domenica 28 dicembre 2008

Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?

E leggerò domani, sui vostri giornali, che a Gaza è finita la tregua. Non era un assedio dunque, ma una forma di pace, quel campo di concentramento falciato dalla fame e dalla sete. E da cosa dipende la differenza tra la pace e la guerra? Dalla ragioneria dei morti? E i bambini consumati dalla malnutrizione, a quale conto si addebitano? Muore di guerra o di pace, chi muore perché manca l'elettricità in sala operatoria? Si chiama pace quando mancano i missili - ma come si chiama, quando manca tutto il resto?
E leggerò sui vostri giornali, domani, che tutto questo è solo un attacco preventivo, solo legittimo, inviolabile diritto di autodifesa. La quarta potenza militare al mondo, i suoi muscoli nucleari contro razzi di latta, e cartapesta e disperazione. E mi sarà precisato naturalmente, che no, questo non è un attacco contro i civili - e d'altra parte, ma come potrebbe mai esserlo, se tre uomini che chiacchierano di Palestina, qui all'angolo della strada, sono per le leggi israeliane un nucleo di resistenza, e dunque un gruppo illegale, una forza combattente? - se nei documenti ufficiali siamo marchiati come entità nemica, e senza più il minimo argine etico, il cancro di Israele? Se l'obiettivo è sradicare Hamas - tutto questo rafforza Hamas. Arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l'esercizio della democrazia - ma quale altra opzione rimane? Non lasciate che vi esploda addosso improvvisa. Non è il fondamentalismo, a essere bombardato in questo momento, ma tutto quello che qui si oppone al fondamentalismo. Tutto quello che a questa ferocia indistinta non restituisce gratuito un odio uguale e contrario, ma una parola scalza di dialogo, la lucidità di ragionare il coraggio di disertare - non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l'altra Palestina, terza e diversa, mentre schiva missili stretta tra la complicità di Fatah e la miopia di Hamas. Stava per assassinarmi per autodifesa, ho dovuto assassinarlo per autodifesa - la racconteranno così, un giorno i sopravvissuti.
E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente - e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro? E soprattutto - perché mai dovrebbero averlo, se la Road Map è solo l'ennesima arma di distrazione di massa per l'opinione pubblica internazionale? Quattro pagine in cui a noi per esempio, si chiede di fermare gli attacchi terroristici, e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come - testuale - gli attacchi contro i civili. Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto, è un crimine di guerra non una questione di cortesia. E se Annapolis è un processo di pace, mentre l'unica mappa che procede sono qui intanto le terre confiscate, gli ulivi spianati le case demolite, gli insediamenti allargati - perché allora non è processo di pace la proposta saudita? La fine dell'occupazione, in cambio del riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi. Possiamo avere se non altro un segno di reazione? Qualcuno, lì, per caso ascolta, dall'altro lato del Muro?
Ma sto qui a raccontarvi vento. Perché leggerò solo un rigo domani, sui vostri giornali e solo domani, poi leggerò solo, ancora, l'indifferenza. Ed è solo questo che sento, mentre gli F16 sorvolano la mia solitudine, verso centinaia di danni collaterali che io conosco nome a nome, vita a vita - solo una vertigine di infinito abbandono e smarrimento. Europei, americani e anche gli arabi - perché dove è finita la sovranità egiziana, al varco di Rafah, la morale egiziana, al sigillo di Rafah? - siamo semplicemente soli. Sfilate qui, delegazione dopo delegazione - e parlando, avrebbe detto Garcia Lorca, le parole restano nell'aria, come sugheri sull'acqua. Offrite aiuti umanitari, ma non siamo mendicanti, vogliamo dignità libertà, frontiere aperte, non chiediamo favori, rivendichiamo diritti. E invece arrivate, indignati e partecipi, domandate cosa potete fare per noi. Una scuola? Una clinica forse? Delle borse di studio? E tentiamo ogni volta di convincervi - no, non la generosa solidarietà, insegnava Bobbio, solo la severa giustizia - sanzioni, sanzioni contro Israele. Ma rispondete - e neutrali ogni volta, e dunque partecipi dello squilibrio, partigiani dei vincitori - no, sarebbe antisemita. Ma chi è più antisemita, chi ha viziato Israele passo a passo per sessant'anni, fino a sfigurarlo nel paese più pericoloso al mondo per gli ebrei, o chi lo avverte che un Muro marca un ghetto da entrambi i lati? Rileggere Hannah Arendt è forse antisemita, oggi che siamo noi palestinesi la sua schiuma della terra, è antisemita tornare a illuminare le sue pagine sul potere e la violenza, sull'ultima razza soggetta al colonialismo britannico, che sarebbero stati infine gli inglesi stessi? No, non è antisemitismo, ma l'esatto opposto, sostenere i tanti israeliani che tentano di scampare a una nakbah chiamata sionismo. Perché non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l'altro Israele, terzo e diverso, mentre schiva il pensiero unico stretto tra la complicità della sinistra e la miopia della destra.
So quello che leggerò, domani, sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid - e genocidio. Perché non importa che le politiche israeliane, tecnicamente, calzino oppure no al millimetro le definizioni delicatamente cesellate dal diritto internazionale, il suo aristocratico formalismo, la sua pretesa oggettività non sono che l'ennesimo collateralismo, qui, che asseconda e moltiplica la forza dei vincitori. La benzina di questi aerei è la vostra neutralità, è il vostro silenzio, il suono di queste esplosioni. Qualcuno si sentì berlinese, davanti a un altro Muro. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?

