venerdì 30 maggio 2008

Shadow cabinet

Durante l'esecutivo Prodi era fin troppo evidente che, in realtà, un governo non ci fosse nemmeno. Ora ne abbiamo due: quello reale, uscito dalle elezioni, e quello 'ombra'. Il motivo ufficiale quello di addivenire a non meglio pervenute 'riforme condivise'. Scomparsa la sinistra, chi è che coprirà quel delicatissimo ruolo che la teoria democratica consegna all'opposizione?

domenica 25 maggio 2008

Violenze in Sudafrica: ritorno al passato?

Le violenze sono state etichettate molto sbrigativamente come xenofobe, ma le cause sono molto più complesse. Dalla guerra tra poveri alle negligenze politiche. E una domanda che dal passato torna tristemente foriera di orrori: il razzismo è inevitabilmente strutturato nella società sudafricana?

1. Secondo le prime stime dell’
Ufficio delle migrazioni internazionali (OIM), circa 13.000 immigrati avrebbero abbandonato i quartieri poveri di Johannesburg. Nel week-end scorso, centinaia di giovani neri sudafricani armati di coltelli, maceti e fucili hanno dato sfogo alla loro rabbia contro gli immigrati prendendo di mira cittadini originari dei paesi confinanti (tra cui lo Zimbabwe) e residenti nelle bidonville che accerchiano la capitale economica sudafricana. L’orgia di violenza - il bilancio ufficiale delle aggressioni è di 42 morti e di un centinaio di feriti - ha messo sotto shock la classe politica del Sudafrica, ormai decisa a reprimere sul nascere qualsiasi tentativo di aggressione armata attraverso il dispiegamento delle forze dell’ordine. Episodi come quello di Reige Park, dove alcuni migranti sono stati arsi vivi, è purtroppo sintomo che tra le comunità immigrate si sta diffondendo a macchia d’olio il sentimento di vendetta.
Al pari dei leader politici, giornalisti e esperti del Sudafrica si interrogano sui motivi che hanno spinto i neri sudafricani a prendersela con i migranti. La stampa locale condanna le violenze contro gli immigrati che negli ultimi giorni hanno causato più di quaranta morti in tutto il paese. Secondo il quotidiano Cape Argus, "le manifestazioni di xenofobia devono naturalmente essere condannate, ma questo è solo l'inizio. Bisogna elaborare al più presto una politica sui rifugiati e riportare la situazione alla normalità: i nostri fratelli africani non devono più sentirsi in pericolo in Sudafrica solo perché sono stranieri". Oggi il 23% dei sudafricani è disoccupato, e se si tiene conto dei lavori frustranti e sfruttati la proporzione sale al 43%. Nelle tonwship si lotta ogni giorno per sopravvivere. Purtroppo, vedendo sbarcare gli immigrati disposti a tutto pur di mandare a casa qualche soldo ai familiari, qualcuno tra i neri si è convinto che il migrante è un ormai il primo nemico sul mercato del lavoro. Ma non è così. Di recente, alcuni studi hanno dimostrato che la presenza degli immigrati era sopravalutata. Si dice che attualmente ci siano oltre tre milioni di cittadini zimbabweiani presenti in Sudafrica, ma è probabile che si tratti di una cifra gonfiata.

2. Non tutti concordano sulle cause dell'ondata di violenze. "Le autorità parlano di azioni xenofobe commesse da criminali, ma questa tesi è riduttiva e rischia di alimentare le violenze. Bisogna trovare le vere cause di questo odio e, nel frattempo, trattenersi dal rilasciare dichiarazioni irresponsabili", osserva Pretoria News. Vero è che si è in presenza di sentimenti di frustrazione dilaganti tra le comunità nere del Sudafrica rimaste escluse dall’ascesa sociale del periodo post-apartheid. Dopo decenni di segregazione razziale, i neri erano convinti che la conquista del potere dell’Anc (
African National Congress, il partito di Nelson Mandela) avrebbe consentito loro di accedere a una vita migliore. Purtroppo si è verificato esattamente il contrario. L’accesso ai posti di potere politico ed economico è stato un fenomeno riservato a un’infima minoranza che oggi non esita a ostentare i segni di ricchezza: tutti simboli che hanno minato le speranze di quelli rimasti ai bordi della strada. Secondo alcuni commentatori il governo sudafricano ha sbagliato a ignorare la crisi nel vicino Zimbabwe, all'origine degli enormi flussi di profughi che si sono riversati oltre la frontiera. Il columnist di Cape Times, Peter Fabricius, sostiene che "l'esplosione di violenza deve essere analizzata nel più ampio contesto della politica estera sudafricana. Pretoria ha sempre negato l'esistenza di una crisi in Zimbabwe e, di conseguenza, non ha saputo gestire l’impatto che questa ha avuto sul nostro paese". Sul Times, Justice Malala ricorda che in Sudafrica vivono tre milioni di zimbabwiani e osserva: "Queste persone non sarebbero qui se nove anni fa il presidente Thabo Mbeki avesse osato affrontare il suo amico Robert Mugabe".
Se si scava a fondo nella questione, si viene a conoscenza che non è mai esistito un programma chiaro per gestire la presenza degli immigrati in territorio Sudafrica. A questo si aggiunge il problema delle frontiere che non sono controllate, ma la cosa più grave è che molti sudafricani non fanno la differenza tra una presenza illegale da quella legale. In passato, si sono verificati molti casi di immigrati buttati in carcere per motivi futili quando invece erano totalmente in regola con l’amministrazione sudafricana. L’aspetto peggiore risiede, quindi, nel fatto che il governo non ha mai fatto nulla per contrastare la xenofobia: già nel 1997 la Southafrican Human Rights Commission aveva denunciato in un rapporto che il razzismo era il pericolo più grande a cui era confrontata la nazione, ma da allora, la classe politica non ha mosso un dito per arginare questo fenomeno. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la società sudafricana è una delle più violente del mondo (qui un report di giugno 2006).

