mercoledì 26 dicembre 2007

In rainbows - Radiohead


Dopo 4 anni e mezzo di attesa è uscito il nuovo album dei Radiohead, "In rainbows". Scaricabile ad offerta libera fin dal 10 ottobre (10 tracce), è ora acquistabile il discbox (in un cofanetto composto da 2 cds, 2 vinili da 12 pollici e un book con i testi e le artwork di Stanley Danwood) a 40£ (55 euro). In attesa di ricevere l'agognato pacco e provvedere ad una accurata recensione, è possibile godersi Thom &co. in questo video promozionale. Per chi non dovesse accontentarsi (come il sottoscritto) è possibile acquistare i biglietti per il concerto del 17 giugno 2008 all'Arena Civica di Milano. Quelli del 18 (inizialmente prima e unica data italiana) erano andati esauriti in pochissime ore. Chi vi scrive seguirà l'evento entrambe le serate. Il reportage sarà decisamente ricco...

martedì 18 dicembre 2007

Caucaso: vicende storiche e problemi presenti

1. Nel corso del vasto sommovimento politico derivato dal dissolvimento (o ‘implosione’) dell’ impero sovietico – dovuto al crollo dei fattori interni di coesione – esplosero nell’area del Caucaso conflitti di carattere nazionale ed etnico che s’intrecciarono ad un movimento separatista con caratteri peculiari e particolarmente complessi, nonché a problemi di grave portata legati alle condizioni economiche di alcune deboli realtà messe di fronte alle difficili prove del post-comunismo.
La transizione venne condotta all’insegna di una democrazia poco più che di facciata – sotto la quale permaneva, anzi, la vecchia nomenclatura politica – e di una privatizzazione dell’economia che ha de facto sostituito all’oligarchia comunista potenti e incontrollati gruppi di potere, spesso derivati direttamente dai ranghi della prima.
In questa fascia di collegamento geografico tra Mediterraneo e Asia, posta tra il Caspio e il Mar Nero, culturalmente più vicina alle propaggini occidentali dell’Europa ma altrettanto prossima alle zone ad altissima conflittualità del Medio Oriente, il cambiamento ha assunto un ritmo decisamente sostenuto a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.
Sul versante politico, si è assistito al netto declino d’influenza politica e di presenza territoriale della potenza russa, parallelamente – e in maniera inversamente proporzionale – alla crescita militare degli Usa nella zona. Ciò non toglie che negli anni recenti, e dopo aver risolto una serie di problemi prevalentemente di natura economica, si sia manifestato sotto la presidenza Putin il tentativo di tornare a recuperare quello status di ‘madrepatria’ perduto nel 1991 dopo la fine dell’Urss. Nel momento in cui venne meno la struttura sovietica, infatti, lo spazio transcontinentale che l’Urss aveva ereditato dall’impero zarista dovette fare i conti con la propria storia, così da ricollocare le tante tessere di un mosaico fitto di nazionalità diverse - anche di piccola e piccolissima dimensione geografica e demografica – entro una nuova cornice politica il cui futuro poteva, forse, essere progettato a partire dal passato.

