venerdì 27 febbraio 2009

Speciale Parlamento europeo - INTRODUZIONE

Nonostante gli sforzi per l’approvazione di un Trattato costituzionale come atto di autentica rifondazione dell’Unione, sono molte le opinioni secondo le quali la “casa comune europea” non sarà, almeno nel prossimo futuro, destinata ad assumere la forma del tradizionale Stato unitario, neppure a struttura federale. E anche se il futuro dovesse portare all’Unione una vera e propria Costituzione, essa viene ritenuta da molti una Costituzione “senza Stato”. C’è da chiedersi, però, se la nuova Costituzione sarà anche una Costituzione senza popolo, argomento sul quale non vi è convergenza di vedute nella letteratura.
Da un lato, infatti, le tesi scettiche, che vedono quale principale esponente Grimm, sottolineano come le barriere linguistiche, il diverso modo di pensare dell’opinione pubblica e la differente offerta politica nei paesi membri rendano di fatto impossibile la formazione, almeno a breve-medio termine, di un effettivo popolo europeo. Sul versante opposto si collocano, invece, le tesi costruttiviste che, secondo il pensiero di Habermas, pongono l’accento sulla forte potenzialità dei processi democratici già attivi in una zona largamente integrata come quella europea e sull’ effetto propulsivo e trainante delle istituzioni comunitarie.
Uno dei punti cruciali del dibattito sull’ esistenza di un effettivo demos europeo è incentrato sulla presenza di un’arena politica europea, che non dovrebbe essere dominata dalla dialettica tra gli esecutivi, ma strutturata dal confronto tra diversi orientamenti ideologici, dei quali si facciano portatori movimenti e partiti a livello realmente europeo. Proprio su questo terreno stanno emergendo segnali interessanti, che introducono elementi nuovi e concreti in un ambito, quale quello del confronto politico europeo, che è rimasto fino ad oggi su un piano del tutto teorico.
Da un lato, i partiti nazionali stanno scoprendo, nel nostro paese come altrove, i vantaggi derivanti anche ai fini della politica “interna” da sinergie sempre più strette con una delle grandi famiglie politiche europee; dall’altro, l’istituzionalizzazione dei partiti politici europei ha subito negli ultimi anni una brusca accelerazione culminata con l’approvazione nel novembre 2003 del regolamento sullo statuto e il finanziamento dei partiti politici europei, entrato in vigore nel luglio 2004 successivamente alle elezioni del Parlamento europeo.
Le ragioni per le quali il ruolo di veri partiti di livello europeo potrà essere di grande importanza sono molteplici, legate sia alle sfide alle quali dovrà rispondere l’ Unione nel suo complesso, sia, in particolare, alle conseguenze che le risposte che saranno date a tali sfide avranno per l’ evoluzione istituzionale del Parlamento europeo. In questo quadro, il Parlamento dovrà avere l’ opportunità di affermare in maniera più incisiva il proprio ruolo all’ interno dell’ architettura istituzionale comunitaria, in special modo nei confronti degli altri organi decisionali.
Tali aspetti potrebbero far pensare ad un aumento dell’ importanza delle elezioni agli occhi dell’ opinione pubblica dei diversi paesi; ciò contrasta, però, con l’ esperienza delle precedenti tornate elettorali che non hanno mai registrato un apprezzabile aumento della rilevanza attribuita all’ evento da parte dei cittadini. Questo tiepido atteggiamento dell’ elettorato è confermato dal declino della partecipazione elettorale, anche se è una tendenza che investe tutti i tipi di elezione in quasi tutti i paesi europei, e il suo manifestarsi al livello dell’ Unione è in contrasto con il peso sempre più rilevante che l’ Europa sta assumendo su ogni piano. L’ atteggiamento distratto e poco partecipato dei cittadini europei può essere attribuito, almeno in parte, al cosiddetto “deficit democratico”.
Questa celebre espressione, riferita per la prima volta al Parlamento europeo nel 1979 dallo studioso inglese David Marquand, sottolinea la posizione di debolezza del Parlamento rispetto alle altre istituzioni europee, nonostante la legittimazione che ad esso deriva dal fatto di essere direttamente eletto dai cittadini. Infatti, il Parlamento è solo uno dei due organi legislativi dell’ Unione e, a tutt’oggi, neanche il più importante. Il fatto che il ruolo principale nell’emanazione degli atti normativi comunitari sia svolto dal Consiglio è considerato un limite rilevante dell’ ordinamento dell’ Unione; tale caratteristica costituisce uno degli aspetti più originali, ma determina anche una continua tensione tra spinte evolutive e conservazione della situazione esistente.
