martedì 25 novembre 2008

Pensare l'impensabile

Dunque, si poteva fare tutto. Un intervento finanziario massiccio dello stato, dimenticando i vincoli del patto di stabilità europeo. La capitolazione delle banche centrali a fronte dell'urgenza di un rilancio. La messa all'indice dei paradisi fiscali. Tutto era possibile, dal momento che si dovevano salvare le banche. Per trent'anni, ogni idea anche minima di una qualsiasi alterazione dei fondamenti dell'ordine liberista, ad esempio allo scopo di migliorare le condizioni di vita della maggioranza della popolazione, si scontrava immancabilmente con lo stesso tipo di argomentazioni: non si può essere arcaici; la globalizzazione è la nostra legge; le casse sono vuote; i mercati non accetterebbero. O anche: non vi siete accorti che il muro di Berlino è caduto? Per un trentennio si è andati avanti con le «riforme», ma nella direzione opposta: quella di una rivoluzione conservatrice che ha consegnato alla finanza fette sempre più consistenti e succose del bene comune, quali i servizi pubblici privatizzati e trasformati in macchine da soldi al fine di «creare valore» per l'azionista. E di una liberalizzazione degli scambi che ha eroso i salari e la protezione sociale, costringendo decine di migliaia di persone a indebitarsi per preservare il proprio potere d'acquisto, a «investire» in borsa o nelle assicurazioni per pagarsi l'istruzione, premunirsi in caso di malattia, prepararsi una pensione.
La deflazione salariale e i tagli nel campo delle tutele sociali hanno dunque prodotto e favorito la finanziarizzazione sfrenata: si è creato il rischio per poi incoraggiare misure cautelative. In breve, la bolla speculativa si è estesa agli alloggi, trasformati in investimenti. E ha continuato a gonfiarsi con l'elio dell'ideologia del mercato. E al tempo stesso è cambiata la mentalità delle persone, meno solidali, sempre più individualiste e calcolatrici. Il crack del 2008 non è dunque essenzialmente tecnico, emendabile con palliativi quali la «moralizzazione» o la fine degli «abusi». È il tracollo di tutto un sistema.Al suo capezzale si stanno dando da fare in tanti, nella speranza di risollevarlo, raffazzonarlo, rimpannucciarlo, per metterlo in grado di infliggere domani qualche nuovo colpaccio alla società.
I medici che simulano indignazione davanti alle conseguenze del liberismo sono però gli stessi che gli hanno fornito i vari afrodisiaci - ideologici, regolamentari, fiscali e di bilancio - grazie ai quali ha potuto scatenarsi senza freni. Sono squalificati, e dovrebbero ammetterlo. Ma sanno bene che un intero esercito politico e mediatico è pronto a fare di tutto per riabilitarli. Si pensi a Gordon Brown, già ministro delle finanze britannico, che come prima misura concesse alla Banca d'Inghilterra la sua «indipendenza»; a José Manuel Barroso, che presiede una Commissione europea con l'ossessione della «concorrenza»; a Nicolas Sarkozy, artefice dello «scudo fiscale», promotore del lavoro domenicale e della privatizzazione delle Poste: sembra sia questo il terzetto che oggi si adopera per «rifondare il capitalismo...» UNA TALE SFRONTATEZZA si spiega anche con una strana assenza. Difatti, dov'è la sinistra?
Quella ufficiale, che ha accompagnato il liberismo e voluto la deregulation del mondo finanziario durante la presidenza del democratico William Clinton, che ha abolito l'indicizzazione dei salari con François Mitterrand, prima di privatizzare, con Lionel Jospin e Dominique Strauss Kahn, o di tagliare con l'accetta le indennità di disoccupazione con Gerhard Schroeder, non ha evidentemente altra ambizione che quella di voltare pagina al più presto, per far dimenticare una crisi di cui è corresponsabile. Ma l'altra sinistra? Può accontentarsi, in un momento come questo, di rispolverare i suoi più timidi e modesti progetti, quantunque non privi di utilità, quali la Tobin tax, l'aumento del salario minimo, i parchi eolici o una nuova Bretton Woods?
Nel periodo keynesiano, la destra liberista ha pensato l'impensabile, e per imporlo ha approfittato di una grande crisi. Fin dal 1949 Friedrich Hayek, padrino intellettuale della corrente che ha prodotto un Ronald Reagan e una Margaret Thatcher, spiegava infatti: «Per un liberale coerente, ecco qual è la principale lezione da trarre dal successo dei socialisti: a rendere possibile ogni giorno ciò che ancora ieri sembrava irrealizzabile (...) è il loro coraggio di essere utopisti». Allora, chi proporrà di mettere in discussione il cuore stesso del sistema, il libero scambio
? Nell'agosto 1993 il premio Nobel ultraliberista Gary Becker spiegava: “Il diritto del lavoro e la tutela dell'ambiente sono divenuti eccessivi nella maggior parte dei paesi sviluppati. Il libero scambio reprimerà alcuni di questi eccessi, obbligando ciascuno a rimanere concorrenziale a fronte delle importazioni dei paesi in via di sviluppo”. «Utopia»? Oggi tutto è possibile, quando si tratta delle banche...

SERGE HALIMI - Le Monde diplomatique, nov 2008

sabato 15 novembre 2008

Bye bye Neocons

GEORGE W. BUSH – 43° e peggiore presidente della storia degli Stati Uniti d’America (almeno per ora)
DONALD RUMSFELD – esponente della destra ultraconservatrice, segretario della difesa
CONDOLEEZA RICE – segretario di stato
DICK CHANEY – vice presidente e, quindi, presidente del senato, personaggio estremamente oscuro
KARL ROVE – consigliere politico e uno dei fedelissimi di Bush, è stato vice-capo dello Staff presidenziale fino alla data delle sue dimissioni


ALBERTO R. GONZALES – capo del dipartimento di giustizia