sabato 1 dicembre 2007

Annapolis, l'ennesima farsa

1. Sorrisi, strette di mano, banchetti, brindisi con tanto di cin-cin, vuota retorica e tanti applausi: le scene viste ad Annapolis sono purtroppo molto simili a quelle che si è abituati a vedere dal 1993, quando ad Oslo partì quel fantomatico oggetto misterioso che viene definito ‘Processo di pace’. E' solo l'ultimo capitolo in ordine di tempo di una farsa. C'era da aspettarselo.
Perché come ogni volta, dietro la parvenza di quello che la comunità internazionale vuole spacciare per accordo, si celano altri interessi e altre strategie. Per continuare il progetto imperiale - oltre al tentativo di condizionare la politica interna statunitense del prossimo mandato - George 'dabliù' e la brigata neocon stanno costruendo un asse sunnita-moderato per isolare Teheran e limitarne l'influenza nella regione, visto che un attacco diretto sembra alquanto improbabile nelle condizioni attuali. Ma ha anche bisogno di lasciare l'immagine - aiutato dai sempre più pietosi think tank occidentali - di colui che ha strenuamente tentato di riportare la situazione alla normalità e cancellare così gli errori della sua disastrosa presidenza. Normalità per lui e i suoi compiacenti - of course. Come si fa infatti a chiamare conferenza di pace un incontro in cui sono assenti proprio i soggetti (Iran, Hamas) che dovevano, ragionevolmente, essere i primi invitati?

2. Sul piano regionale, è chiaro che Annapolis rappresenta l’atto finale dell’accerchiamento alla repubblica islamica, con l’evidente – quanto impossibile – obiettivo di un ‘cambio di regime’ a Teheran, da perseguire – tanto per inziare - tramite una serie asfissiante di sanzioni economiche. Ma c’è chi a Washington vorrebbe l’ennesima guerra, magari preparando ancora un po’ il campo gettando benzina sul fuoco dei separatismi etnici, soprattutto quello curdo e baluci.
Con l’esercito americano in Iraq e Afghanistan e le alleanze con Turchia e Pakistan, il confezionamento di un asse anti-iraniano (‘sunnita-moderato’) stringe ulteriormente il cerchio: dai già allineati Egitto, Giordania e Arabia Saudita, si amplia agli altri stati della penisola arabica. Di più: Annapolis è il chiaro tentativo di incrinare la tradizionale alleanza siro-iraniana, facendo concessioni ad Assad sul Golan e sul tribolato fronte libanese.
La presenza siriana (manca però l’Iraq) è così servita all’amministrazione Bush per pubblicizzare il carattere ‘panarabo’ dell’iniziativa e per sondare il terreno con Damasco su un eventuale futura intesa per indebolire Tehran e i suoi alleati, in primis il movimento palestinese Hamas e quello libanese Hizbullah. Nell’ottica statunitense, inoltre, se la Repubblica islamica va isolata dal contesto arabo, l’attuale governo iracheno di Nuri al-Maliki non va ulteriormente indebolito o esposto a nuove minacce da parte dei clienti iraniani in Iraq. La sua assenza si spiega, quindi, solo mettendo da parte la questione palestinese e considerando l’enorme influenza di cui alcuni ambienti politici iracheni vicini all’Iran godono nei palazzi del potere di Baghdad.
Annapolis è, dunque, la rampa di lancio dell’imminente attacco all’Iran? Molti giurano di si, altri, più realisticamente, collocano l’evento nella seconda metà del 2008.
Per come sono messi gli Stati uniti credo che sia decisamente improbabile. Da anatra zoppa diventerebbero un'anatra stecchita, con le fiere cinesi e russe a dividersi la carcassa. A prescindere da quale tipo di attacco si prospetti: dando per scontato che un’operazione terrestre sia fisicamente impossibile (per la natura del territorio iraniano, per la potenza delle sue truppe e per il fatto che gli americani sono già fortemente impegnati in altri 2 fronti) rimarrebbe l'opzione ‘Osirak’ sul tavolo. Ma anche quella costituirebbe una sorta di suicidio, soprattutto in un momento in cui mutui sub-prime, indebolimento del dollaro e debito pesano come macigni. Senza contare tutti gli altri motivi: dalle certe ritorsioni iraniane in Iraq e in Israele (tramite Hizbullah e Hamas) fino alle ‘proteste’ sino-russe che costringerebbero gli Usa ad impegnarsi in una guerra commerciale che finirebbero per straperdere. Per non parlare poi del fattore ‘prezzo del petrolio’ che con la chiusura dello stretto di Hormuz raggiungerebbe livelli impensabili e insostenibili. Dal canto suo l'Ue non ha il potere per fare nulla e i singoli stati membri possono esclusivamente decidere se stare al fianco dell'impero o distaccarsene per ragioni commerciali e/o ideologiche.

