martedì 19 giugno 2007

Questioni irrisolte

Il tempo passa, nessuno ne parla, tutti dimenticano e alcune questioni rimangono irrisolte. I processi 'Calipari' e 'Abu Omar' sembrano fin dal loro inizio avviati verso una fine scontata - che non prevede colpevoli - e i media nazionali omettono di dare informazioni all'opinione pubblica. Se nessuno sa, del resto, è più facile produrre l'effetto desiderato. Dal canto suo, il governo - alle prese con l'inconsistenza e l'incapacità che sembra avere iscritte nel suo Dna - ha scelto di inchinarsi ai diktat d'oltreoceano e, nel caso Omar, ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale appellandosi al segreto di stato per bloccare i magistrati di Milano. Insomma, alcuni degli interessi dello stato sono stati lesi e noi stiamo zitti.

TIRATECI FUORI -
Nel caso Calipari si sta assistendo al tentativo da parte del Dipartimento alla difesa americano di accreditare e imporre una propria interpretazione delle leggi italiane, con l'evidente scopo di sottrarsi al processo di Roma: in sostanza, l'impossibilità per il ministero Usa di essere coinvolto in un processo di un altro stato deriverebbe - secondo le parole di Washington - dal fatto che gli Stati uniti sono una nazione sovrana. Non si capisce, però, perchè non dovremmo esserlo anche noi...
Ma torniamo indietro. All'inizio del processo, Giuliana Sgrena indicò di voler tirare in ballo l'amministrazione americana per il pagamento dei danni: il gup accettò la richiesta e l'atto di citazione - giunto a Washington il 13 giugno - è pienamente valido. Il nostro codice di procedura penale non pone l'obbligo di partecipazione al processo per il responsabile civile che viene citato e, quindi, nel caso di specie, il Dipartimento alla difesa può prendervi parte, può chiedere di esserne escluso (presentandosi almeno ad un'udienza) o può - come è probabile in questo caso, visto che per loro questo processo non esiste nemmeno - non presentarsi per niente.
E' chiaro, però, che se non si presenta il processo prosegue normalmente e in virtù di una sentenza definitiva (arriverà mai?) produce ugualmente i suoi effetti. Staremo a vedere l'opinione del tribunale all'udienza del 10 luglio.

SEGRETO DI STATO -
Appellandosi al segreto di stato il governo ha raggiunto l'obiettivo della sospensione del processo per il sequestro di Abu Omar, che vede imputato l'ex direttore del SISMI Nicolò Pollari insieme ad altre 33 persone, 26 delle quali sono agenti Cia. In attesa della decisioni sul conflitto di competenza tra Stato e Procura
, quindi, il processo è sospeso fino al 24 ottobre.
Per il giudice Magi è stata una scelta "discrezionale, ma necessaria", dal momento che la decisione della Corte potrebbe avere rilevanza e compromettere il processo. La non sospensione, inoltre, avrebbe potuto gettare ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche. Se la Consulta dovesse accogliere il ricorso, molti degli elementi probatori su cui si basa il rinvio a giudizio (intercettazioni, verbali degli interrogatori, documenti sequestrati) non sarebbero più utilizzabili e tutto sarebbe annullato.
La scelta di sospendere il processo è sembrata impeccabile sotto il profilo tecnico-giuridico, ma non serve a nascondere le imperfezioni del sistema: nel caso in cui la Consulta rigettasse il ricorso, infatti, nulla impedirebbe al governo di presentarne un altro. Che vorrebbe dire sospensione ulteriore.