3. Molti, però, pensano che l’ostilità dei sudafricani verso gli stranieri sia radicata nella storia del paese. "Non abbiamo saputo decolonizzare le nostre menti", scrive Andile Mngxitama su City Press, mentre un editoriale dello stesso quotidiano lancia un appello: "Noi più di qualunque altra nazione al mondo dovremmo rifuggire la xenofobia. Questa follia deve finire". In questo senso, è molto approfondita l’analisi che fa
Elke Zuern (ricercatrice presso il Dipartimento di Studi politici del Sarah Lawrence College, Stati Uniti), da anni impegnata nell’analisi dei fenomeni politici e sociali del continente africano, in special modo del Sudafrica a cui sta dedicando un progetto di ricerca sulle disuguaglianze socio-economiche del periodo post-Apartheid. Secondo la Zuern, la tesi che un certo senso di xenofobia sia radicato nella storia del Sud Africa è decisamente plausibile.
“Basta guardare alla sua storia. Durante l’apartheid, il razzismo violento era un fenomeno strutturale nella società sudafricana. Escludere e uccidere un nero era considerato normale fino agli anni ‘80, così come prendersela con un bianco per motivi di vendetta. Oggi molti si dicono sorpresi del fatto che cittadini neri se la prendono con altri neri provenienti dallo Zimbabwe piuttosto che dalla Somalia. Ma qualcuno dovrebbe riflettere sul modo con cui i sudafricani sono stati cresciuti nel XX secolo. Si tratta innanzitutto di un problema culturale che peraltro non ha colpito soltanto la comunità bianca. Certo, il regime dell’apartheid è stato opera degli afrikaneers, ma anche tra i neri c’è chi ha coltivato sentimenti xenofobi e una certa cultura della violenza. Basta osservare la striscia di sangue che ha accompagnato l’ascesa di Mandela al potere. Il premio Nobel per la pace viene scarcerato nel 1989, per poi trionfare alle elezioni nel 1994. Tutti hanno sottolineano il carattere epocale di questa svolta politica, e sono la prima a salutare questo cambiamento, ma in pochi ricordano che durante questi anni sono state uccise 60.000 persone per aggressioni fisiche”.

APPROFONDIMENTI:
- L'onda xenofoba va, Irene Panozzo (lettera 22) - Il Manifesto, 24/05/2008;
- Il fallimentare successo di Thabo Mbeki, Maurizio Matteuzzi - Il Manifesto 24/05/2008;
- CARTOLINE: SUDAFRICA - Internazionale.

lunedì 19 maggio 2008

Rigurgito fascista

Sprezzo del cittadino e dell'opinione pubblica, toni e comportamenti populistici, fomentazione dell'insicurezza e prevenzione sommaria, ondata xenofoba e inasprimento normativo, imposizione coercitiva e rifiuto del dissenso: il nuovo autoritarismo è servito.


Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Sono bastate poche settimane per capire come saranno i 5 anni - in caso di durata normale del governo - che ci attendono. Anzi, già prima dell'insediamento a Palazzo Chigi, Berlusconi aveva dato un assaggio del boccone amaro, una sorta di anticipazione sul come si sarebbe caratterizzata la sua presenza alle redini del cavallo Italia. Nella suggestiva cornice della sua villa in Sardegna, che diveniva per l'occasione sede di un meeting ufficiale (specchio di una concezione personalistica e quasi patrimonialistica dello stato), accoglieva il suo amico Putin e dimostrava di aver ben studiato - e appreso - il modello di democrazia in voga a Mosca, mimando il gesto del mitra rivolto ad una giornalista russa - con Vladimir evidentemente compiaciuto - rea di aver fatto una domanda fuori dalle righe al capo del Cremlino. Se proprio non vogliono star zitti con le buone...Anna Politkovskaja docet. Il suo alleato più fedele (e più esigente) lo seguiva a ruota, nel breve volgere di qualche giorno, dichiarando che i suoi uomini sono pronti ad imbracciare i fucili contro chiunque si opponga al progetto federalista e, in generale, rispolverando i vecchi argomenti della maggiore efficienza, ricchezza, legalità e, quindi, superiorità del nord. Con la vittoria di Alemanno a Roma, si è arrivati addirittura a ritenere lecito e normale episodi di pestaggi a morte, ronde fai da te e giustizia self-service. E si sono viste manifestazioni di un pensiero che credevamo fosse ormai relegato al ventennio, con scandalosa caccia all'immigrato e sterile esaltazione dell'italianità più becera.
Ma il vero colpo di coda - almeno per ora - è sicuramente rappresentato dalla volontà di utilizzare l'esercito per pattugliare le grandi città (un modo come un altro per diffondere quel senso di paura, insicurezza e precarietà della vita sociale nel quale gente di tal genere sguazza allegramente) e per presidiare le zone della Campania nelle quali il genio di Palazzo Chigi ha stimato che possano sorgere i tanto contestati termovalorizzatori e le tanto temute discariche. Il dissenso non è ammesso, chi protesta sarà arrestato. Il confronto e il dialogo non sono contemplati, il cittadino esaurisce la sua funzione con il voto e in seguito non è più rilevante. In barba ai più elementari principi della tradizione democratica. Ma questo è, purtroppo, niente rispetto a quello che verrà. L'offensiva alla magistratura - vecchio pallino di Berlusconi, fin dai suoi esordi in politica - è già partita e non mancherà di suscitare aspre polemiche. "Erano stati il conflitto di interessi e la sua rete di procedimenti legali che ci avevano portato a giudicare Berlusconi inadatto ad essere Primo Ministro. Il nostro punto di vista rimane quello [...] Quando suggerisce che i magistrati debbano sottoporsi a dei test sulla salute mentale, o quando uno dei suoi più vicini collaboratori, un senatore che sta ricorrendo in appello contro una condanna per associazione con la Mafia, dichiara che un killer condannato è stato un eroe, rimangono buone ragioni per sostenere che Berlusconi non dovrebbe guidare il paese". L'Economist ha ragione: Berlusconi è "still unfit", non ancora adatto a governare l'Italia. E mai lo sarà...