Mustafa Barghouti (ex ministro dell'informazione del governo di unità nazionale palestinese) Ramallah, 27 dicembre 2008.

giovedì 25 dicembre 2008

Glory days

I dieci momenti più alti dell'uomo che per 8 lunghi anni ha guidato l'impero globale trasformando il mondo precedente in un mondo decisamente peggiore. Su tutti gli altri momenti rimandiamo a "Radio Baghdad" e "Radio Kabul" (tanto per fare gli esempi più eclatanti).

lunedì 22 dicembre 2008

Scarpe di distruzione


Dopo che Muntazer al Zaidi ha lanciato le scarpe contro George W. Bush, i giornalisti iracheni temono nuove restrizioni per avere accesso alle conferenze stampa. Le regole erano già più complicate di una partita a Risiko: per partecipare bisogna avere un documento d'identità rilasciato dal governo, un permesso scritto per entrare nella zona verde, essere perquisiti almeno quattro volte ad altrettanti checkpoint, essere già inseriti nella lista. E alla fine si rischia comunque di non riuscire ad arrivare in tempo. Molti giornalisti iracheni hanno criticato il gesto di Al Zaidi: "Poteva esprimere la sua protesta facendo delle domande", "Non sappiamo neppure i motivi della sua rabbia". Alcuni conoscono la sua storia: a trent'anni è stato rapito da sconosciuti. È stato trovato una settimana dopo, di notte, steso a terra, al centro di Baghdad. Molti suoi colleghi sanno che ha sofferto. E non sono d'accordo con la brutalità con cui è stato trattato dalle forze di sicurezza statunitensi e irachene. Un giovane reporter mi ha detto: "Ora useranno l'incidente come scusa per far partecipare alle conferenze stampa solo i mezzi d'informazione governativi o internazionali. O magari ci obbligheranno a toglierci le scarpe".

Fonte: Zuhair al Jezairy, Internazionale 775, 18 dicembre 2008 (Link).