Il deficit democratico è dovuto anche alla problematicità dei rapporti tra istituzioni sovranazionali – il Parlamento e la Commissione – e intergovernative – il Consiglio dei ministri e il Consiglio europeo. Le prime hanno una ragion d’essere e un’identità che trascende le singole nazioni, mentre le seconde sono la sommatoria di singole identità nazionali. I due tipi di istituzioni, soprattutto dopo l’introduzione delle elezioni a suffragio universale del Parlamento, costituiscono due diversi circuiti istituzionali all’interno dell’ Unione: il deficit democratico risulta, quindi, dai limiti e dall’ incompletezza del circuito sovranazionale, ma anche dai difetti di quello intergovernativo. Insime, limiti e difetti delle istituzioni comunitarie impediscono che la dimensione sovranazionale dell’ Europa abbia una propria legittimità: le decisioni e gli indirizzi presi dall’ Unione sono legittimi in quanto lo sono i governi nazionali che, attraverso i loro ministri, esercitano un ruolo preponderante nell’approvazione della legislazione comunitaria.
Nella quasi completa assenza di strumenti sovranazionali di controllo e di coercizione, il compito di assicurare l’attuazione delle direttive comunitarie viene lasciato ai singoli organismi nazionali che spesso consentono, a propria discrezione, notevoli ritardi nella effettiva messa in atto di quelle disposizioni considerate meno gradite. Se l’ Unione fosse governata da istituzioni compiutamente sovranazionali e non dagli attuali processi intergovernativi, basati su negoziati tra i rappresentanti dei governi nazionali, gran parte degli inconvenienti alla base del deficit democratico verrebbero meno.
Il passaggio a un autentico governo sovranazionale è necessariamente legato a un rapporto di responsabilità che deve essere stabilito nei confronti del Parlamento, che, in virtù della sua elezione diretta, gode di una legittimità europea propria e possiede un carattere che esula dalle specifiche identità nazionali. Finora il Parlamento europeo non è stato in grado di sfruttare pienamente le sue potenzialità a causa dell’ inadeguatezza dei suoi poteri: sul piano legislativo tali poteri sono ancora deficitari per quanto riguarda la fase decisionale e quasi inesistenti in quella dell’ iniziativa legislativa stessa; sul piano del controllo dell’ esecutivo esso difetta degli strumenti costituzionali per esercitare efficacemente tali prerogative. Questa situazione ambigua non è dovuta solo all’ indeterminatezza, che pure si sta dissipando, del rapporto con l’altro organo sovranazionale, la Commissione, ma soprattutto al fatto che questa condivide le proprie funzioni di governo con il Consiglio dei ministri: questa istituzione è, infatti, emanazione del governo nazionale, legittimata e, per forza di cose, non dipendente dal Parlamento europeo.
In questo quadro, dominato più dalla contraddittorietà e dall’ incertezza che non dalla presenza di elementi definiti, un ruolo importante, se non fondamentale, dovrà necessariamente essere giocato dai partiti politici, i quali sono gli unici attori capaci di coinvolgere i singoli cittadini nella vita politica dell’ Unione. Il Trattato istitutivo delle Comunità europee prevede, all’art. 191, che la creazione di partiti politici europei costituisca un importante fattore di integrazione al fine di rafforzare la nascita di una coscienza sovranazionale, in modo che i popoli esprimano una posizione realmente e compiutamente europea non più mediata dai singoli interessi nazionali. Grazie soprattutto all’azione dei partiti politici europei – e al lavoro dei deputati ad essi appartenenti – nel corso degli ultimi anni i poteri del Parlamento sono stati a più riprese ampliati, anche se non in maniera sufficiente da permettere all’ Unione di competere con i governi nazionali e, anzi, di poter agire indipendentemente da essi. Si pensi, ad esempio, al progetto di “statuto comune” dei deputati europei, al quale si è cercati di giungere con ogni sforzo, accantonato ad un passo dall’ approvazione nel gennaio 2004 per le resistenze dei governi nazionali; sarà ora compito del nuovo Parlamento rilanciare tale progetto facendo in modo che tale attività acquisisca un carattere squisitamente “europeo” e non sia condizionato da elementi di natura meramente “nazionale”.C’è, dunque, una contraddizione di fondo tra le potenzialità e le effettive capacità del Parlamento europeo che risale alle sue stesse origini; tale situazione potrà trovare una sua efficace soluzione solo attraverso una più marcata democratizzazione del sistema istituzionale che caratterizza l’ Unione: in questo senso i partiti politici europei sono destinati, grazie anche alla recente approvazione del regolamento (CE) n. 2003/2004, che garantisce loro il riconoscimento a livello comunitario, ad essere gli attori principali di un processo senza il quale l’ Europa sarà sempre e solo un’unione economica e non anche un’ unione politica.