mercoledì 14 maggio 2008

60 anni dopo, tra sogni e paure

Il 14 maggio 1948 nasceva lo Stato di Israele e iniziava la Nakba palestinese. Otto ore dopo la dichiarazione di indipendenza, gli eserciti arabi invadevano il territorio del neo stato: libanesi dal nord, siriani dal nord-ovest, truppe transgiordane e irachene dal centro, egiziani dal sud. Era l'inizio della prima guerra arabo-israeliana. Sessanta anni dopo non si intravede l'ombra di una minima soluzione.


Per comprendere il quadro di riferimento relativo all'inizio della disputa in terra santa, è necessario, almeno a grandi linee, ricostruire l'umore dell'epoca, passando in rassegna alcuni degli elementi che hanno contribuito a rendere il puzzle inestricabile. E' necessario, dunque, ripercorrere il clima politico-sociale che fece da sfondo alla costituzione dello Stato di Israele. Punto inamovibile è la totale uguaglianza dei diritti tanto degli ebrei quanto degli arabi su quella terra. L'elemento cruciale per cogliere il nodo storico della questione arabo-israeliana può, forse, essere indicato nella dichiarazione di Balfour (dal nome del ministro degli esteri inglese) del 1917, nella quale si diceva che il Governo di Sua Maestà vedeva con favore la fondazione in Palestina di "un focolare nazionale per il popolo ebraico", ma avvertiva che "nulla sarà fatto che possa recare pregiudizio ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti".
Dopo la prima GM e la seguente spartizione dell'Impero ottomano da parte di Francia e Gran Bretagna, l'agenda mediorientale si trascina tra Conferenze e Libri Bianchi fino alla grande rivolta araba del 1936/39 (al-thawrah al-arabiyyah al-kubra fi filastin), quando la situazione si fa molto tesa a causa dell'eccessiva e improvvisa immigrazione ebraica dovuta ai progrom (prima in Russia e poi con la folle e agghiacciante 'soluzione finale' hitleriana). Fu allora che, resisi conto dell'errore compiuto, gli inglesi tentarono di limitare i flussi in Palestina - commettendone in realtà uno ancora più grande - con la pubblicazione dell'ennesimo libro bianco (di Malcom Mac Donald), il quale ribadiva la validità della dichiarazione di Balfour e auspicava che "lo stanziamento doveva avvenire per diritto reale e non per semplice tolleranza", anche perché si precisava che "non si voleva trasformare l'intera Palestina in focolare nazionale, ma più correttamente fondare in Palestina un focolare di tal genere". Il libro bianco fu ampiamente respinto e interpretato come una violazione della parola data. Da quel momento lo scontro si radicalizza, sia tra arabi ed ebrei che fino ad allora avevano vissuto pressoché tranquillamente, sia nel rapporto tra britannici e sionisti, con episodi di violenza terroristica da parte di bande come l'Irgun, l'Haganah e la Gang Stern. Uno di questi avvenne in seguito all'irruzione (operazione Agatha o Black Sabbath) delle forze britanniche nell'Agenzia ebraica di Gerusalemme, con confisca di documenti, 2500 arresti e 'uccisione di 7 membri dell'Irgun: il 22 luglio 1946 l'Irgun come ritorsione fa saltare in aria un'ala dell'hotel King David, sede del quartier generale inglese, causando 90 morti. Il 20 aprile 1947 gli inglesi, vista l'impossibilità di ricomporre le tensioni sociali, decide di rimettere la questione alle Nazioni Unite che nel novembre dello stesso anno approvano la risoluzione 181 per sancire la spartizione in 2 stati.
Dal gennaio al maggio 1948 si moltiplicarono gli attentati arabi, mentre la reazione dell'Irgun e della Stern si materializzò nel villaggio di Deir Yassin, nei sobborghi di Gerusalemme, il 9 aprile, subito seguita da rappresaglie arabe sul monte Scopus e a Kfar Etzion. Il 1° maggio gli inglesi lasciavano la Palestina nel caos più totale, dal quale ancora oggi, 60 anni dopo, non si riesce ad uscire. Dopo la guerra e gli accordi di pace bilaterali tra Israele, Transgiordania ed Egitto (Iraq, Arabia Saudita e Yemen addussero di non avere confini comuni con lo stato ebraico), il colpo di grazia per il possibile sviluppo di un dialogo fu dato dalla guerra dei '6 giorni' nel 1967 e dall'inizio dell'occupazione israeliana, contro la risoluzione 242 che imponeva il ritorno alla linea dell'armistizio del 1949 (green line). Non è questa la sede per citare tutte le altre guerre 'ufficiali' o le rappresaglie 'ufficiose', ma è evidente che il 1967 segna uno spartiacque, la rottura di un equilibrio che per molti motivi penderà decisamente verso una parte.