martedì 25 novembre 2008

Pensare l'impensabile

Dunque, si poteva fare tutto. Un intervento finanziario massiccio dello stato, dimenticando i vincoli del patto di stabilità europeo. La capitolazione delle banche centrali a fronte dell'urgenza di un rilancio. La messa all'indice dei paradisi fiscali. Tutto era possibile, dal momento che si dovevano salvare le banche. Per trent'anni, ogni idea anche minima di una qualsiasi alterazione dei fondamenti dell'ordine liberista, ad esempio allo scopo di migliorare le condizioni di vita della maggioranza della popolazione, si scontrava immancabilmente con lo stesso tipo di argomentazioni: non si può essere arcaici; la globalizzazione è la nostra legge; le casse sono vuote; i mercati non accetterebbero. O anche: non vi siete accorti che il muro di Berlino è caduto? Per un trentennio si è andati avanti con le «riforme», ma nella direzione opposta: quella di una rivoluzione conservatrice che ha consegnato alla finanza fette sempre più consistenti e succose del bene comune, quali i servizi pubblici privatizzati e trasformati in macchine da soldi al fine di «creare valore» per l'azionista. E di una liberalizzazione degli scambi che ha eroso i salari e la protezione sociale, costringendo decine di migliaia di persone a indebitarsi per preservare il proprio potere d'acquisto, a «investire» in borsa o nelle assicurazioni per pagarsi l'istruzione, premunirsi in caso di malattia, prepararsi una pensione.
La deflazione salariale e i tagli nel campo delle tutele sociali hanno dunque prodotto e favorito la finanziarizzazione sfrenata: si è creato il rischio per poi incoraggiare misure cautelative. In breve, la bolla speculativa si è estesa agli alloggi, trasformati in investimenti. E ha continuato a gonfiarsi con l'elio dell'ideologia del mercato. E al tempo stesso è cambiata la mentalità delle persone, meno solidali, sempre più individualiste e calcolatrici. Il crack del 2008 non è dunque essenzialmente tecnico, emendabile con palliativi quali la «moralizzazione» o la fine degli «abusi». È il tracollo di tutto un sistema.Al suo capezzale si stanno dando da fare in tanti, nella speranza di risollevarlo, raffazzonarlo, rimpannucciarlo, per metterlo in grado di infliggere domani qualche nuovo colpaccio alla società.
I medici che simulano indignazione davanti alle conseguenze del liberismo sono però gli stessi che gli hanno fornito i vari afrodisiaci - ideologici, regolamentari, fiscali e di bilancio - grazie ai quali ha potuto scatenarsi senza freni. Sono squalificati, e dovrebbero ammetterlo. Ma sanno bene che un intero esercito politico e mediatico è pronto a fare di tutto per riabilitarli. Si pensi a Gordon Brown, già ministro delle finanze britannico, che come prima misura concesse alla Banca d'Inghilterra la sua «indipendenza»; a José Manuel Barroso, che presiede una Commissione europea con l'ossessione della «concorrenza»; a Nicolas Sarkozy, artefice dello «scudo fiscale», promotore del lavoro domenicale e della privatizzazione delle Poste: sembra sia questo il terzetto che oggi si adopera per «rifondare il capitalismo...» UNA TALE SFRONTATEZZA si spiega anche con una strana assenza. Difatti, dov'è la sinistra?
Quella ufficiale, che ha accompagnato il liberismo e voluto la deregulation del mondo finanziario durante la presidenza del democratico William Clinton, che ha abolito l'indicizzazione dei salari con François Mitterrand, prima di privatizzare, con Lionel Jospin e Dominique Strauss Kahn, o di tagliare con l'accetta le indennità di disoccupazione con Gerhard Schroeder, non ha evidentemente altra ambizione che quella di voltare pagina al più presto, per far dimenticare una crisi di cui è corresponsabile. Ma l'altra sinistra? Può accontentarsi, in un momento come questo, di rispolverare i suoi più timidi e modesti progetti, quantunque non privi di utilità, quali la Tobin tax, l'aumento del salario minimo, i parchi eolici o una nuova Bretton Woods?
Nel periodo keynesiano, la destra liberista ha pensato l'impensabile, e per imporlo ha approfittato di una grande crisi. Fin dal 1949 Friedrich Hayek, padrino intellettuale della corrente che ha prodotto un Ronald Reagan e una Margaret Thatcher, spiegava infatti: «Per un liberale coerente, ecco qual è la principale lezione da trarre dal successo dei socialisti: a rendere possibile ogni giorno ciò che ancora ieri sembrava irrealizzabile (...) è il loro coraggio di essere utopisti». Allora, chi proporrà di mettere in discussione il cuore stesso del sistema, il libero scambio
? Nell'agosto 1993 il premio Nobel ultraliberista Gary Becker spiegava: “Il diritto del lavoro e la tutela dell'ambiente sono divenuti eccessivi nella maggior parte dei paesi sviluppati. Il libero scambio reprimerà alcuni di questi eccessi, obbligando ciascuno a rimanere concorrenziale a fronte delle importazioni dei paesi in via di sviluppo”. «Utopia»? Oggi tutto è possibile, quando si tratta delle banche...

SERGE HALIMI - Le Monde diplomatique, nov 2008

sabato 15 novembre 2008

Bye bye Neocons

GEORGE W. BUSH – 43° e peggiore presidente della storia degli Stati Uniti d’America (almeno per ora)
DONALD RUMSFELD – esponente della destra ultraconservatrice, segretario della difesa
CONDOLEEZA RICE – segretario di stato
DICK CHANEY – vice presidente e, quindi, presidente del senato, personaggio estremamente oscuro
KARL ROVE – consigliere politico e uno dei fedelissimi di Bush, è stato vice-capo dello Staff presidenziale fino alla data delle sue dimissioni


ALBERTO R. GONZALES – capo del dipartimento di giustizia

domenica 26 ottobre 2008

Accordo storico in Bolivia

Nel pieno di una crisi che rischia di far precipitare il paese andino al collasso, il presidente Evo Morales ha raggiunto un compromesso con l'opposizione per approvare la nuova carta costituzionale. [Internazionale, 22 ottobre 2008]

L'intesa tra il partito di Morales Movimiento al socialismo (Mas) e i partiti di opposizione, è arrivata dopo 12 giorni di negoziati, anche grazie alle dimostrazioni dei sostenitori del governo, che negli ultimi giorni sono scesi in piazza per chiedere l'approvazione della 'carta magna' boliviana. "Secondo il patto stipulato", spiega il quotidiano El Diario, "Evo Morales si è impegnato a rinunciare fin da ora a candidarsi per le elezioni del 2014, e l'opposizione, in cambio, ha dato il suo appoggio al congresso per approvare il referendum costituzionale, che si terra il prossimo 25 gennaio [...] La soluzione trovata soddisfa sia i sostenitori di Morales, che spingono per avere la nuova costituzione al più presto, che i membri dell'opposizione, secondo cui il vero obiettivo di Morales era ottenere la presidenza perpetua attraverso la 'carta magna'". Il quotidiano La Razòn commenta con entusiasmo quello che definisce un "negoziato storico". "L'accordo raggiunto nel congresso nazionale conferma prima di tutto che il dialogo, inteso come risorsa privilegiata di uno stato democratico, funziona anche in Bolivia. In secondo luogo, sancisce l'inizio di una fase di riconciliazione, che durerà sicuramente fino al dicembre del 2009, quando i cittadini boliviani dovranno eleggere il futuro presidente". Sulla stessa linea si muove Los Tiempos secondo cui "Non ci sono dubbi sul fatto che la Bolivia sta vivendo un momento storico [...] I maggiori partiti del paese hanno dimostrato finalmente di voler mettere il bene dei cittadini al di sopra di tutto, aprendo la strada alla riconciliazione nazionale. Il cammino è stato duro, pieno di scontri, ma alla fine si può dire che ne è valsa la pena". Coclude La Razòn: "Il 20 ottobre verrà ricordato come il giorno in cui una marea umana ha invaso le strade della capitale La Paz per reclamare il diritto ad avere una nuova costituzione. Speriamo che sia ricordata anche come la giornata in cui ebbe inizio la pacificazione del paese".

