in grado di esprimere. Quello che segue è un bellissimo editoriale di Eugenio Scalfari, apparso su La Repubblica del 30 marzo scorso. Come se mi avesse rubato il pensiero...

1. Tempo fa, in uno dei miei articoli domenicali, citai una battuta di Petrolini raccontata da un suo scrupoloso biografo. La cito di nuovo perché si attaglia bene al caso presente. Il grande comico romano stava cantando la sua canzone intitolata "Gastone". Arrivato alla fine, uno spettatore del loggione fischiò sonoramente. Petrolini avanzò fino al bordo del palcoscenico, puntò il dito verso il fischiatore e nel silenzio generale disse: "Io nun ce l'ho cò te ma cò quelli che stanno intorno e che ancora nun t'hanno buttato de sotto". Seguì un piccolo parapiglia sopraffatto dagli applausi di tutto il teatro. Così si dovrebbe dire oggi a Berlusconi per il suo comportamento sull'Alitalia, oltre che per tante altre cose.
Pare che finalmente la Consob abbia acceso un faro su quel comportamento e così pure la Procura di Roma. Starebbero esaminando se nelle quotidiane esternazioni berlusconiane vi siano gli estremi del reato di "insider trading" e di turbativa del mercato. Non voglio credere e non credo che il leader del centrodestra stia speculando in Borsa (altri certamente lo fanno e si saranno già arricchiti di parecchi milioni di euro) ma sulla turbativa di mercato non c'è da accender fari, basta affiancare ad ogni dichiarazione berlusconiana le oscillazioni del titolo Alitalia che sono dell'ordine di 30/40 punti all'insù o all'ingiù.
In qualunque mercato del mondo Berlusconi sarebbe già stato chiamato a render conto di quanto dice; l'Agenzia che tutela le contrattazioni di Borsa lo avrebbe ammonito e multato, la magistratura inquirente l'avrebbe già messo sotto processo. Ma soprattutto gli elettori ne avrebbero ricavato un giudizio di inaffidabilità e di non credibilità definitivo.

2. Voglio sperare che gli elettori ancora incerti su chi votare l'abbiano a questo punto escluso dal loro ventaglio di possibilità. Affidare il governo del paese per i prossimi cinque anni a un personaggio che non si fa scrupolo di turbare il mercato con false notizie riportate e diffuse da tutto il sistema mediatico è uno di quegli spettacoli che purtroppo squalificano un paese intero almeno quanto l'immondizia napoletana.
Eccellono in questa gara soprattutto le emittenti televisive, quelle private e quelle pubbliche; in particolare - dispiace dirlo - il Tg1 il quale riferisce in presa diretta le sortite del Cavaliere senza che vi sia una voce che ne sottolinei gli effetti sul listino borsistico. Il risultato è che Berlusconi resta in video per il doppio del tempo del suo principale avversario turbando non solo i mercati borsistici ma anche l'andamento del negoziato tra Air France e sindacati tra lo stupore di tutti gli operatori internazionali. Venerdì sera l'annunciatrice del Tg1 delle ore 20 si è addirittura lasciata andare ad una critica contro la legge della "par condicio", da lei ritenuta incivile, senza spiegare perché in Italia esista una legge del genere, dovuta ad un vergognoso conflitto di interessi che fa capo al proprietario delle reti Mediaset. Legge che peraltro nessuna delle emittenti televisive rispetta a cominciare dal Tg1, già ufficialmente ammonito dall'Agenzia delle comunicazioni.
Evidentemente direttori e conduttori danno per scontata la vittoria elettorale del centrodestra e sanno anche che se l'esito fosse diverso il vincitore di centrosinistra si guarderebbe bene dal praticare vendette. Perciò tanto vale scommettere in anticipo senza rischiare nulla se non la reputazione. Ma chi si preoccupa della reputazione nell'Italia dei cannoli alla siciliana.