2. Regione per lo più montuosa, l’area del Caucaso si presenta come un complicato reticolo di popoli, lingue, religioni e alfabeti. Accanto alle 4 lingue maggiori (il russo nella bassa Ciscaucasia; il georgiano, lingua a sé stante, scritta con un proprio alfabeto; l’armeno, lingua indoeuropea anch’essa scritta con un proprio alfabeto; l’azero, molto affine al turco) è possibile rintracciare - quasi in ogni valle e in particolare sul versante settentrionale del Caucaso, in quelle piccole aree ancora appartenenti alla Russia che hanno tentato invano la strada dell’indipendenza (Karachaevo-Cherkessia, Cabardino-Balcaria, Ossezia, Inguscezia, Cecenia) – popoli con idiomi propri anche molto diversi fra loro. Marca di confine degli antichi imperi persiano, romano e bizantino, la Caucasia si trovò in seguito nel punto di attrito tra due movimenti espansionistici, quello arabo-islamico (poi turco) e quello russo – quest’ultimo riuscì a partire dal XVIII secolo a erodere una grossa parte del dominio del rivale (qui una breve panoramica). Nell’800 la conquista russa fu totale e si concluse con l’occupazione nel 1878 del porto georgiano di Batumi, nell’odiernia Agiaria. Dopo di allora, salvo la breve parentesi delle 3 repubbliche ‘bianche’ (Armenia, Georgia e Azerbaigian) subito dopo la Prima Guerra Mondiale, l’intera regione rimase sotto il governo di Mosca fino al 1991.
In seguito, venute meno le strutture economiche socialiste che assicuravano comunque una limitata stabilità sociale, la Caucasia fu investita da una serie impressionante di conflitti a sfondo separatista, religioso o etnico, che esplosero inizialmente nel Caucaso meridionale. Nell’ultimo decennio del 900, infatti, a causa della contesa tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh e di quella nei territori autonomi georgiani dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud, si accesero violenti scontri armati che provocarono migliaia di vittime e costrinsero un numero enorme di persone all’esodo forzato.
In verità, già negli anni '40 Stalin, in una disastrosa ottica di precaria stabilizzazione delle nazionalità, aveva ordinato in tutta l'area massicce deportazioni che colpirono in particolare le popolazioni cecene, tatare, calmucche e meskete. Milioni di persone, con l'accusa di aver collaborato con gli occupanti tedeschi, furono trasferite nelle cosiddette 'zone speciali di popolamento' in Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Intere nazionalità, difficilmente assimilabili nelle strutture dello stato centralizzatore, scomparvero dalla carta politica, disseminate in luoghi distanti da quelli d'origine, nell'illusione di annullare popoli che avevano mantenuto consuetudini di resistenza (per esempio contro l'obbligo di uso del cirilico) e di insubordinazione contro il potere del regime di Mosca, sulla scia di una tradizione di ribellismo presente fin dai tempi degli Zar [1].
In alcune aree vicine, furono le stesse autorità politiche ad espellere con la forza popolazioni giudicate pericolose o comunque non omogenee alla nazionalità dominante: è il caso degli Ingusci, cacciati nel 1992 dall’Ossezia del nord e deportati in massa verso la confinante Inguscezia o dei Ceceni tra il 1994-95 e, una seconda volta, a partire dal 1999 (questione ancora aperta e sanguinosamente affrontata da Putin anche grazie alla scusa della lotta al terrorismo internazionale). Ma, un destino analogo toccò anche agli abitanti di nazionalità russa che, a seguito dei caotici rivolgimenti politici, vennero a trovarsi fuori dalla Federazione nella condizione di stranieri non graditi in quanto incarnazione di un dominio politico da cui, appunto, le nuove repubbliche caucasiche intendevano liberarsi.

3. Nei ultimi anni si è assistito alla penetrazione politica americana che ha ulteriormente peggiorato le cose. Un po' come in tutti i territori periferici ex-Urss o del Patto di Varsavia (Ucraina, Polonia, Balcani, Repubbliche centroasiatiche) anche nel Caucaso sono state sponsorizzate da Washington quelle rivoluzioni 'colorate' che avrebbero dovuto portare ad un nuovo corso. Tutto ciò non è avvenuto e, interessi delle compagnie petrolifere a parte - chi ne ha fatto le spese è stata la popolazione sottoposta alle rappresaglie russe, giustificate dopo il 2001 dalla lotta al terrorismo. La verità è che così come le altre aree citate, il Caucaso riveste un'importanza fondamentale nello smistamento delle risorse energetiche, in particolare quelle provenienti dall'Asia centrale e dal Caspio (grosso punto a sfavore per gli Usa) e diretti verso l'Europa. Gli Stati uniti sponsorizzano la cosiddetta “Baku-Ceyhan pipeline” (un gasdotto che partendo dalla capitale dell’Azerbaigian arriverebbe al porto turco di Ceyhan nel Mediterraneo passando per Tiblisi in Georgia ed evitando l’Armenia – ancora restia ad assoggettersi al volere di Washington) in antitesi al progetto russo del “Caspian consortium pipeline” (che invece partirebbe da Atyrau – porto kazako sul Caspio – per finire a Novorossisk sul Mar Nero – vicino la Crimea) che costringerebbe l’Ue a dipendere ancora di più dalla tenaglia energetica russa ed escluderebbe definitivamente gli Usa e le loro companies da ingenti guadagni. Senza contare la possibilità di far passare tutti i rifornimenti energetici dell’Iraq (ed eventualmente dell’Iran) tramite pipelines da costruire sul territorio turco – una volta portata all’interno del mercato comune europeo. Quegli stessi che, ad oggi, arrivano in Europa via mare, dallo stretto di Hormuz e poi dal canale di Suez – con costi decisamente più alti. A giudicare dal costante comportamento nei due mandati presidenziali, c'è da scommettere che Vladimir Putin non starà certo a guardare gli americani che fanno il bello e il cattivo tempo proprio sotto il suo naso.