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domenica 22 febbraio 2009

L'abbandono di un popolo

Il 14 gennaio scorso, dopo la strage di oltre mille palestinesi rinchiusi in un'esigua striscia di terra e bombardati a tappeto da terra, dal mare e dal cielo da uno dei più potenti eserciti del mondo; dopo il bombardamento di una scuola palestinese adibita a rifugio delle Nazioni unite [«Beh, c'è stata qualche irregolarità» ha ammesso Avi Pazner, portavoce del governo israeliano - France Inter, 8 gennaio 2009]; dopo l'inascoltata risoluzione dell'Onu, con la quale l'unica istituzione che rappresenta realmente la tanto citata «comunità internazionale» chiedeva invano la cessazione delle operazioni militari a Gaza; dopo tutto questo - il 14 gennaio, per l'appunto - l'Unione europea ha mostrato con quanta determinazione sapeva reagire a un tale scatenamento di violenza e di arroganza. Ha deciso... di introdurre una battuta d'arresto nel suo processo di avvicinamento a Israele! Anche se, per attenuare l'impatto di quello che avrebbe potuto apparire come un borbottio di riprovazione nei confronti di Tel Aviv, ha tenuto a precisare che si trattava di una misura «tecnica» e non «politica». E che la decisione era stata presa «da entrambe le parti».
Israele ha carta bianca. Già in precedenza il suo esercito aveva distrutto la maggior parte delle infrastrutture palestinesi finanziate dall'Unione. La quale ultima praticamente non ha reagito, o quasi. Neppure l'ombra di un'azione giuridica, di una richiesta di riparazione [Pierre Avril, «L'Europe paie, Israël détruit », Le Figaro, Parigi, 16 gennaio 2009]. Dopo di che Israele impone il blocco a una popolazione povera, sprovvista d'acqua, di cibo, di medicinali. E ancora non si muove foglia - se non per le sempiterne rimostranze con cui si mettono i protagonisti spalla contro spalla, col pretesto che non sempre la violenza del più forte porta alla sottomissione del più debole. Perché mai Israele avrebbe dovuto paventare la fine della sua impunità?
Peraltro, già vent'anni fa lo stato ebraico aveva preso le sue precauzioni incoraggiando, contro l'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), il rafforzamento di un avversario ideale: Hamas, un'organizzazione medievale nei suoi programmi, di efficacia militare incerta, per nulla interessata a «comunicare» con l'opinione pubblica occidentale. Per chi desidera poter bombardare e colonizzare senza ostacoli, quale miglior pretesto dell'assenza di un «partner per la pace»? Anche negli Stati Uniti, nulla ormai si contrappone ai disegni del governo di Tel Aviv. Il 9 gennaio, una risoluzione della Camera dei Rappresentanti riconosce a Israele «il diritto di difendersi contro gli attacchi provenienti da Gaza». Qualche ora prima il Senato aveva «riaffermato il deciso appoggio degli Stati uniti a Israele nella sua battaglia contro Hamas». È senz'altro per una preoccupazione di «equilibrio» che nella prima risoluzione - adottata con trecentonovanta voti contro cinque - si presentano nel contempo «le condoglianze alle vittime palestinesi innocenti e alle loro famiglie». Quanto alla seconda risoluzione, è stata approvata all'unanimità. Dunque, anche il fronte dell'esecutivo americano regge bene. Alcune ore dopo l'annuncio del cessate il fuoco unilaterale, Ehud Olmert ha peraltro telefonato al presidente degli Stati uniti per ringraziarlo del suo sostegno. Che si manifesta tra l'altro attraverso aiuti finanziari, non rimborsabili, dell'ordine di tre miliardi di dollari l'anno.
Da tempo più nessuno, neppure un presidente di nome Barack Obama, ha mai pensato di rimetterli in discussione. Il progetto dei grandi partiti israeliani, coperto da appoggi di questa portata, appare chiaro: distruggere la prospettiva di un vero stato palestinese, la cui creazione rappresenta un obiettivo internazionalmente riconosciuto. La Cisgiordania, sfregiata da muri e sbarramenti e infarcita di colonie, sopravviverebbe come un conglomerato di bantustan grazie alle trasfusioni dell'Unione europea. E Gaza potrebbe essere bombardata a piacimento dal suo vicino, ogni qualvolta quest'ultimo decida di reagire - in maniera sproporzionata - ad attentati o lanci di razzi. In fondo è quasi un miracolo che i palestinesi, dopo 61 anni di sconfitte, umiliazioni, esili, violazioni di accordi firmati, colonizzazioni, guerre fratricide, abbandonati alla loro sorte dai governi del mondo intero che autorizzano ogni violazione del diritto internazionale e degli stessi diritti umanitari, siano tuttora determinati a tradurre un giorno la loro identità nazionale in una realtà concreta.
Se ci riusciranno, non lo dovranno né agli europei, né agli americani, né alla maggior parte dei governi arabi. Nei confronti di Gaza tutti, ancora una volta, si sono comportati da complici dell'interminabile spoliazione di un popolo.