HANEFI LIBERO -
La bella notizia viene, invece, dall'Afghanistan e riguarda la liberazione (finalmente) di Ramatullah Hanefi. La vicenda meriterebbe ampio spazio e non può essere questa la sede di discussione (invito in ogni caso a ripassare un po' la cronologia degli avvenimenti dal sito di Peacereporter). Una domanda nasce, però, spontanea: era proprio necessario privare un individuo per 3 mesi della sua inviolabile libertà - senza accuse provate e tali da giustificare un simile trattamento - torturarlo, ridurlo in uno stato inumano, senza le più elementari garanzie e poi liberarlo (come era prevedibile con un po' di buon senso) perché gli elementi raccolti sono a dir poco solo indiziari e difficilmente sostenibili?
Anche per questa vicenda, però, sarà necessario aspettare i futuri sviluppi.

sabato 16 giugno 2007

Bandire le cluster bombs

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Le bombe a grappolo (cluster bombs) sono armi da guerra che uccidono e feriscono migliaia di civili innocenti, sia al momento del loro utilizzo che nei mesi ed anni successivi, a causa della contaminazione da ordigni inesplosi che lasciano dietro di sé . Il loro uso continua a sfidare principi consolidati del diritto internazionale umanitario. Per i loro effetti indiscriminati, una volta rimaste inesplose sul terreno, le sub-munizioni rilasciate dalle cluster bombs sono assimilabili alle mine antipersona.
I problemi sollevati dall’uso delle munizioni cluster sono molteplici. Innanzitutto, data la loro natura di “armi d’area” in grado di disseminare submunizioni su vaste aree, rendono particolarmente problematico, se utilizzate in prossimità di aree abitate da civili, il puntamento su obiettivi di natura esclusivamente militare, rendendo così indiscriminati i loro effetti immediati, in palese violazione dell
’Art. 51 del I protocollo della Convenzione di Ginevra.
Una cluster bomb non esplosa mantiene la sua potenzialità letale praticamente all’infinito e diventa molto più pericolosa di una mina antipersona in quanto può esplodere alla minima sollecitazione anche casuale con effetti letali 3 volte superiori a quelli della più potente mina ad azione estesa ad oggi conosciuta. Inoltre non è un dato irrilevante che, come confermano i dati provenienti da zone di conflitto, vengano utilizzate indiscriminatamente anche in aree abitate,o nelle loro immediate vicinanze e che la conseguente contaminazione rallenti la fase di ricostruzione post-conflitto, la coltivazione dei campi, l’accesso ai pascoli, ai pozzi e renda mortalmente insicure strade, scuole ed abitazioni.
Nell’ultimo conflitto nel sud del Libano il 60% delle cluster bombs è stato lanciato nelle immediate vicinanze di centri abitati o villaggi – guarda caso nell’ultimo giorno di guerra. (fonte: Foreseeable harm. The use and impact of cluster munitions in Lebanon: 2006 – Landmine Action – UK). Sempre nello stesso conflitto, la stima del numero delle munizioni inesplose, come segnalato dal Mine Action Coordination Center delle Nazioni Unite nel sud del Libano superava verosimilmente il milione di ordigni.


I paesi che hanno in uso questi ordigni sono 15: Arabia Saudita, Bosnia Erzegovina, Eritrea, Etiopia, Finlandia, Francia, Israele, Nigeria, Olanda, Pakistan Regno Unito, Serbia, Stati Uniti, Sudan, Turchia.
I paesi contaminati dalle cluster bombs sono 22: Afghanistan, Albania, Arabia Saudita, Bosnia Erzegovina, Cambogia, Chad, Croazia, Eritrea, Etiopia, Iraq, Kuwait, Laos, Libano, Pakistan, Russia, Serbia, Montenegro, Sierra Leone, Sudan, Siria, Tajikistan, Vietnam.
Territori contaminati dalle cluster munitions: Cecenia e Kosovo.

I paesi che producono munizioni cluster sono 32 e tra questi vi è anche l’Italia con la Simmel Difesa di Colleferro (Roma). Il nostro paese inoltre è tra i 70 paesi detentori di stock di cluster bombs.

lunedì 11 giugno 2007

Se Israele si ostina a vivere la vita degli altri

Akiva Eldar, analista israeliano. L'articolo è tratto dal quotidiano Haaretz.