lunedì 17 dicembre 2007

martedì 11 dicembre 2007

Turbogas, carbone 'pulito' e le favolette sull'energia non inquinante

Negli ultimi tempi abbiamo sentito parlare sempre di più di energie pulite e rinnovabili. Anche per effetto delle denunce di Beppe Grillo, i nostri politici sembrano essersi convertiti a queste necessità. Ma è vero quello che ci dicono? O per loro rappresenta solo l'ennesima occasione di guadagno personale? Non essendo un esperto in materia ho affidato il compito all'esimio ing. Mairic Ivanov. Il post va a contribuire (anche se decisamente in ritardo - era per il 15 ottobre 2007) alla campagna Blog Action Day il cui tema era quest'anno l'ambiente.

1. Se non ricordo male, la centrale detta Turbogas si differenzia dalla classica centrale termica (o termoelettrica) per il motivo seguente: la termoelettrica brucia un combustibile che può essere di varia natura, in origine era il carbone (uno dei motivi dell'avanguardia inglese nello sviluppo capitalistico).
Attualmente si bruciano prodotti di raffinazione del petrolio, ma si possono usare anche gas naturale e metano (eh sì, il preziosissimo gas del figlio di Putin serve anche a questo), per motivi di costo e per il fatto che il metano in combustione diventa vapore acqueo e anidride carbonica, che farà (forse) male per l'effetto serra, ma non è in alcun modo tossica, mentre i derivati del petrolio rilasciano in genere monossido di carbonio - che è quello che vi uccide se vi suicidate col tubo di scappamento in auto e che ogni tanto stecchisce nel sonno incauti utilizzatori di stufette.

2. Comunque, qualunque sia la natura del combustibile (che può essere al limite anche uranio o plutonio, si chiamano infatti centrali termonucleari), esso alimenta una vera e propria CALDAIA dove viene fatta bollire l'acqua e portata a pressioni molto elevate. Ottenuta questa "pentola a pressione", la si fa sfiatare dentro una turbina: le pale girano con questo 'sfiato' e azionano degli alternatori i quali [...] producono corrente elettrica e vi potete appicciare il computer per leggere queste pallosissime cazzate! Quello che sfiata dalla turbina è vapore (inquinamento solo di tipo termico), mentre quello che esce dalla caldaia dipende da cosa si è bruciato. Perciò, quando vi parlano di centrali a "carbone pulito" potete farvi una grassa risata.
Sostanzialmente e concettualmente, non c'è niente di diverso dalla prima macchina a vapore di Watt, solo che mentre in quel caso il vapore azionava direttamente congegni meccanici (le macchine tessili a cui quei bastardi inglesi avevano incatenato il proletariato espropriato dalle common lands e contro le quali si scagliò l'indimenticato John Ludd) nel caso delle centrali elettriche ad essere azionato è un congegno che trasforma l'energia meccanica in elettrica, l'alternatore appunto. Il problema di questi impianti è il rendimento e si riallaccia sulla giusta osservazione sul "presioso" gas. Infatti nel passaggio dell'energia da chimica ("contenuta" nel combustibile) a termica (combustione) a meccanica (pale rotanti) a elettrica, o meglio, in ognuno di questi passaggi, una parte dell'energia iniziale - manco tanto piccola - se ne va a puttane come calore disperso nell'atmosfera. A spanne e mediamente, circa la metà diventa energia elettrica (e manco sempre). Si capisce che il problema di ricavare la massima energia elettrica da una data quantità di combustibile (scarsa! e qui entra in gioco l'economia...) non è da poco conto, co' sti chiari di luna: Putin per l'appunto, Ahmadinejad, Chàvez etc. che guarda un po' se sti stronzi di sottosviluppati TERZO MONDO ci debbano negare così i loro carburanti! (e qui entra in gioco la politica).