Alla luce di questa sommaria ricostruzione [qui una ricostruzione più puntuale], è ora possibile cercare di spiegare perché una parte dell'intellighenzia italiana di sinistra ritiene che Israele sià uno stato purtroppo privo di una piena legittimità. Con ciò non si vuole certo sostenere la tesi secondo la quale lo stato di Israele non abbia diritto di esistere, non si vuole dare adito a proclami antisemiti e non si vuole preticare nel modo più assoluto alcun tipo di negazionismo o revisionismo di tragici e incontrovertibili fatti storici. La non piena legittimità dello stato di Israele è semplicemente iscritta nello stesso atto che ne sancisce la nascita: la risoluzione 181, la quale parla in modo inconfutabile della nascita/creazione di 2 stati. Sessanta anni dopo questo ordine internazionale non esiste ancora. Va da sé che Israele sarà pienamente legittimo quando sarà realizzata la legittimità internazionale stabilita dalla risoluzione. A tal proposito si oppone sempre il rifiuto da parte araba del piano di spartizione. A mio modo di vedere, quel rifiuto andava preso come un'occasione di approfondimento dei termini della questione, cosa che avrebbe potuto anche permettere - ma ci sarebbe stato bisogno di tempo - la soluzione di un unico stato binazionale. L'affrettata e unilaterale proclamazione dello stato d'Israele da parte di Ben Gurion mise fine a quel possibile tentativo prima ancora che si avesse modo di pensarlo. La successiva occupazione Israeliana avrebbe affossato qualsiasi tipo di soluzione pacifica, e condotto alla situazione attuale, con i palestinesi ridotti in bantustans scollegati tra loro, parcellizzati da muri e check-points. I nodi sono sempre quelli: ritorno alla linea dell'armistizio del '49 (fine quindi dell'occupazione e della colonizzazione per mezzo dei coloni), diritto al ritorno per i profughi (sarà impossibile che tornino tutti) e la questione di Gerusalemme (ormai quasi completamente dearabizzata).
In occasione del sessantesimo anniversario della fondazione, il Jerusalem Report ricostruisce le tappe fondamentali che hanno portato il paese a vincere la difficile scommessa per la sopravvivenza, evidenziando come la legittimazione internazionale sia stata la carta fondamentale per lo strapotere odierno di Israele. "Quando nel novembre del 1948 Israele chiese per la prima volta di essere ammesso tra i membri delle Nazioni Unite, solo cinque paesi votarono a favore. Il suo futuro sembrava appeso a un filo: senza la legittimazione internazionale, il nuovo stato non avrebbe mai ottenuto il sostegno diplomatico e militare di cui aveva bisogno per contrastare i paesi arabi. Negli anni cinquanta, dopo il riconoscimento formale, l'occidente e il blocco sovietico voltarono di nuovo le spalle a Israele per cercare di conquistare il sostegno del mondo arabo. Fu solo la vendita clandestina di armi da parte della Germania e della Francia a rendere possibile la vittoria nella guerra dei sei giorni nel 1967. Quella vittoria convinse gli Stati Uniti a puntare sullo stato ebraico come base strategica nel Medio Oriente e a garantire la sua protezione. Ma Israele ha anche commesso un grosso errore: rifiutando le opportunità di risolvere la questione palestinese ha contribuito a creare i nemici che lo minacciano oggi: Hezbollah, Hamas e, soprattutto, l'Iran".



APPROFONDIMENTI:
Israele affronta la sua storia – Le Monde diplomatique_ediz. Ita., maggio 2008.
È un'invenzione il «popolo ebreo»? – Le Monde diplomatique_ediz. Ita., maggio 2008.
L'«altro giudaismo» di Avraham Burg – Le Monde diplomatique_ediz. Ita., maggio 2008.
Ahmadinejad e Bush, perle di saggezza su Israele-Palestina – altrenotizie, 11/06/2008
Israele e gli “arabi del ‘48” – altrenotizie, 12/05/2008.