APPROFONDIMENTI:

martedì 21 ottobre 2008

Change, we need




* vignetta di Marco Viviani

domenica 12 ottobre 2008

E il Congresso disse "NO"

Il Congresso degli Stati Uniti ha bocciato il piano proposto dall'amministrazione Bush per far fronte alla crisi finanziaria ed evitare il crollo dell'intero sistema economico. Intanto, dalla Russia alla Cina, dalla Germania al Brasile, il mondo è in ansia. I quotidiani statunitensi commentano e cercano di capire quali saranno gli sviluppi futuri.

Molto duro il New York Times: "Negli ultimi otto anni, i parlamentari repubblicani hanno approvato qualsiasi proposta di legge presentata dalla Casa Bianca, dall'aumento delle tasse alla tortura. Adesso, invece, con le sorti del paese in bilico, bocciano l'unico accordo possibile per risollevare il sistema finanziario. La speranza è che l'ulteriore degenerazione della situazione nelle prossime ore li spinga a cambiare idea". Il Washington Post non crede che la crisi sia limitata al settore finanziario: "Tutte le grandi crisi economiche nel corso della storia dell'uomo hanno sempre portato conseguenze politiche devastanti. Basti pensare a come la Grande Depressione abbia contribuito, negli anni trenta del secolo scorso, a favorire l'ascesa del nazismo. La spiegazione è semplice: in fasi come questa si aprono spiragli preoccupanti per leadership e regimi autoritari. C'è da augurarsi che le autorità del mondo occidentale abbiano imparato la lezione". "Nessuno è esente da colpe per quanto è successo", scrive il Los Angeles Times, che continua: "Sono sicuramente colpevoli i 133 congressisti repubblicani che si sono scostati dalla linea del loro partito, ma lo sono altrettanto i 95 democratici che hanno votato contro il piano di Henry Poulson e Ben Bernanke. In totale 228 parlamentari che, per ragioni egoistiche, hanno tagliato le gambe all'unico provvedimento in grado di risollevare le sorti dell'economia". Conclude il Christian Science Monitor: "La verità, dolorosa ma indiscutibile, è che la recessione potrebbe essere la vera medicina, molto più efficace rispetto a qualsiasi piano di salvataggio. L'approvazione del piano Poulson non farebbe che peggiorare la situazione. La soluzione sta nel pianificare una strategia nel lungo periodo basata sulla trasparenza e sulla rivalutazione della classe lavoratrice".
"La decisione di bocciare il piano proposto dal ministro del tesoro Henry Paulson è molto pericolosa", scrive il South China Morning Post, secondo cui "in un momento come questo le strategie politiche vanno messe da parte. La preoccupazione dei partner economici internazionali degli Usa è sicuramente giustificata. Se il piano dovesse saltare definitivamente le loro economie subirebbero effetti devastanti, come ha dichiarato anche un esponente del governo giapponese. Speriamo, dunque, che gli Stati Uniti facciano la cosa giusta". Secondo il tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung "la crisi è ormai arrivata anche in Europa. A prescindere da cosa succederà a Wall Street, gli stati, gli istituti e le banche del vecchio continente si stanno impegnando per difendersi dalla crisi finanziaria. Nessuno si fida più di nessuno. In primo luogo le banche, che non sono più disposte ad affidare il proprio denaro ad altri istituti. La domanda, quindi, sorge spontanea: come possiamo aspettarci che i cittadini continuino a confidare in questo sistema? L'unica conclusione possibile è che abbiamo davanti un periodo di grave recessione". Timori condivisi anche dal quotidiano brasiliano Folha De São Paulo: "I brasiliani hanno ottimi motivi per preoccuparsi. La borsa di São Paulo è crollata nel giro di pochi giorni e le parole del presidente Lula, che qualche giorno fa ha ammesso che 'la situazione è difficile', non trasmettono certo tranquillità ai cittadini. La sensazione è che siamo entrati nell'anticamera della crisi economica e che a farne le spese, una volta di più, saranno soprattutto i milioni di brasiliani che già vivono in condizioni di povertà". "Il piano Paulson è l'unico mezzo di cui dispongono gli Stati Uniti per risollevarsi, quindi è molto probabile che alla fine venga approvato", scrive il russo Kommersant, che continua: "Il problema è cosa succederà dopo: la crisi ha dimostrato che il sistema economico è corrotto. Prima o poi anche i cittadini ne subiranno le conseguenze". Conclude il francese Le Monde: "L'Europa sta dimostrando tutta la sua fragilità. Se si verificasse da noi una crisi della portata di quella statunitense, la Banca centrale europea non riuscirebbe ad approvare un piano di salvataggio, visto che gli stati hanno interessi molto diversi tra loro".