Esattamente quarant'anni fa è scattato l'ultimo giorno in cui i cittadini di Israele sono stati un popolo libero nella propria terra. Dopo quel giorno, abbiamo cominciato a pagare il prezzo di vivere la vita degli altri. Il regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck ha recentemente esplorato quel prezzo nel suo acclamato film «La vita degli altri» sul modus operandi della Stasi - la polizia segreta della Germania Est comunista.
La minaccia che è piombata su Israele il 4 giugno 1967 riguarda la sua stessa sopravvivenza. Ha cancellato dalle nostre coscienze l'idea che le nostre vite qui erano diverse. Quattro decadi di furtiva annessione e 20 anni di conflitto violento hanno contribuito a questa amnesia. Così, la nostra vittoria sul campo di battaglia - che doveva rendere le nostre vite migliori e più sicure - sta rendendo sia le nostre vite che quelle degli altri miserabili. Il 1966 aveva visto un capitolo importante nella breve storia di Israele. A dicembre, il governo di Levi Eshkol abolì la legge militare, che era praticata in Israele sulla base dei regolamenti del mandato britannico. Così facendo, il governo eliminò il principale ostacolo che impediva alla popolazione araba di Israele di condurre una vita normale. Sei mesi dopo, lo stesso governo decise di rendere indistinta la «linea verde», sfumando la differenza tra Israele e i territori di recente conquista. Di conseguenza, molti ebrei cominciano a considerare gli arabi di città come Baka al-Garbiyeh dalla parte israeliana della Linea verde più o meno come gli arabi di Baka al-Sharkiyeh, che erano dalla parte giordana. Ferite appena rimarginate furono riparte, e un incipiente sentimento di identità cominciò a frammentarsi.
Il bisogno di esercitare l'autorità sulla corposa popolazione dei territori costrinse il governo a rimettere in vigore la legge militare che aveva appena abolito. Il professor Yeshayahu Leibowitz non ebbe bisogno di 40 anni per capire che questo avrebbe trasformato Israele in uno stato di polizia e le Forze di difesa israeliane in un «esercito d'occupazione». Già nella primavera del 1968, aveva messo in guardia contro gli effetti dell'occupazione sull'educazione, la libertà di parola e di opinione e sulla natura democratica del governo. Leibowitz predisse che la corruzione tipica di ogni regime colonialista non avrebbe risparmiato Israele. Mise anche in guardia contro il collasso delle strutture sociali e la corruzione dell'uomo - tanto arabo che ebreo.
Ma neanche la profezia dell'apocalisse di Leibowitz potè prevedere la corruzione di valori determinata dall'impresa colonizzatrice e dall'estensione dei regolamenti di apartheid che avrebbero permesso e incoraggiato il furto di terre. Nessuno avrebbe potuto prevedere quanto tale impresa avrebbe danneggiato la coesione interna di Israele, né quanto avrebbe compromesso la reputazione di Israele agli occhi del mondo libero.
Nel giugno 1967, la piccola Gerusalemme ospitava 13 ambasciate straniere. Dopo l'approvazione della legge fondamentale su Gerusalemme capitale d'Israele, nel 1980, la città venne privata di tutte le sue ambasciate. È stato detto che i territori palestinesi ampliavano i margini di sicurezza della «piccola» Israele. Pochi ricordano che, alla metà degli anni '60, molti mesi prima che scoppiasse la guerra, il governo decise di ridurre il servizio militare obbligatorio di due mesi. Pochissimi soldati beneficiarono di questa riduzione perché i problemi di sicurezza provocati dall'occupazione costrinsero poi il governo a innalzare il servizio militare di 14 mesi - facendolo arrivare a tre anni.
Ma non è tutto. Durante la seconda guerra del Libano, i cittadini di Israele hanno pagato un caro prezzo per le ridotte capacità operative dell'esercito israeliano, conseguenza dell'uso dell'esercito come forza di polizia nei territori che Israele aveva conquistato nel giugno 1967 - fra cui il compito di vigilare sulle proprietà dei ladri di terra ebrei.È vero che in alcuni periodi l'altra parte non voleva discutere di nulla, nemmeno dei confini del 4 giugno 1967. Ma oggi, i 22 stati membri della Lega araba dichiarano che considerano questi confini una base per la pace - un risultato su cui nessuno avrebbe scommesso 40 anni fa. E così Israele sta perdendo l'opportunità di trasformare la sua vittoria militare nel più grande risultato di sempre. Sta perdendo la guerra d'indipendenza dal controllo della vita degli altri.

FONTE: il Manifesto