3. Domenica scorsa, occupandomi dell'Alitalia e della fantomatica cordata patriottica berlusconiana, scrissi che a mio avviso quella cordata ci sarà davvero se Berlusconi vincerà. Per lui è un punto d'onore e i mezzi per realizzare l'obiettivo ci sono. Li ho anche enumerati ed è stato proprio il leader del centrodestra a confermarlo quando ha detto appena ieri che dopo la sua sicura vittoria chiamerà uno ad uno gli imprenditori italiani per chiedere l'obolo di san Silvio e "voglio vedere chi non ci starà". Ci staranno tutti, non c'è dubbio alcuno, "chinati erba che passa il vento". Ci staranno i capi delle società pubbliche a cominciare dall'Eni e da Finmeccanica, in attesa di riconferma o di nuova nomina; ci staranno i capi di imprese private concessionarie dello Stato, ci staranno le banche desiderose di benefici; ci staranno le imprese medie che hanno già o ambiscono di avere rapporti fluidi con l'uomo che dovrebbe governare l'Italia per altri cinque anni in attesa di volare per altri sette sul più alto Colle di Roma.
Il mercato? Chissenefrega del mercato, contano i rapporti tra affari e politica e il Berlusca è imbattibile su quel terreno: tu dai una cosa a me e io do una cosa a te. Il mercato di Berlusconi si configura così e non saranno certo un Tremonti o un Letta ad impedirglielo, anzi. Quanto a Fini non è neppure il caso di scomodarsi a chiedere: lui aspetta l'eredità ed è d'accordo su tutto, sebbene non sia ancora certo dell'esito d'una così lunga attesa.
Dunque la cordata patriottica ci sarà. Ma che tipo di cordata? L'obolo di san Silvio versato dagli imprenditori non è sufficiente, se supererà il miliardo sarà già molto, ma diciamo pure che arrivi a due o a tre. Per rilanciare Alitalia e insieme Malpensa e la Sea ce ne vogliono almeno altri otto. E in più ci vuole un "know-how" che non si improvvisa. Forse i tedeschi di Lufthansa? Forse gli americani del Tpg? Forse l'Aeroflot di Putin? Air One non è decentemente presentabile come vettore di due hub con pretese internazionali. Dunque la cordata patriottica non sarebbe patriottica se non nei fiocchi che impacchettano il torrone. Il torrone sarebbe straniero. L'organizzazione sarebbe straniera. Gli esuberi sarebbero trattati dal gestore straniero, esattamente come sta accadendo in queste ore con Air France, ma con una variante in più: la pratica richiede tempo e il tempo non c'è. Per allungarlo ci vuole un aiuto di Stato, vietato dall'Ue in mancanza di garanzie bancabili. Se questa norma fosse violata saremmo denunciati alla Corte di giustizia europea e multati pesantemente.
Oppure si va, volutamente, al fallimento come anche ora si rischia di fare. Allora tutto diventa più facile perché il fallimento significa congelamento dei debiti e interruzione dei contratti di lavoro. I nuovi padroni decideranno a tempo debito quali di quei contratti rinnovare e quali no, ripartendo comunque da zero. Dov'è la vittoria? Si sciolga la chioma e se la lasci tagliare. La prospettiva, diciamolo, non è esaltante.

4. Nella stessa giornata di ieri il Cavaliere si è manifestato anche a proposito del cosiddetto voto disgiunto e ha tirato in ballo sua eminenza il cardinal Ruini. Eminence, come dice la Littizzetto. È stata una pagina da manuale. Per chi se la fosse persa raccontiamola perché ne vale la pena. E cominciamo dal voto disgiunto. Che cosa significa? Perché è venuta fuori questa ipotesi? Normalmente un elettore vota per lo stesso partito nella scheda della Camera e in quella del Senato, specie ora con una legge come l'attuale che non prevede preferenze ai candidati. Nella sua assoluta certezza di vincere le elezioni alla Camera, nell'animo di Berlusconi si è però insinuato il dubbio di pareggiare o addirittura di perdere al Senato (aggiungo tra parentesi che questa ipotesi corrisponde esattamente alla realtà). Perciò suggerisce agli elettori centristi il cosiddetto voto disgiunto: votino pure per Casini Udc alla Camera, ma al Senato no, al Senato votino per il Pdl in modo da evitare il pareggio. Che c'entra Eminence in questo pasticcio? Il Cavaliere ce lo fa entrare, gli chiede pubblicamente di entrarci e gli fa pubblicamente presenti i vantaggi che avrà se eseguirà il mandato o invece i danni che può subire se rifiuterà di adoperarsi in favore. Convinca Casini a incoraggiare o almeno a subire senza strilli il voto disgiunto. In cambio (è il Cavaliere che parla) avrà l'impegno del nuovo governo ad adottare tutti i provvedimenti chiesti dalla Chiesa in tema di coppie di fatto (mai), di procreazione assistita (abolirla), di eutanasia (quod deus avertat), di testamento biologico (come sopra), di aborto (moratoria e radicale riforma), di Corano nelle scuole (divieto), di insegnamento religioso (anche all'Università). Se c'è altro chiedetelo e "aperietur". Ma se rifiuterà, tutto diventerà problematico. In fondo (molto in fondo) lo Stato è laico e bisogna pur tenerne conto. Se lo ricordi, sua Eminenza, e non creda che la partita si giochi sul velluto. Del resto il Papa ha pur battezzato Magdi Allam. E dunque il Cavaliere ne adotterà il programma e magari farà in modo di fargli affidare la direzione del "Corriere della Sera", purché gli elettori dell'Udc votino per Berlusconi al Senato. Ha sentito, Eminenza?