Fonti: Internazionale, 30 settembre 2008 - Internazionale, 2 ottobre 2008.

venerdì 5 settembre 2008

Un paese sottomesso

L'estate è stata segnata dal disinteresse per la politica. I partiti italiani soffocano la partecipazione. E senza il contributo dei cittadini la democrazia è in crisi, scrive Udo Gümpel [*].

Le chiacchiere sotto l'ombrellone, davanti allo stesso mare e sulla stessa spiaggia, rivelano molte cose sullo stato d'animo di un paese. Sulla spiaggia tutti sono rilassati, i poveri come i ricchi, tutti si mettono pazienti in fila per la doccia. Ecco finalmente un paese pacifico. Mai, negli ultimi vent'anni, avevo sentito parlare così poco di politica sotto l'ombrellone come quest'estate. Nelle conversazioni nessuno fa più cenno ai classici temi del tormentone estivo: gli immigranti clandestini, i nomadi, la crisi. Niente più discussioni. La politica? Lasciamola al governo. Si direbbe che sia questo il nuovo motto del paese. Un'Italia ubbidiente, docile, disciplinata. Come un cane ben addestrato, ha scritto Nadia Urbinati il 20 agosto sulla Repubblica. Non ha tutti i torti: il paese sembra pronto a sottomettersi al padrone, a riconoscere che il dissenso è un crimine sociale, a permettere che le regole del gioco democratico esalino l'ultimo respiro. Cane e padrone camminano su un sentiero che va in direzione opposta rispetto alle altre democrazie, dove si lascia più spazio al dissenso, prima di tutto verso un legittimo governo democratico. La massa dei cittadini di questo paese ha rinunciato spontaneamente ai propri diritti e le minoranze si trovano così esposte a un rischio reale.
Tutto questo è dovuto a una strisciante perdita di fiducia, cominciata anni fa, nella partecipazione democratica e nella libera capacità di contribuire a plasmare la società. Ed è un fenomeno nato all'interno dei partiti. La frequenza delle consultazioni elettorali negli ultimi anni in Italia potrebbe sembrare, in apparenza, un indizio di democrazia. Ma la realtà è diversa. Le elezioni non sono altro che un auditel politico, perché i candidati sono sempre espressione dei clientelismi dei direttivi. A definire il programma sono in pochissimi: per questo chi si sente spettatore preferisce cambiare canale e, quando arriva il momento di infilare la scheda nell'urna, magari ci scrive sopra "Viva Antonio La Trippa!". Il fatto che Silvio Berlusconi nutra una sincera avversione per la democrazia di base non deve stupire. Che poi ci siano ancora dirigenti di An che insistono perché il congresso, in vista della fusione con Forza Italia, venga organizzato con rappresentanti democraticamente eletti, è degno di rispetto. Invece, che il principale partito d'opposizione si basi su regole di democrazia interna che in qualsiasi altro paese lo avrebbero esposto a severe critiche è un problema di cui né i sostenitori del Pd né i cittadini sembrano afferrare l'importanza. Perché con la democrazia succede proprio questo: quando se ne va, all'inizio è difficile accorgersene, come insegna la storia del Novecento.
A questo punto chiedo scusa ai miei lettori italiani, ma devo spiegare cosa sono i congressi elettorali in Germania. Sono quei meeting di partito in cui, nel corso di votazioni a scrutinio segreto, vengono scelti i singoli candidati delle liste elettorali dei partiti (di tutti i partiti). Se mai un partito tedesco trasgredisse questa regola elementare non convocando regolarmente i congressi o consentendo la nomina di centinaia di funzionari per acclamazione, presumibilmente verrebbe sciolto con l'accusa di aver commesso una grave violazione della democrazia interna. Ah, ancora una cosa: anche i bilanci dei partiti devono essere sottoposti a verifica, e quindi essere veri bilanci. Ma tutto ciò interessa ancora all'Italia che sonnecchia sotto l'ombrellone? Ci tiene davvero a essere consultata? Dopo un'estate come questa, comincio seriamente a dubitarne.