3. Premesso che c'è un modo per alzare un po' i rendimenti (impianti di cogenerazione per esempio, recuperi un po' di calore che andrebbe disperso per riscaldare gli ambienti o l'acqua per uso civile), restano comunque non alti.
Molto di più lo sono invece quelli delle centrali dette Turbogas. In questo caso infatti, il combustibile non serve a scaldare e far evaporare l'acqua, ma, bruciando, crea una nube con i prodotti della combustione stessa (a temperatura più alta e pressioni maggiori del vapore) che viene poi fatta sfiatare direttamente per azionare le pale della turbina. L'energia meccanica trasmessa è maggiore, inoltre c'è un trasferimento di energia in meno (dal combustibile al gas), va da sé che i rendimenti sono più alti, cioè a parità di roba bruciata, produco più energia elettrica (che è quella che ci interessa, perché è la più facilmente distribuibile).
In questo caso il ciclo assomiglia molto a quello dei motori a scoppio - nelle versioni Otto e Von Diesel, quello che poi inventò i famosi jeans (hehehe!) - in cui l'espansione dovuta al liquido che brucia è trasformata direttamente in energia meccanica muovendo i pistoni del motore.
Dunque, se la prima potevamo assimilarla ad una megapentola a pressione, questa potremmo assimilarla ad una mega-automobile (ferma però). Quello che sfiata dalla turbina però in questo caso non è vapore, ma i prodotti di combustione, compresi un po' di monossido, idrocarburi incombusti, qualche polvere sottile, e tutte quelle belle cosucce che possono uscire dallo scappamento della macchina. Poi si catalizza anche lì quanto ti pare, ma vattela a respirare tu la marmitta della macchina!!! Questo spiega anche perché nessuno le voglia vicino casa. Anche perché - ma dovrei verificare - mi pare che non si usi il gas naturale e/o il metano, perché l'espansione in combustione di gas è minore di quella dei liquidi e da questa dipende la pressione con cui 'sfiata' (anche intuitivamente). Tra l'altro il metano ha rischi di detonazione a certe pressioni - vedi incauti manutentori di caldaie/tubature che poi salta per aria un palazzo all'improvviso...

4. Detto questo non credo nemmeno che l'Enel ci abbasserà la bolletta per metterci un mega-tir in casa, e se anche fosse non credo che il risparmio basterebbe a pagarsi le cure e le medicine anticancro... effettivamente servirebbe il parere di un medico/epidemiologo, ma l'elettrocarbonium (qui ad Ascoli Piceno) ce la ricordiamo con i suoi tumori alla vescica e alle ossa; non voglio dire che sia la stessa cosa, ma sarebbe spiacevole scoprire DOPO che la cosa era cancerogena - intendo quando già ce l'hai, no?
Poi se uno dicesse che queste iniziative andrebbero sabotate, gli si dà del terrorista... che brutte munne! Vi ho annoiato, lo so, immagino il giramento di pale, ma non c'era un modo migliore di spiegarsi... poi lo capite perché tanti anni di ingegneria ingenerano turbe psichiche???

ing. Mairic Ivanov
* Firma anche tu la petizione contro la realizzazione di una centrale turbogas ad Ascoli Piceno: http://www.petitiononline.com/ap301207/petition.html
APPROFONDIMENTI (video):
- Si produce poca energia (intervista del Presidente della Provincia di Ascoli Piceno Massimo Rossi)

giovedì 6 dicembre 2007

Il quinto Zar

1. Anche se in tono minore rispetto a quanto ci si attendeva, le elezioni parlamentari russe hanno definitivamente incoronato Vladimir Vladimirovic Putin quinto Zar di tutte le Russie. Ereditando le rovine dell’impero sovietico, in otto anni ha posto le basi per il nuovo impero russo, il quinto appunto – se si accetta la classificazione dello storico Philip Longworth – dopo quelli di Kiev (850 ca.-1240), di Mosca (1400 ca.-1605), dei Romanov (1613-1917) e dei bolscevichi (1918-1991)[1]. Quando nel 2000 Putin salì al potere la Russia era molto simile ad un immenso buco nero assoggettato all’egemonia americana, divorato da una lunga lista di oligarchi – a cominciare dalla combriccola di Eltsin – e sottoposto a derive indipendentiste di stampo etnico.
Sebbene gli oligarchi siano rimasti, è anche vero che la Russia macina cifre in termini economici impensabili in Europa: negli ultimi 8 anni il Pil è cresciuto ad una media del 6,5%, si è quasi dimezzato il numero di coloro che vive al di sotto della soglia di povertà e il tasso di disoccupazione è passato dal 10% al 7%. Pur non essendo la realtà esattamente così, sono dati che, da soli, basterebbero a spiegare l’enorme consenso di cui Putin gode. In politica estera ha restituito ad una Russia monca per le defezioni della sua periferia il ruolo di primo attore, brandendo sapientemente la più potente delle sue armi atomiche, quella energetica. Lo ha fatto cancellando de facto lo stato di diritto, seppellendo la democrazia. Ma i russi, spinti dal loro grande nazionalismo, amano i personaggi forti e si accontentano di quel po’ di miglioramento nelle condizioni economiche e di vita che effettivamente c’è stato, anche se per lo più concentrato nelle grandi città e per poche fasce sociali. Putin incarna il recupero della sovranità russa, a cominciare da quella parte del corpo imperiale provvisoriamente amputato ma destinato a riallacciarsi alla madrepatria, dove altri pretenderebbero di coltivare il loro orticello (in primis per motivi energetici Ucraina, Bielorussia, Kazakhistan, Armenia e Georgia). Ed arroga a sé, in un modo o nell'altro, una sorta di diritto morale di governare.