5. Una cosa risulta chiara: hanno ridotto la religione ad una partita di giro. Forse per la gerarchia ecclesiastica lo è sempre stata, per i cardinali e per molti vescovi. Ma non fino a questo punto. I credenti per primi dovrebbero esserne schifati e ribellarsi di fronte a questa vera e propria simonia. Gli opinionisti (esistono ancora?) dovrebbero spiegarla e indignarsene.
Ho un presentimento: il centrosinistra vincerà sia alla Camera sia al Senato. Fino a pochi giorni fa pensavo il contrario, che non ce l'avrebbe fatta. Ebbene ho cambiato idea. Ce la fa. Con avversari di questo livello non si può perdere. Gli elettori cominciano a capirlo. Io sono pronto a scommetterci.

martedì 1 aprile 2008

La Turchia sull'orlo di una crisi istituzionale

Il Vaticano turco - In Turchia, oltre al patriarcato greco ortodosso di Costantinopoli (antica denominazione di Istanbul), ha sede anche il patriarcato turco ortodosso indipendente. È nato negli anni venti in contrapposizione al patriarcato ecumenico, che molti guardavano con sospetto, considerandolo la base per la nascita di un "Vaticano" greco-cristiano nel cuore di Istanbul. Frutto della rivalità greco-turca, il patriarcato turco ortodosso è stato fondato da un pope di origini greche, che ha turchizzato il suo nome in Pavli Eftim Erenerol al momento della nascita della Repubblica turca. Di recente questa istituzione religiosa, spesso manipolata dallo stato per fini politici, è stata coinvolta in un tentativo di colpo di stato per mano degli ultranazionalisti. La polizia ha infatti sventato un complotto per destituire nel 2009 il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp). L'operazione ha svelato anche una serie di legami occulti tra istituzioni ufficiali, mafia, estrema destra e forze armate, rapporti già in piedi da anni. Tra gli arrestati ci sono anche l'avvocato che aveva attaccato la scrittrice Elif Shafak e la portavoce del patriarcato turco ortodosso, che aveva concesso i locali per gli incontri di questa cupola nazionalista. [Fonte: Aksyon, 5 febbraio 2008]

Velo e laicità - La liberalizzazione del velo nelle università, votata dal parlamento turco, ha suscitato molte reazioni nel mondo accademico. Innanzitutto perché le università sono le prime interessate, ma anche perché il regime instaurato dal colpo di stato del 1980 conferiva un ruolo politico al Consiglio dell'insegnamento superiore. Finora la sua funzione era stata soprattutto quella di tenere lontani dall'università prima gli elementi di sinistra e poi quelli islamici. Negli ultimi anni, il Consiglio dei rettori era così diventato il rappresentante della laicità kemalista. Non sorprende allora che il Consiglio si sia immediatamente pronunciato contro il voto del parlamento, ritenendolo la premessa di una controrivoluzione. Ma il mondo accademico non è monolitico: alcuni docenti hanno infatti reagito in senso contrario, firmando una petizione che chiede un clima di libertà nell'università ed esprimendo il loro sostegno all'uso del velo. Lanciata da due professori (uno dei quali è un editorialista del quotidiano Zaman, dello stesso gruppo editoriale di Aksiyon), questa petizione ha raccolto più di tre milioni di firme, dimostrando che l'università, come tutta la società turca, è attraversata da un profondo dibattito che riguarda l'identità laica della Turchia. [Fonte: Aksyon, 12 febbraio 2008]

Islamici fuori legge? - Il settimanale Aksiyon, vicino al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp, al governo), si è occupato approfonditamente della richiesta del presidente della Corte di Cassazione turca, Abdurrahman Yalcinkaya, di mettere fuori legge l'Akp. È la prima volta che un partito – al potere da cinque anni e riconfermato nel luglio scorso con il 47 per cento dei voti – rischia di essere vietato per l'accusa di aver minato la laicità dello stato rivolta al governo del primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Sembra che i giudici vogliano a tutti i costi far cadere l'Akp, di cui è difficile contestare la legittimità elettorale. Anche i magistrati, infatti, sono considerati parte di quell'establishment che non vuole l'Akp al potere. "I segni del malcontento si moltiplicano da tempo", spiega il settimanale. I rettori, per esempio, hanno invitato alla disobbedienza civile contro il velo islamico nelle università. E la polizia ha da poco sventato un colpo di stato. Si trattava di un piano per deporre l'Akp anche con azioni violente. Nel tentativo di golpe sono risultati coinvolti un generale in pensione, un giornalista e l'ex rettore dell'università di Istanbul. Insomma, tutte personalità che hanno legami molto stretti con l'establishment turco. [Fonte: Aksyon, 25 marzo 2008]

Partito di governo sotto processo - Il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), attualmente al governo, sarà processato per "attività antilaiche". Lo ha deciso lunedì la corte costituzionale di Ankara, che ha formalmente accettato la richiesta avanzata il 14 marzo scorso dal procuratore della cassazione, Abdurrahman Yalcinkaya, secondo cui l'Akp e i suoi dirigenti si sono resi responsabili di provvedimenti che minano il principio di secolarità, sancito dalla costituzione turca. Il rischio dunque, è che si apra un periodo di grave crisi istituzionale, che potrebbe coinvolgere anche l'esercito, da sempre guardiano del principio di laicità dello stato, e le forze di polizia, che negli ultimi anni sono state egemonizzate dal partito del premier Recep Tayyip Erdogan. [Fonte: Turkish Daily News, 1 aprile 2008]