* Udo Gümpel è il corrispondente delle reti televisive tedesche N-tv, Wdr e Rbb. Vive a Roma dal 1984. L'articolo è tratto da Internazionale - Primo piano.

mercoledì 20 agosto 2008

Inaccettabile democrazia

"È inaccettabile che in una democrazia un uomo che ha il monopolio dell'informazione televisiva si candidi a guidare il paese per cinque volte di seguito in quattordici anni – ma lo sarebbe anche se fosse una volta sola. Chi ricorda che questo è inaccettabile per una democrazia, passa per persona noiosa, ovvia, che dice cose grossolane. Ma non è grossolano dire queste cose, è grossolana la realtà italiana: da una parte autodistruttività, dall'altra letargo. Però trovo più grave il fatto che in Italia non esista un'opinione pubblica. Sarei e sono con quel governo (dal 1996 al 2001) che aveva una maggioranza solida ma non ha fatto una legge sul conflitto di interessi. In paesi in cui esiste l'opinione pubblica, con giornali indipendenti che la formano, uno condannato per corruzione dalla magistratura in primo, secondo e terzo grado, sarebbe stato punito dall'opinione pubblica. Ma da noi non c'è memoria".

Nanni Moretti a Locarno, il 13 agosto 2008

lunedì 18 agosto 2008

Tunisia: le prospettive politiche per il 2009 e le conferme nel settore economico

Anche se manca ancora un anno e mezzo alle prossime elezioni presidenziali, il contesto politico tunisino mostra già i primi fermenti pre-elettorali. I partiti d'opposizione stanno cominciando a presentare le proprie candidature per offrire una valida alternativa all'attuale dirigenza cercando di dare concretezza ad un multipartitismo che stenta ancora ad affermarsi. Sul piano economico, si prevede la realizzazione di grandi progetti. Per confermare il trend positivo dell'economia degli ultimi anni, Tunisi sta concentrando la propria attenzione, a livello internazionale, sul consolidamento dei rapporti con l'Unione Europea e, su quello nazionale, sulla diversificazione e sull'implementazione del settore energetico, che, tra l'altro, attira numerosi investimenti esteri contribuendo allo sviluppo economico del paese.

I fermenti politici e l'emendamento costituzionale - Pur essendo formalmente una democrazia multipartitica, da più di vent'anni la Tunisia è sotto la guida di un unico partito il cui leader è l'attuale presidente, Zine el-Abidine Ben Alì. Il mandato del Capo di Stato scadrà nel 2009 ma, alla fine dello scorso febbraio, già alcuni esponenti dell'opposizione hanno reso noto che durante la prossima competizione elettorale parteciperanno attivamente per riuscire ad emergere ed offrire un'alternativa. Nejib Chebbi, fondatore del Partito Democratico Progressista (PDP-opposizione radicale), è stato il primo ad annunciare la propria candidatura, anticipando i suoi omologhi ancora impegnati ad organizzare le convention per scegliere i propri candidati alla presidenza, dimostrando ancora una volta come una delle cause della definitiva affermazione del multipartitismo sia da attribuire alla poca organizzazione dei partiti d'opposizione, anche a prescindere dall'influenza del presidente. Per quanto riguarda il partito di maggioranza, il Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD), è in campagna elettorale già dalla fine del 2006, e i suoi membri continuano ad esortare il presidente a presentare la sua quinta candidatura e garantire così continuità politica e di governo al paese. Pur avendo abolito la presidenza a vita, Ben Alì esercita un forte ascendente sulla società tunisina che non ha mai avuto molta familiarità con il sistema pluralista, e forte di ciò non sarebbe una novità se ancora una volta vincesse le elezioni. I plebisciti con cui Ben Alì è riuscito a mantenersi al potere potranno ancora ripetersi durante questa tornata elettorale, anche se adesso l'opposizione sembra voler emergere ed è probabile che la competizione possa farsi più attiva. Nelle prime settimane di marzo il presidente ha annunciato un progetto di emendamento costituzionale che, in teoria, dovrebbe facilitare l'ingresso nella competizione elettorale dei partiti d'opposizione, ma che in realtà ha creato non poche polemiche, soprattutto perchè sembra che questa modifica sia stata creata appositamente per intralciare la candidatura di Chebbi, con cui i rapporti non sono mai stati idilliaci e che ha sempre rappresentato un forte avversario politico del presidente. L'eventuale emendamento alla Costituzione prevederebbe il deposito della candidatura presidenziale solo da parte del “presidente, segretario generale o primo segretario del proprio partito, che deve essere stato eletto per quella funzione e, che al momento della presentazione della candidatura, eserciti la carica da più di due anni consecutivi”. Questo escluderebbe a priori Chebbi che, nel 2006, ha abbandonato la guida del suo gruppo politico a favore di Maya Jribi, e che quindi adesso risulta l'unica legittimata a presentare la propria candidatura. Anche se la modifica della Costituzione consente la partecipazione alle elezioni dei leader degli otto partiti d'opposizione, è stata comunque considerata antidemocratica. Questo non è il primo emendamento costituzionale che viene realizzato ad hoc dal presidente per cercare di mantenersi al potere o neutralizzare i propri rivali.
Non stupisce, dunque, che nonostante Ben Alì possa contare su un gran numero di supporter politici, l'opposizione scateni forti polemiche che mirano a creare dei cambiamenti all'interno della politica tunisina. Questa fino ad ora è stata caratterizzata dalla predominanza di un unico partito di maggioranza che, malgrado abbia dimostrato di saper mantenere una certa stabilità politica, forte della propria posizione, ha guidato il paese in quasi totale autonomia, senza creare un dialogo costruttivo tra maggioranza e opposizione e frenando le potenzialità di un reale pluralismo.