2. Con il voto per la Duma, la camera bassa del Parlamento, si è svolto in Russia il primo atto di una lunga marcia elettorale che si concluderà a marzo 2008 con le presidenziali. Costituita da 450 rappresentanti, ha il potere di proporre e approvare le leggi; esprime il consenso in merito alla nomina del Primo ministro da parte del Presidente; può votare la sfiducia al Governo e dare inizio alle procedure d’impeachment (messa in stato d’accusa del Presidente), ma la destituzione definitiva è prerogativa della Camera alta, il Consiglio della Federazione.
Questa è la quinta elezione dell’organo statale dal 1993, quando a guidare il paese c’era Boris Eltsin, l’artefice delle riforme shock nel campo dell’economia (breve rassegna delle precedenti elezioni). Ma con una nuova legge elettorale che - abolito il vecchio sistema metà proporzionale e metà maggioritario per un proporzionale secco - proibisce la formazione di blocchi, elimina dalla scheda l’opzione per votare ‘contro tutti i candidati’ (che aveva registrato un buon consenso 4 anni fa) e alza dal 5 al 7 per cento la soglia di sbarramento utile ad accedere alla Duma. Una vera catastrofe per i partiti di opposizione liberale, destinati a rimanere fuori della porta. I risultati sono stati impietosi.
L’affluenza alle urne è stata del 63%, dato molto importante e positivo per il Cremlino, che temeva una forte astensione la quale avrebbe potuto moralmente inficiare il voto. Ma così non è stato e – scontata vittoria di Putin a parte - sono solo 4 i Partiti che entrano nella Duma: Russia Unita con il 64,1%, Partito Comunista 11,6%, Partito liberal-democratico 8,2% e Russia Giusta 7,8%. Rimangono invece fuori le formazioni cosiddette liberali (filo-occidentali): oltre allo storico Yabloko, l’Unione delle forze di destra (Sps) e il Partito agrario (15 i partiti ammessi a partecipare – panoramica sistema partitico).
Scontati e – peraltro – evidenti, i brogli denunciati da più parti sono stati perentoriamente spediti da Vladimir al rispettivo mittente. Se lo può permettere. E’ lui che muove i fili nella nuova Russia. Alle prossime presidenziali dovrà lasciare l’incarico – come impone il dettato costituzionale – e, come lui stesso ha più volte ampiamente rassicurato, al Cremlino siederà un nuovo capo di stato. Ma ha sempre lasciato intendere di non pensare minimamente ad un futuro da pensionato, anzi di voler mantenere un ruolo di primo piano nella vita politica russa. In attesa, ovviamente, di tornare alle presidenziali successive dopo la pausa necessaria per non violare la Costituzione o, magari, un rientro ad interim in seguito a dimissioni anticipate: Putin ha studiato tutte le alternative e mosso tutte le pedine in quella che è sembrata essere una sua personalissima partita di scacchi. Il vero problema di questa ipotesi è il rischio di vedersi soffiare il posto da un presunto fantoccio che pensava di poter controllare. Le cose – la storia lo insegna - potrebbero andare in maniera diversa.
Altre ipotesi vorrebbero Putin avventurarsi – pur avendo attualmente i numeri - in un rischioso cambio di forma di governo (al fine di succedere a sé stesso diventando, per esempio, primo ministro di una repubblica parlamentare) o creare una figura ad hoc, ritagliata su misura, superiore agli altri organi già esistenti. Ma c’è chi dice che Putin potrebbe rimanere dietro le quinte per un po’ di tempo e piazzare semplicemente alcuni fedelissimi in quei posti chiave che ancora mancano alla sua fitta ragnatela di clientele – la cosiddetta ‘verticale del potere’.
Troppo giovane per andare in pensione, troppo esperto politicamente per ridursi a una carica (per esempio quella di primo ministro) dalla quale potrebbe essere facilmente rimosso dal nuovo Presidente - soprattutto dopo essere stato Presidente per due mandati e godendo tuttora di una popolarità enorme. Cosa succederà? Indicazioni forse decisive a metà dicembre quando vi sarà l’indicazione di Russia Unita per il suo candidato alle presidenziali di marzo.