Emergenza perenne

Come afferma la parola stessa, un'emergenza è un evento inaspettato, una circostanza inattesa di breve durata. Quando la situazione di emergenza diventa perenne non è più emergenza. Si parla allora di circostanza abituale. E sembra proprio che in Campania debbano fare l'abitudine all'immondizia. Neanche il 'supercommissariostraordinario' De Gennaro, evocato come deus ex machina, è riuscito - come del resto era ampiamente prevedibile - a risolvere il problema. In quanto pervaso da responsabilità più disparate e caratterizzato da anni di totale menefreghismo, è un problema molto complesso che, possiamo giurarci, non mancherà di tornare a galla.

vignetta di Marco Viviani

Demografia, la forza dei numeri

Il salone del libro ha dato luogo a roventi polemiche e non ha mancato di suscitare futili dibattiti pieni di accuse. Le manifestazioni culturali non vanno mai boicottate. Vanno, semmai, seguite ed incoraggiate, perché solo con il confronto culturale si può uscire dai pericoli di certe derive ideologiche. Allo stesso modo, le manifestazioni di dissenso (purché pacifiche, come mi sembra sia avvenuto a Torino) verso l'operato di certi paesi, in particolare dei loro governi, vanno non solo tollerate e aiutate, ma anche preservate da sterili strumentalizzazioni. Ciò vale tanto per la Cina quanto per Israele.
Prendo a spunto il salone del libro per suggerire uno degli ultimi che ho letto. Il tema centrale - il ruolo che la demografia svolge all'interno dell'inestricabile questione israelo-palestinese - è uno di quelli meno evidenziati nei dibattiti odierni, ma anche uno di quelli che fungerà da fattore geopolitico preminente.


Tra le tante chiavi di lettura del lungo conflitto tra israeliani e palestinesi c'è la demografia: vengono riportati numeri degli uni e degli altri e tracciati scenari in cui la parola chiave è sorpasso, quello che i palestinesi, demograficamente, compiranno prima o poi sugli israeliani. Numeri maneggiati spesso senza perizia e per sostenere il proprio argomento o scelte politiche, come il ritiro da Gaza del 2005, o per dibattere il dilemma tra demografia e democrazia. Sergio Della Pergola, demografo dell'Università Ebraica di Gerusalemme, ha scritto un libro che mette ordine in tutto questo: è un libro che, con chiarezza e leggibilità, propone alcuni punti fermi nel complesso universo di Israele e Palestina. Complessa soprattutto la componente israeliana, perché è a sua volta composta da gruppi molto più eterogenei, per provenienza di origine, per differenziazione politica, etnica e religiosa (un quinto degli israeliani non sono ebrei, ma arabi e in maggioranza musulmani). Un insieme di tessere che Della Pergola descrive rapidamente e ricompone per ricostruire il quadro storico e proporre possibili scenari. Gli ebrei di Israele hanno un tasso di natalità molto alto, il più alto dei paesi sviluppati. E ancora più alto è quello dei palestinesi di Gaza e della West Bank, con gli arabi israeliani in posizione intermedia. Il quadro proposto arriva al 2050, un'eternità in termini demografici, e quindi ha un'ampia banda di oscillazione, ma - salvo eventi del tutto imprevedibili - si arriva a una chiara conclusione: nell'area ex Palestina britannica ci sarà il sorpasso dei non ebrei sugli ebrei. Si arriva, in ipotesi media, a una previsione di popolazione ebraica allargata (compresi circa 500mila non ebrei in famiglie ebraiche) di circa 8,7 milioni, a fronte di 14,6 milioni di palestinesi - e compresi 3,1 milioni di arabi israeliani. Più vicino, la previsione del 2020 vede 6,7 milioni di ebrei e 7,6 milioni di palestinesi, compresi quasi 2 milioni di arabi israeliani.
Ed è quando il demografo va sul terreno della politica che il lettore viene accompagnato a visitare le prospettive, con le possibili varianti. Tutto dipende da quali scenari si vorranno attuare, o in quali scenari si scivolerà per inazione. Fanno capolino idee ormai dimenticate, come l'opzione prevista dal piano di spartizione Onu del 1947 (ebrei che diventano cittadini palestinesi, arabi che diventano israeliani, e senza muoversi) ma anche la più nota ipotesi degli scambi di territorio tra le parti, magari in triangolazione con l'Egitto. Uno scambio territoriale prioritario dovrebbe coinvolgere gli arabi di Gerusalemme est (che votano solo nelle elezioni municipali) e quelli del cosiddetto Piccolo Triangolo (quindi cittadini israeliani), situato tra il mare e l'ex Linea verde, a nord di Tel Aviv: due punti in cui si concentrano quasi mezzo milione di arabi. Ma il secondo gruppo è assolutamente contrario all'idea, che incontrerebbe comunque altre enormi difficoltà. Un confine rispunta inoltre, con modifiche certo non felici di quello ante 1967, sotto forma di barriera di separazione - che di buono ha almeno una cosa, il ripristino del concetto di linea tra il qua e il là.
Cifre e ragionamenti che vanno considerati anche in termini di risorse, come l'acqua, e di economia, ovvero prospettive di lavoro. Oggi, metà dei palestinesi ha meno di 15 anni. Anche i loro tassi di natalità scenderanno, ma rimane oggi il problema di dare una soluzione economica e non solo politica a un enorme numero di giovani palestinesi che hanno un alto tasso di istruzione, e quindi di aspettative frustrate. La panoramica demografica porta a ordinare i possibili scenari: la terra unica e omogenea, ovvero il disastro dell'una o dell'altra parte. Poi, e trascuriamo gli inestricabili diritti storici, la prevalenza attraverso la forza, ma la guerra o lotta permanente sono comunque soluzioni impraticabili. La subordinazione da parte di una terza forza sembra da escludere. Rimane la fine delle identità, che appare perlomeno prematura, e soprattutto rimane il compromesso, territoriale con due Stati, funzionale con una forma di federazione.
Della Pergola passa infine a tratteggiare le due logiche: Israele e il "raccoglimento" (hitkansut) - ovvero il ritiro da Gaza e possibilmente da parte o tutto il West Bank, per consolidare l'identità ebraica, storica e civile - e i palestinesi e la logica della tregua (hudna), che non è certo smobilitazione, ma può permettere di dirigere le energie verso una soluzione del problema dei profughi, un rinnovamento della leadership e magari una modernizzazione in senso pluralistico dell'Islam. C'è un ruolo che l'Unione Europea può ricoprire, non solo politico ed economico, ma soprattutto con l'esempio di un progetto comune come rinuncia a parte dei progetti dei singoli.
L'epilogo del libro ripercorre gli errori del passato: la mancata proclamazione di uno Stato palestinese nel 1948, la mancata telefonata degli israeliani dopo la guerra dei 6 giorni, ma soprattutto ribadisce che la priorità israeliana è la preservazione della democrazia e della predominanza dei valori ebraici, mentre quella palestinese è la creazione di uno Stato. Solo la separazione in due Stati può impedire alla demografia di alimentare il conflitto. Ma non è chiaro se esista la buona volontà e la capacità politica, delle due parti, per arrivare alla fine del conflitto, per scegliere tra visione e disastro. Il libro che, con grande chiarezza e passione, ha usato la forza dei numeri per parlare di politica finisce così per indicare, in modo implicito, il più grande dei nemici dei due popoli: la debolezza della politica.