SERGE HALIMI - Le monde diplomatique, febbraio 2009

sabato 7 febbraio 2009

Rottura istituzionale

E così anche il caso Englaro è stato strumentalizzato dal governo Berlusconi per procedere con la sua linea politica non curante delle regole e dei ruoli chiaramente affidati alle diverse istituzioni che compongono il nostro ordinamento. Eh si, perché il nostro presidente del consiglio, il suo parrucchino e la sua faccia al botulino, sono estremamente insofferenti alle regole, ai limiti e ai paletti che la nostra Costituzione per fortuna pone a chi ha il compito di governare. Propongo, così, l'ineccepibile lettera del Capo dello Stato con la quale si motiva l'irricevibilità di un decreto (che dovrebbe avere requisiti ben precisi di necessità e urgenza) fatto apposta per distrarre il popolo dalle macchinazioni del premier, in primis la sua voglia di mettere definitivamente il bavaglio ai magistrati.

"Signor Presidente,
lei certamente comprenderà come io condivida le ansietà sue e del Governo rispetto ad una vicenda dolorosissima sul piano umano e quanto mai delicata sul piano istituzionale. Io non posso peraltro, nell’esercizio delle mie funzioni, farmi guidare da altro che un esame obiettivo della rispondenza o meno di un provvedimento legislativo di urgenza alle condizioni specifiche prescritte dalla Costituzione e ai principi da essa sanciti. I temi della disciplina della fine della vita, del testamento biologico e dei trattamenti di alimentazione e di idratazione meccanica sono da tempo all’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche e del Parlamento, specialmente da quando sono stati resi particolarmente acuti dal progresso delle tecniche mediche. Non è un caso se in ragione della loro complessità, dell’incidenza su diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti e della diversità di posizioni che si sono manifestate, trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, non si sia finora pervenuti a decisioni legislative integrative dell’ordinamento giuridico vigente.
Già sotto questo profilo il ricorso al decreto legge – piuttosto che un rinnovato impegno del Parlamento ad adottare con legge ordinaria una disciplina organica - appare soluzione inappropriata. Devo inoltre rilevare che rispetto allo sviluppo della discussione parlamentare non è intervenuto nessun fatto nuovo che possa configurarsi come caso straordinario di necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77 della Costituzione se non l’impulso pur comprensibilmente suscitato dalla pubblicità e drammaticità di un singolo caso. Ma il fondamentale principio della distinzione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato non consente di disattendere la soluzione che per esso è stata individuata da una decisione giudiziaria definitiva sulla base dei principi, anche costituzionali, desumibili dall’ordinamento giuridico vigente.
Decisione definitiva, sotto il profilo dei presupposti di diritto, deve infatti considerarsi, anche un decreto emesso nel corso di un procedimento di volontaria giurisdizione, non ulteriormente impugnabile, che ha avuto ad oggetto contrapposte posizioni di diritto soggettivo e in relazione al quale la Corte di cassazione ha ritenuto ammissibile pronunciarsi a norma dell’articolo 111 della Costituzione: decreto che ha dato applicazione al principio di diritto fissato da una sentenza della Corte di cassazione e che, al pari di questa, non è stato ritenuto invasivo da parte della Corte costituzionale della sfera di competenza del potere legislativo. Desta inoltre gravi perplessità l’adozione di una disciplina dichiaratamente provvisoria e a tempo indeterminato, delle modalità di tutela di diritti della persona costituzionalmente garantiti dal combinato disposto degli articoli 3, 13 e 32 della Costituzione: disciplina altresì circoscritta alle persone che non siano più in grado di manifestare la propria volontà in ordine ad atti costrittivi di disposizione del loro corpo.