3. Basta guardare la cartina geografica per capire che la Russia è un protagonista assoluto della geopolitica mondiale. Confina con tutti i principali attori - effettivi (Usa, Cina e Giappone a est) e aspiranti tali (Ue) – e il suo spazio consente di avere una posizione privilegiata nelle prossime partite geopolitiche, l’Artico ed il Caspio. A sud deve fronteggiare il separatismo islamista e nell’Asia centrale è impegnata nel controllo e nello smistamento delle immense risorse energetiche che possiede. Ma è a ridosso dei suoi confini che si addensano le nubi più grigie: dall’Artico al Baltico, dai Balcani al Mar Nero, fino al Caucaso e all’Afghanistan, a tutte le frontiere sensibili del territorio russo campeggia la Nato - ossia l’America con un vestito diverso, quello di chi fomenta e finanzia le rivoluzioni ‘colorate’ per annettere paesi ex-patto di Varsavia all’alleanza atlantica – e la prospettiva di uno scudo spaziale con missili intercettori piazzati davanti alla porta di casa accresce le fobie del Cremino e ne stimola la classica sindrome da accerchiamento. Paradossalmente, la fine della guerra fredda ha rimilitarizzato le relazioni russo-americane.
Bush ha occupato la Casa Bianca quando Putin aveva appena finito di arredare i suoi uffici al Cremlino, in un momento in cui l’élite americana considerava l’ex avversario sconfitto una specie di bacino dal quale attingere, un paese con un regime di affaristi preoccupati solo dei loro conti svizzeri, abitato da un popolo in fervida - quanto vana - attesa dei paradisi evocati dai neoliberisti di mezzo mondo. Otto anni dopo la Russia registra una decisa impennata nel termometro del potere mondiale, proprio mentre gli Usa si scoprono più deboli, non in grado di dettare l’agenda altrui e, anzi, sempre più bisognosi di tutti per rimanere almeno primi inter pares.
Le priorità geopolitiche di Putin partono dal recupero dei tre blocchi persi dopo la dissoluzione dell’Urss (Balcani, Ucraina e Bielorussia ad ovest, Caucaso a sud e Kazakhistan a sud-est), in particolare il Caucaso - il cosiddetto ‘estero interno’ vero e proprio buco nero dell’impero russo. Il secondo passo è quello di tenere agganciata l’Europa grazie alla tenaglia energetica, le cui ganasce si estendono dai rifornimenti che passano per i Balcani (e partono dalle riserve di gas dell’Asia centrale) al nuovo gasdotto del Baltico, il Nord Stream (il cui gas è quello siberiano che, in parte, va anche ad abbeverare il sistema industriale cinese). Infine, di fondamentale importanza sono le relazioni con i cinesi e – cosa che preoccupa non poco Washington – lo sviluppo della rete delle intese energetiche basate su contratti bilaterali a lunga scadenza con Pechino, l’India e le altre economie emergenti, che spazzerebbero via le companies americane e buona parte delle majors occidentali.L’atteggiamento e la strategia americana verso la Russia saranno, ad ogni modo, determinati dalla prossima presidenza Usa e influenzati dalle relazioni con la Cina, soprattutto per il ruolo che ha lo Yuan (o Renminbi cinese) nella copertura del debito a stelle e strisce. Se Washington vedrà in Pechino un rivale, avrà bisogno di Mosca per contenerlo, se, invece, individuerà nell’Impero di Mezzo un valido partner, la Russia scadrà nell’ottica della Casa Bianca a pedina secondaria. Ma in ogni caso, come hanno insegnato Nixon e Kissinger nei primi anni ’70 con la cosiddetta ‘diplomazia triangolare’, per Washington è vitale tenere la Cina ben separata dalle Russia. Solo una cosa è sicura: chiunque tratterà con Mosca avrà a che fare con lo Zar Putin.


NOTE:

[1] Fonte: Eurussia?, editoriale di Limes 6/2006, La Russia in casa.

[*] Per la vignetta - disegnata qualche mese fa in occasione del vertice Putin-Prodi nel quale si sarebbe dovuto trattare il tema dei diritti umani - si ringrazia il solito Marco Viviani.