* Sergio Della Pergola, Israele e Palestina, la forza dei numeri - Il conflitto mediorientale fra demografia e politica, Il Mulino, Bologna 2007.

lunedì 12 maggio 2008

Il riconoscimento dello stato nuovo

Secondo il diritto internazionale uno Stato, per essere considerato tale, deve possedere 3 caratteristiche sostanziali: un popolo (stanziato in un dato territorio e con una propria coscienza politica senza la necessità che risulti omogeneo in aspetti quali la cultura, la religione, etc, su cui esercitare il controllo), un territorio (il controllo va esercitato su di uno specifico territorio, pur non essendo importante che i suoi confini siano esattamente delineati) e una sovranità reale sul territorio e sul popolo (tanto interna - la capacità di uno stato di esercitare il proprio imperio all'interno del proprio territorio – quanto esterna - la capacità di esercitare il governo di una regione e di un popolo indipendentemente da ingerenze di altri stati). Da ciò deriva che i requisiti della soggettività internazionale dello Stato sono rintracciabili nella sua effettività, ossia nel controllo effettivo di una comunità territoriale (dal momento che la nascita di uno Stato è un processo ‘di fatto’ o politico o storico, e non giuridico, almeno secondo la communis opinio) e nella sua indipendenza, ossia nel fatto che l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato (la cosiddetta indipendenza dello Stato-organizzazione). In particolare, il requisito dell’indipendenza va inteso cum grano salis. Se lo si volesse intendere come assoluta possibilità di determinarsi da sé, si giungerebbe alla conclusione che nessuno Stato (e forse nemmeno le grandi Potenze) sia soggetto di diritto internazionale, essendo l’interdipendenza una delle caratteristiche oggigiorno sempre più marcate delle relazioni internazionali. Che dire poi degli ‘Stati satelliti’, della sovranità limitata, della presenza di basi e truppe straniere, e di tutti gli altri condizionamenti messi in atto dagli Stati più forti nei confronti dei più deboli? Dove porre allora il limite oltre il quale non c’è indipendenza e, quindi, non c’è soggettività internazionale?
Nella dottrina prevalente (cfr. per esempio CONFORTI) si ritiene che non possa che farsi leva su di un dato formale: è indipendente e sovrano lo Stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua legittimità e forza giuridica da una propria Costituzione e non da quella (a volte anche imposta) di un altro Stato [1]. Il che permette di spiegare – tra l’altro – perché normalmente si ritenga che non influiscano sulla soggettività la dimensione dello Stato, la sua pacificità e democraticità, nonché l’estensione materiale delle sue risorse economiche (si pensi, tra tutti, a San Marino e al Lichtenstein). Una sola eccezione può forse ammettersi (CRAWFORD): il dato formale non può più invocarsi – e deve cedere di fronte al dato reale – quando l’ingerenza da parte di un altro Stato nell’esercizio del potere di governo è totale, quando cioè il Governo indigeno è di fatto un ‘Governo fantoccio’ [2]. L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente il proprio potere su di una comunità territoriale diviene soggetto internazionale in modo automatico. Non è infatti necessario che essa sia riconosciuta dagli altri Stati. Solo per fare qualche esempio, si sa che l’Italia riconobbe la Repubblica democratica tedesca (e viceversa) solo nel 1973; che gli Usa e la Cina si riconobbero reciprocamente solo nel 1978-79, epoca in cui cessarono i rapporti diplomatici tra i primi e Taiwan; che la maggior parte degli Stati arabi non riconosce Israele; che l’Italia ed altri paesi hanno riconosciuto Croazia e Slovenia – proclamatesi indipendenti per scissione dall’ex-Jugoslavia – nel 1992. Orbene, tutto ciò ha scarsa rilevanza giuridica, dal momento che per il diritto internazionale – almeno secondo l’opinione che meglio corrisponde alla prassi seguita dagli Stati – il riconoscimento è un atto meramente lecito, così come il non-riconoscimento: entrambi non producono conseguenze giuridiche [3].