Ricordo infine che il potere del Presidente della Repubblica di rifiutare la sottoscrizione di provvedimenti di urgenza manifestamente privi dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza previsti dall’art. 77 della Costituzione o per altro verso manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali discende dalla natura della funzione di garanzia istituzionale che la Costituzione assegna al Capo dello Stato ed è confermata da più precedenti consistenti sia in formali dinieghi di emanazione di decreti legge sia in espresse dichiarazioni di principio di miei predecessori (si indicano nel poscritto i più significativi esempi in tal senso).
Confido che una pacata considerazione delle ragioni da me indicate in questa lettera valga ad evitare un contrasto formale in materia di decretazione di urgenza che finora ci siamo congiuntamente adoperati per evitare".

NOTE - I PRECEDENTI:

- Con una lettera del 24 giugno 1980, il Presidente Pertini rifiutò l’emanazione di un decreto-legge a lui sottoposto per la firma in materia di verifica delle sottoscrizioni delle richieste di referendum abrogativo;

- il 3 giugno 1981, sempre il Presidente Pertini, chiamato a sottoscrivere un provvedimento di urgenza, richiese al Presidente del Consiglio di riconsiderare la congruità dell’emanazione per decreto-legge di norme per la disciplina delle prestazioni di cura erogate dal Servizio Sanitario Nazionale. Nel caso specifico, uno degli argomenti addotti dal Capo dello Stato consisteva nel rilievo della contraddizione tra la disciplina del decreto-legge emanando e “un indirizzo giurisprudenziale in via di definizione”;

- con lettera 10 luglio 1989 al Presidente del Consiglio De Mita, il Presidente Cossiga manifestò la sua riserva in ordine alla presenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza ai fini dell’emanazione di un decreto-legge in materia di profili professionali del personale dell’ANAS e affermò: “Ritengo, pertanto, che, allo stato, sia opportuno soprassedere all’emanazione del provvedimento, in attesa della conclusione del dibattito parlamentare sull’analogo decreto relativo al personale del Ministero dell’interno”;

- in quella stessa lettera e successivamente nella lettera al Presidente del Consiglio Andreotti del 6 febbraio 1990, il Presidente Cossiga richiamò all’osservanza delle specifiche condizioni di urgenza e necessità che giustificano il ricorso alla decretazione di urgenza, ritenendo legittimo da parte sua – in caso di non soddisfacente e convincente motivazione del provvedimento – il puro e semplice rifiuto di emanazione del decreto – legge;

- con un comunicato del 7 marzo 1993, il Presidente Scalfaro, in rapporto all’emanazione di un decreto-legge in materia di finanziamento dei partiti politici invitò il Governo a riconsiderare l’intera questione, ritenendo più appropriata la presentazione alle Camere di un provvedimento in forma diversa da quella del decreto-legge.