sabato 1 dicembre 2007

Annapolis, l'ennesima farsa

1. Sorrisi, strette di mano, banchetti, brindisi con tanto di cin-cin, vuota retorica e tanti applausi: le scene viste ad Annapolis sono purtroppo molto simili a quelle che si è abituati a vedere dal 1993, quando ad Oslo partì quel fantomatico oggetto misterioso che viene definito ‘Processo di pace’. E' solo l'ultimo capitolo in ordine di tempo di una farsa. C'era da aspettarselo.
Perché come ogni volta, dietro la parvenza di quello che la comunità internazionale vuole spacciare per accordo, si celano altri interessi e altre strategie. Per continuare il progetto imperiale - oltre al tentativo di condizionare la politica interna statunitense del prossimo mandato - George 'dabliù' e la brigata neocon stanno costruendo un asse sunnita-moderato per isolare Teheran e limitarne l'influenza nella regione, visto che un attacco diretto sembra alquanto improbabile nelle condizioni attuali. Ma ha anche bisogno di lasciare l'immagine - aiutato dai sempre più pietosi think tank occidentali - di colui che ha strenuamente tentato di riportare la situazione alla normalità e cancellare così gli errori della sua disastrosa presidenza. Normalità per lui e i suoi compiacenti - of course. Come si fa infatti a chiamare conferenza di pace un incontro in cui sono assenti proprio i soggetti (Iran, Hamas) che dovevano, ragionevolmente, essere i primi invitati?

2. Sul piano regionale, è chiaro che Annapolis rappresenta l’atto finale dell’accerchiamento alla repubblica islamica, con l’evidente – quanto impossibile – obiettivo di un ‘cambio di regime’ a Teheran, da perseguire – tanto per inziare - tramite una serie asfissiante di sanzioni economiche. Ma c’è chi a Washington vorrebbe l’ennesima guerra, magari preparando ancora un po’ il campo gettando benzina sul fuoco dei separatismi etnici, soprattutto quello curdo e baluci.
Con l’esercito americano in Iraq e Afghanistan e le alleanze con Turchia e Pakistan, il confezionamento di un asse anti-iraniano (‘sunnita-moderato’) stringe ulteriormente il cerchio: dai già allineati Egitto, Giordania e Arabia Saudita, si amplia agli altri stati della penisola arabica. Di più: Annapolis è il chiaro tentativo di incrinare la tradizionale alleanza siro-iraniana, facendo concessioni ad Assad sul Golan e sul tribolato fronte libanese.
La presenza siriana (manca però l’Iraq) è così servita all’amministrazione Bush per pubblicizzare il carattere ‘panarabo’ dell’iniziativa e per sondare il terreno con Damasco su un eventuale futura intesa per indebolire Tehran e i suoi alleati, in primis il movimento palestinese Hamas e quello libanese Hizbullah. Nell’ottica statunitense, inoltre, se la Repubblica islamica va isolata dal contesto arabo, l’attuale governo iracheno di Nuri al-Maliki non va ulteriormente indebolito o esposto a nuove minacce da parte dei clienti iraniani in Iraq. La sua assenza si spiega, quindi, solo mettendo da parte la questione palestinese e considerando l’enorme influenza di cui alcuni ambienti politici iracheni vicini all’Iran godono nei palazzi del potere di Baghdad.
Annapolis è, dunque, la rampa di lancio dell’imminente attacco all’Iran? Molti giurano di si, altri, più realisticamente, collocano l’evento nella seconda metà del 2008.
Per come sono messi gli Stati uniti credo che sia decisamente improbabile. Da anatra zoppa diventerebbero un'anatra stecchita, con le fiere cinesi e russe a dividersi la carcassa. A prescindere da quale tipo di attacco si prospetti: dando per scontato che un’operazione terrestre sia fisicamente impossibile (per la natura del territorio iraniano, per la potenza delle sue truppe e per il fatto che gli americani sono già fortemente impegnati in altri 2 fronti) rimarrebbe l'opzione ‘Osirak’ sul tavolo. Ma anche quella costituirebbe una sorta di suicidio, soprattutto in un momento in cui mutui sub-prime, indebolimento del dollaro e debito pesano come macigni. Senza contare tutti gli altri motivi: dalle certe ritorsioni iraniane in Iraq e in Israele (tramite Hizbullah e Hamas) fino alle ‘proteste’ sino-russe che costringerebbero gli Usa ad impegnarsi in una guerra commerciale che finirebbero per straperdere. Per non parlare poi del fattore ‘prezzo del petrolio’ che con la chiusura dello stretto di Hormuz raggiungerebbe livelli impensabili e insostenibili. Dal canto suo l'Ue non ha il potere per fare nulla e i singoli stati membri possono esclusivamente decidere se stare al fianco dell'impero o distaccarsene per ragioni commerciali e/o ideologiche.