Il riconoscimento appartiene, insomma, alla sfera squisitamente politica (QUADRI) e rivela null’altro che l’intenzione di stringere rapporti, scambiare rappresentanze diplomatiche e avviare forme di collaborazione che, a seconda del loro grado di intensità, viene solitamente sottolineata dalla formula del riconoscimento de jure o de facto [4]. Quando si nega valore giuridico al riconoscimento – atto in ordine al quale le più varie teorie sono state sostenute – si viene a respingere soprattutto la tesi che esso sia costitutivo [5] della personalità internazionale. Si viene cioè a respingere la tesi secondo cui, affermandosi una nuova organizzazione di governo con i caratteri dell’effettività e dell’indipendenza, gli Stati pre-esistenti possano esercitare nei suoi confronti (appunto mediante il riconoscimento) una sorta di potere di ammissione nella comunità internazionale [6]. Bisogna però ammettere che tale tesi ha il merito di cogliere una tendenza che è stata sempre presente nella prassi internazionale, anche se non è mai riuscita a tradursi in precise norme giuridiche. Gli Stati pre-esistenti tendono, infatti, a giudicare se il nuovo Stato meriti o meno la soggettività, ancorando il loro giudizio ad un certo valore o ad una certa ideologia (come del resto ha fatto Bush nel caso del Kosovo): se in passato si usava non riconoscere uno Stato che non fosse monarchico o non fosse cristiano, in epoca attuale si tende a sostenere che non siano da riconoscere come soggetti internazionali i Governi affermatisi con la forza, gli Stati ‘non democratici’, quelli ‘non amanti della pace’ o che violano i diritti umani, etc. L’unica verità in tutto ciò è che questa tendenza non si è mai tradotta in norme internazionali per il semplice fatto che gli Stati, anche quando si trovano d’accordo sul valore da porre a base del riconoscimento, divergono poi (il più delle volte per ragioni politiche) sulla sua riscontrabilità in ciascun caso concreto.
Se, quindi, i requisiti necessari affinché lo Stato acquisti (automaticamente) la personalità internazionale sono quelli dell’effettività e dell’indipendenza, resta da chiedersi se essi siano anche sufficienti o se ne occorrano altri. Tralasciando le evidenti esagerazioni delle già citate Dichiarazioni di Bruxelles (che contengono una lunga lista di requisiti che non trova precedenti nella prassi), sarà sufficiente in questa sede limitarsi ai requisiti che oggi più frequentemente ricorrono, e cioè che lo Stato nuovo non costituisca una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, goda del consenso del popolo – espresso tramite libere elezioni – e non violi i diritti umani. Può effettivamente dirsi che non siano da considerare come soggetti internazionali gli Stati che tengano comportamenti del genere? La risposta è da ritenersi negativa. In realtà, tali requisiti, se considerati non come requisiti ai quali uno Stato pre-esistente subordina l’instaurazione di rapporti di amicizia con uno Stato nuovo, ma come presupposti della personalità internazionale – e quindi come presupposti che devono sussistere non solo affinché la personalità si acquisti, ma affinché essa non si perda – non trovano alcun riscontro nella realtà. Stati che, permanentemente o temporaneamente, minacciano la pace o sono autoritari o violano i diritti umani non mancano nella comunità internazionale. E non sono neppure pochi. Anzi, a ben guardare, costituiscono larga maggioranza. Ma non è tutto: se è sicuramente vero che, secondo sicuri principi del diritto internazionale contemporaneo, uno Stato è obbligato a non minacciare la pace e a rispettare i diritti umani, è altrettanto vero che simili obblighi, in quanto tali, non condizionano ma, anzi, presuppongono e, in ultima analisi, contribuiscono a definire la personalità giuridica dello Stato medesimo.