I rapporti con l'Unione Europea - Nell'ultimo ventennio di presidenza Ben Alì, l'economia tunisina ha raggiunto notevoli risultati e importanti livelli di crescita, mantenendo un trend positivo che ha permesso alla Tunisia di giocare un ruolo di spicco tra i paesi del Magreb. Uno degli obiettivi più importanti è stato raggiunto con la conclusione degli accordi con l'Unione Europea e l'entrata ufficiale della Tunisia nella zona di libero scambio dal primo gennaio 2008, dopo circa quarant'anni di cooperazione economica e politica tra le due parti, iniziati per incentivare una politica commerciale tunisina sempre più vicina a quella occidentale. Se da una parte il partenariato con l'Unione Europea ha portato molteplici vantaggi, è anche vero che la Tunisia ha dovuto sostenere notevoli sforzi per uniformarsi alle direttive imposte dall'Unione, la quale ha richiesto il rispetto di determinati parametri che la Tunisia ha dovuto soddisfare per portare a termine il partenariato. La zona di libero scambio era vista con scetticismo da alcuni economisti tunisini, che vi avevano individuato più svantaggi che benefici. Anche se il tempo ha premiato la cooperazione, non è da negare che esista una certa dipendenza dall'Unione Europea.

I programmi di diversificazione energetica - Per quanto riguarda il settore energetico, la Tunisia è un importatore netto di petrolio e gas. La sua produzione è notevolmente inferiore a quelle degli altri Paesi del Magreb (la Tunisia è il 55mo produttore di petrolio al mondo, con 78.000 barili prodotti quotidianamente). Le limitate capacità produttive e i rischi legati all'instabilità del mercato petrolifero, hanno costretto il governo a indirizzarsi verso altri tipi di fonte di energia che possano comunque dare spazio allo sviluppo industriale e allo stesso tempo garantiscano una sicurezza per la popolazione, soprattutto nel momento in cui le riserve petrolifere diventeranno più scarse. Tunisi ha deciso di attuare delle misure preventive e allargare le potenzialità delle numerose risorse energetiche di cui il paese è in grado di disporre. Tra i punti ritenuti fondamentali da concludere entro il 2016 ci sono l'utilizzo del gas naturale al posto del greggio o del GPL nel funzionamento delle centrali elettriche; l'utilizzo delle cosiddette “energie alternative e rinnovabili” e cioè quella eolica, quella solare e, in un secondo momento, quella nucleare; il rafforzamento delle operazione di ricerca e estrazione degli idrocarburi.
La realizzazione di questa politica energetica orientata soprattutto allo sfruttamento delle risorse gasifere presenti in maggiore quantità rispetto al petrolio, ha permesso di garantire un aumento dell'erogazione di elettricità, raggiungendo il 100% nelle zone urbane e il 98% in quelle rurali. Nel corso degli ultimi anni il consumo di gas è aumentato dal 14% al 44%, apportando grossi profitti al settore industriale e privato, favorendone la crescita e garantendo anche disponibilità, sicurezza e lo sviluppo sostenibile. L'utilizzo del gas comunque rappresenta solo una parte del progetto di diversificazione energetica della Tunisia, che come ultimo traguardo, oltre allo sviluppo dell'energia eolica e solare, guarda al nucleare come risorsa cruciale nel lungo periodo.
L'economia tunisina continua a crescere, con ritmi del 5-6%, cou tasso d'inflazione attorno al 4%, rappresentando un esempio nel panorama maghebino. Recentemente, il presidente Ben Ali, conferendo con il premier Mohamed Ghannouchi, ha insistito sul rafforzamento della competitività economica, puntando anche sul rilancio dell'agricoltura e del turismo, investendo sul miglioramento delle infrastrutture, con il fine di migliorare la qualità delle imprese nazionali e ottenenere certificazioni internazionali per quanto concerne le procedure relative al commercio estero.