3. Vista dallo scenario interno israeliano e palestinese, la conferenza è finita prima ancora di cominciare a causa della debolezza interna dei rispettivi leaders: se Abbas – con Gaza in mano ad Hamas e la Cisgiordania ridotta a brandelli – rappresenta poco più che sé stesso, dall’altra parte Olmert non dorme sonni tranquilli, incalzato dall’opposizione di destra. In particolare, dal parlamentare Avigdor Lieberman che pretendeva di imporre ai palestinesi un’ulteriore condizione: il riconoscimento di Israele in quanto ‘stato ebraico’. Per Zvi Bar’el [1] l’unico risultato di Annapolis sta nel fatto che “adesso Olmert può elogiare Abu Mazen, dicendo che finalmente c’è un interlocutore palestinese con cui dialogare. Il problema, purtroppo per lui, è che manca l’interlocutore israeliano”.
Per cui tutto è già stato deciso dalla Knesset, il parlamento israeliano, che ha approvato una proposta di legge che sposta a 2/3 (80 parlamentari) la maggioranza necessaria al governo per modificare i confini di Gerusalemme – fino ad ora bastava la maggioranza assoluta. Secondo la Costituzione, inoltre, dopo l’approvazione nell’iter parlamentare, la modificazione deve essere sottoposta a referendum.
Rimangono, così, irrisolte tutte le questioni che ben si conoscono e che nel 2002 erano state riformulate in base al piano di pace arabo lanciato dall’iniziativa saudita. Ma Israele non ha mai accettato quel piano e non ne ha presentato uno suo che proponesse una soluzione decente ai nodi più spinosi. Anzi. “I tentativi di Israele di far fallire la conferenza di Annapolis – si chiede Raghida Dergham [2]prima ancora del suo inizio sollevano un interrogativo fondamentale: se Israele vuole veramente la pace, perché si comporta così? (…) Le posizioni di Israele, che punta a sabotare la conferenza, rientrano nel suo tentativo di mettere in difficoltà i moderati palestinesi (…) sta cercando di fomentare la divisione tra palestinesi perché è convinto che sia nel suo interesse. E si sta già preparando militarmente per la fase successiva ad Annapolis, che prevede un’ondata di ribellione contro l’Anp se la conferenza non farà avanzare in modo significativo il processo di pace”.

4. Gli ostacoli alla pace erano già ampiamente stati ricordati in un'ottima analisi di un gruppo di ricerca dello US/Middle East Project, Inc.: il problema dei confini del ’67, continuamente eluso da Israele con gli insediamenti e il muro in Cisgiordania, lo status di Gerusalemme, che la politica abitativa israeliana ha sottratto agli arabi (64 kmq in meno rispetto alla guerra dei ‘sei giorni’), il ritorno e il risarcimento dei profughi dal ’48 a oggi, e, non meno importante, il controllo delle risorse idriche, già abbondantemente a favore di Tel Aviv (cliccare sulla scheda a sinistra per ingrandirla). Tutte queste cose non preoccupano minimamente Abu Mazen, ma hanno suscitato le proteste di Hamas e di tutta l’opposizione integralista. Già, proprio Hamas – l’unico attore definibile legittimo, ma trascurato dai potenti che vorrebbero imporre la loro visione di ‘pace’.Come ebbe a scrivere Henry Siegman, autorevole studioso del Council on Foreign Relations, in un'ottima analisi ("Hamas: the last chance for peace", The New York Review of Books, vol.53, n.7 del 27 aprile 2006) Hamas si è dimostrato un attore pragmatico e, soprattutto, l'unico del dopo Arafat - che personalmente non giudico nel complesso buono - forte di una grossa legittimità popolare tanto da poter affermare che proprio senza di esso la pace sembrerebbe impossibile. E invece...strangolamento. Aggiungerei un elemento: perché IsraelUsa insiste col cavallo morto Abu Mazin invece di sciogliere le briglia a Barghuti? Risposta semplice: quest'ultimo - che pure è di Fatah - cercherebbe un proficuo dialogo con la parte moderata di Hamas; al contempo Hamas non presterebbe il fianco cercando aiuto a Teheran (sappiamo tutti che lo farebbe, anche solo per motivi religiosi come la contrapposizione sunniti-sciiti) e probabilmente non avrebbe neanche sconfinato nel controproducente golpe di Gaza. Il popolo palestinese conquisterebbe forse definitivamente una vera coscienza di sé. Troppo poetico e degno di un sognatore?

NOTE:

[1] Dar al-Hayat, Libano - Vincere l'indifferenza, Internazionale n.720.
[2] Ha'aretz, Israele - Alla prossima volta, Internazionale n.720.
* PER APPROFONDIRE:
- Dietro le quinte di Annapolis, DOMINIQUE VIDAL - Le Monde diplomatique, novembre 2007.