NOTE:
[1] Tale concezione solleva diversi dubbi, per esempio, sulla classificazione giuridica dell’Iraq, la cui Costituzione è stata de facto imposta dall’occupante statunitense e, addirittura, scritta in inglese per poi essere tradotta in arabo, con tutte le difficoltà e le incongruenze della traduzione.
[2] Governi fantoccio, come tali privi di soggettività internazionale, si ebbero ad esempio durante la 2nda GM nei territori occupati dai Nazisti (Governo Quisling in Norvegia, Repubblica sociale italiana, etc.). Un esempio attuale di Governo fantoccio è da molti considerato quello della Repubblica turco-cipriota, insediata dalle forze militari turche nella parte settentrionale di Cipro e controllata dalla stessa Turchia. Di questo avviso è in particolare la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. del 18/12/1996 nel caso Loizidou c. Turchia) che ritiene responsabile la Turchia per la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo perpetrate in quel territorio. Nello specifico, secondo la Corte, “Non occorre accertare se…la Turchia eserciti nel dettaglio un controllo sulla politica e sulle azioni delle autorità della Repubblica turca di Cipro del Nord. Il gran numero di soldati [turchi] che partecipano a missioni attive nel Nord di Cipro…attesta che l’esercito turco ha in pratica un controllo globale di questa parte dell’isola…Tale controllo implica la responsabilità della Turchia in ragione della politica e delle azioni della Repubblica” (par.44).
[3] L’irrilevanza del riconoscimento (e del non-riconoscimento) sull’esistenza dello Stato è efficacemente messa in luce in una sentenza della Corte d’appello degli Stati Uniti (2° circuito, 24/01/1992, New York Chinese TV Programs Inc. v. UE Enterprises Inc., ILR, vol.96, 81ss., partic.88). La Corte si rifiuta di considerare come estinto – per estinzione di uno dei soggetti contraenti – un trattato tra Usa e Taiwan, Stato non più riconosciuto dai primi dopo il 1979 ma, a giudizio della Corte, ancora dotato degli attributi statali. La sentenza contiene anche un riferimento ai trattati tra Usa e altri Stati, come Iran e Cuba, da essi non riconosciuti.
[4] Più approfonditamente, il riconoscimento può essere espresso (dichiarato formalmente), tacito (ricavabile da fatti concludenti, come l’instaurazione di relazioni diplomatiche), de facto (provvisorio e limitato ad alcuni rapporti giuridici, come in caso di instabilità del nuovo Stato), de jure (definitivo e pieno), di Stati (relativo ad un nuovo Stato) o di Governi (relativo ad un Governo rivoluzionario di uno Stato pre-esistente).
[5] Un’importante distinzione si ha, a tal proposito, tra teoria del valore costitutivo (bilaterale o unilaterale) e teoria del valore dichiarativo. Fonti del primo caso sono: Trattato di pace di Parigi del 30/03/1856 (art.7); Dichiarazioni di Bruxelles del 16/12/1991 (cfr. nota 7). Fonti del secondo caso sono invece: risoluzione dell’Institut de droit international del 23/04/1936 sul riconoscimento degli Stati e dei Governi; sentenza della Corte di Cassazione italiana del 25/06/1985 n.1981 sul caso Yesser Arafat; parere n.10 del 04/07/1992 della Commissione arbitrale mista istituita dalla Conferenza di pace sulla Jugoslavia.
[6] Ciò è particolarmente vero per i cd. riconoscimento di Stati e di Governi: se si ritiene che lo Stato quale soggetto internazionale si identifichi con lo Stato-organizzazione (il complesso degli organi statali) ne consegue che il riconoscimento di Stati e quello di governi rivoluzionari coincidono (se cambia radicalmente il governo di uno Stato, cambia anche lo Stato stesso come soggetto internazionale, e il riconoscimento del nuovo governo equivale allora al riconoscimento del nuovo Stato); se invece si accoglie una diversa nozione di Stato quale soggetto internazionale (come ad esempio quella tridimensionalistica che lo configura come ‘ente ternario’ o insieme di 3 elementi – popolo, territorio e sovranità su di essi) si accetta la distinzione tra riconoscimento di Stati e riconoscimento di Governi, ossia la possibilità che l’uno non implichi necessariamente l’altro.

lunedì 5 maggio 2008

Quando un operaio muore


Quando un operaio muore... i politici di destra, di sinistra e di centro si indignano;
quando un operaio muore... il giorno dopo Prodi fa il decreto legge;
quando un operaio muore... Veltroni candida un industriale, ma anche un sopravvissuto della Thyssen Krupp;
quando un operaio muore... il giuslavorista Ichino dice che in Italia manca la 'cultura delle regole';
quando un operaio muore... il Presidente della Repubblica auspica in televisione;
quando un operaio muore... Maroni dice che non è colpa dei governi perché le leggi ci sono;
quando un operaio muore... nessuno parla della legge 30, dei precari, dei ricatti che subiscono, della legge del padrone e degli estintori vuoti, altrimenti vai a casa;
quando un operaio muore... oggi Fassino e D'Alema, ieri Berlinguer e Pertini;
quando un operaio muore... il padrone ha già messo i soldi da parte;
quando un operaio muore... la vedova e i figli finiscono in mezzo alla strada;
quando un operaio muore... i sindacati dichiarano uno sciopero di solidarietà di 2 ore;
quando un operaio muore... la colpa è del casco, in fondo se l'è cercata;
quando un operaio muore... se si lamentava per l'insicurezza finiva licenziato perché precario;
quando un operaio muore... è un assassinio, quasi sempre;
quando un operaio muore... faceva un lavoro a rischio e, dunque, poteva succedere;
quando un operaio muore... si danno incentivi alle aziende che diminuiscono gli incidenti, ma non si chiudono quelle che producono i morti;
quando un operaio muore... è perché la sicurezza è troppo onerosa per Confindustria;
quando un operaio muore... è un fatto di business, qualcuno ci ha guadagnato sopra;
quando un operaio muore... se faceva il politico campava 100 anni...