3. Vista dallo scenario interno israeliano e palestinese, la conferenza è finita prima ancora di cominciare a causa della debolezza interna dei rispettivi leaders: se Abbas – con Gaza in mano ad Hamas e la Cisgiordania ridotta a brandelli – rappresenta poco più che sé stesso, dall’altra parte Olmert non dorme sonni tranquilli, incalzato dall’opposizione di destra. In particolare, dal parlamentare Avigdor Lieberman che pretendeva di imporre ai palestinesi un’ulteriore condizione: il riconoscimento di Israele in quanto ‘stato ebraico’. Per Zvi Bar’el [1] l’unico risultato di Annapolis sta nel fatto che “adesso Olmert può elogiare Abu Mazen, dicendo che finalmente c’è un interlocutore palestinese con cui dialogare. Il problema, purtroppo per lui, è che manca l’interlocutore israeliano”.
Per cui tutto è già stato deciso dalla Knesset, il parlamento israeliano, che ha approvato una proposta di legge che sposta a 2/3 (80 parlamentari) la maggioranza necessaria al governo per modificare i confini di Gerusalemme – fino ad ora bastava la maggioranza assoluta. Secondo la Costituzione, inoltre, dopo l’approvazione nell’iter parlamentare, la modificazione deve essere sottoposta a referendum.
Rimangono, così, irrisolte tutte le questioni che ben si conoscono e che nel 2002 erano state riformulate in base al piano di pace arabo lanciato dall’iniziativa saudita. Ma Israele non ha mai accettato quel piano e non ne ha presentato uno suo che proponesse una soluzione decente ai nodi più spinosi. Anzi. “I tentativi di Israele di far fallire la conferenza di Annapolis – si chiede Raghida Dergham [2]prima ancora del suo inizio sollevano un interrogativo fondamentale: se Israele vuole veramente la pace, perché si comporta così? (…) Le posizioni di Israele, che punta a sabotare la conferenza, rientrano nel suo tentativo di mettere in difficoltà i moderati palestinesi (…) sta cercando di fomentare la divisione tra palestinesi perché è convinto che sia nel suo interesse. E si sta già preparando militarmente per la fase successiva ad Annapolis, che prevede un’ondata di ribellione contro l’Anp se la conferenza non farà avanzare in modo significativo il processo di pace”.

4. Gli ostacoli alla pace erano già ampiamente stati ricordati in un'ottima analisi di un gruppo di ricerca dello US/Middle East Project, Inc.: il problema dei confini del ’67, continuamente eluso da Israele con gli insediamenti e il muro in Cisgiordania, lo status di Gerusalemme, che la politica abitativa israeliana ha sottratto agli arabi (64 kmq in meno rispetto alla guerra dei ‘sei giorni’), il ritorno e il risarcimento dei profughi dal ’48 a oggi, e, non meno importante, il controllo delle risorse idriche, già abbondantemente a favore di Tel Aviv (cliccare sulla scheda a sinistra per ingrandirla). Tutte queste cose non preoccupano minimamente Abu Mazen, ma hanno suscitato le proteste di Hamas e di tutta l’opposizione integralista. Già, proprio Hamas – l’unico attore definibile legittimo, ma trascurato dai potenti che vorrebbero imporre la loro visione di ‘pace’.Come ebbe a scrivere Henry Siegman, autorevole studioso del Council on Foreign Relations, in un'ottima analisi ("Hamas: the last chance for peace", The New York Review of Books, vol.53, n.7 del 27 aprile 2006) Hamas si è dimostrato un attore pragmatico e, soprattutto, l'unico del dopo Arafat - che personalmente non giudico nel complesso buono - forte di una grossa legittimità popolare tanto da poter affermare che proprio senza di esso la pace sembrerebbe impossibile. E invece...strangolamento. Aggiungerei un elemento: perché IsraelUsa insiste col cavallo morto Abu Mazin invece di sciogliere le briglia a Barghuti? Risposta semplice: quest'ultimo - che pure è di Fatah - cercherebbe un proficuo dialogo con la parte moderata di Hamas; al contempo Hamas non presterebbe il fianco cercando aiuto a Teheran (sappiamo tutti che lo farebbe, anche solo per motivi religiosi come la contrapposizione sunniti-sciiti) e probabilmente non avrebbe neanche sconfinato nel controproducente golpe di Gaza. Il popolo palestinese conquisterebbe forse definitivamente una vera coscienza di sé. Troppo poetico e degno di un sognatore?

NOTE:

[1] Dar al-Hayat, Libano - Vincere l'indifferenza, Internazionale n.720.
[2] Ha'aretz, Israele - Alla prossima volta, Internazionale n.720.
* PER APPROFONDIRE:
- Dietro le quinte di Annapolis, DOMINIQUE VIDAL - Le Monde diplomatique, novembre 2007.

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