Conclusioni - I risultati raggiunti nell'economia e il mantenimento della stabilità politica garantiscono al presidente Ben Alì di continuare a godere del supporto popolare. Gli sviluppi politici mostrano il tentativo da parte dell'opposizione di formare un fronte, se non compatto, almeno competitivo e credibile in vista delle prossime elezioni previste per il 2009. L'ultimo emendamento costituzionale proposto dal governo rappresenta una conferma di come l'autorità di cui dispone Ben Ali sia molto forte e, allo stesso tempo, mostra come in Tunisia lo sviluppo democratico in senso pluralistico sia ancora in fase di affermazione. La crescita industriale e i progetti di diversificazione economica, nonché il rafforzamento della partnership con l'Unione Europea rappresentano gli elementi forti su cui Ben Ali e il suo partito, il Raggruppamento Costituzionale Democratico, potranno basare la prossima campagna elettorale in vista del mantenimento del potere.

martedì 12 agosto 2008

lunedì 11 agosto 2008

L'incostituzionalità annunciata

Dopo la vicenda della cosiddetta «legge antiprecari», ossia dell'art. 21 D.l. 112/2008 sui contratti a termine, nessuno può farsi illusioni sulla volontà del governo e della Confindustria, le cui vere intenzioni sono, manifestamente, quelle di privare i lavoratori delle tutele legali e contrattuali conquistate nell'arco di quasi cento anni, ed anzitutto di una decorosa stabilità del posto di lavoro, così da ridurli ad uno stuolo di precari, esposti ad ogni ricatto, come era agli albori del movimento sindacale. Per convincersi che non si tratta di affermazioni retoriche o sbagliate basta dare un'occhiata ai provvedimenti in preparazione per l'autunno, e di cui diremo in una prossima occasione, e riflettere, ora, per un attimo, sul «colpo grosso» che governo e padronato hanno sfiorato con l'art. 21 del decreto legge sui contratti a termine, che avrebbe loro consentito, seppure per una via diversa dall'attacco frontale all'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, di privare i lavoratori italiani, in breve progresso di tempo, di ogni tutela di stabilità del posto di lavoro.

L'occasione fa il ladro - L'emendamento introdotto in sede di conversione dell'art. 21 del D.l. 112/2008 mirava, infatti a sancire che mai un contratto a termine illegittimo avrebbe potuto trasformarsi in contratto a tempo indeterminato, perché da ora in poi la illegittimità sarebbe stata sanzionata solo con un minirisarcimento monetario (tra 2,5 e 6 mensilità di retribuzione). Gravissima era anche l'ipocrisia della norma che si voleva introdurre, che non toccava formalmente i casi di illegittimità dei contratti a termine, ma eliminava o quasi, la sanzione: come dire che il furto resta un reato - per carità - ma che da oggi è punito solo con una multa di 50 euro! Il che farebbe diventare ladri anche quelli che in vita loro non si sono mai impossessati neanche di una mela. I datori di lavoro, insomma, con questa novità legislativa avrebbero assunto sempre e soltanto a termine, senza guardare tanto per il sottile, perché, alla peggio, ogni contestazione si sarebbe risolta con quattro soldi, ed anzi il lavoratore non l'avrebbe neanche cominciata, per non mettersi, «in cattiva luce» senza poter sperare in risultati concreti. Con molte peripezie, che non è qui il caso di ripercorrere, questo disastro è stato evitato, il governo Berlusconi ha patito la prima vera sconfitta, e la norma anti-precari sulla non-trasformazione dei contratti a termine illegittimi è rimasta soltanto per i giudizi in corso, che però, sono anche quelli di appello e cassazione, sicché i lavoratori che hanno già vinto in primo grado e sono stati inseriti in servizio, rischiano addirittura di essere espulsi dal posto di lavoro.

L'esempio di Poste Italiane - Tutti hanno percepito il sentore o piuttosto puzzo di incostituzionalità, per violazione del principio di eguaglianza, che emana da questa norma discriminatoria, ma per prepararsi adeguatamente a sollevare la questione di costituzionalità e sostenerla poi avanti alla Corte ci sembra opportuno ricordare che la sentenza della Corte Costituzionale del 13 ottobre 2000 n. 416 ha già affrontato una situazione molto simile. Si trattava, allora, di una norma di legge (art. 9 comma 21 D.Lgs. n. 510/1996 che vietava la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti a termine illegittimi stipulati dalle Poste Italiane prima del 30 giugno 1997. La Corte Costituzionale, seppur a malincuore, salvò la costituzionalità di questa norma, ma con argomenti che, visti «a specchio», comportano, invece, la sicura incostituzionalità dell'art. 21 D.L. 112/2008. Ritenne, allora, la Corte che l'art. 9 del D.Lgs. 510/1996 non violasse il principio di uguaglianza perché la disparità di trattamento, non era «irragionevole» in quanto si era, al tempo, ancora in una fase di passaggio, nelle Poste tra pubblico impiego ed impiego privato, ed è noto che nell'impiego pubblico i contratti a tempo illegittimi non si trasformano a tempo indeterminato, ma ciò per un motivo comprensibile e cioè per rispetto al principio costituzionale per cui, nel settore pubblico, le assunzioni devono avvenire per concorso. Da allora, però, sono passati più di dieci anni, le Poste sono da un pezzo una società per azioni, e, dunque, non vi è più nessuna giustificazione «transitoria» alla disparità di trattamento: ergo la Corte, proprio per essere fedele a se stessa deve ora pronunziare l'incostituzionalità tanto più che «beneficiari» dell'art. 21 sono tutti i datori di lavoro privati, imprese confindustriali in testa e non solo le Poste Italiane.

Un'altra discriminante - Ancora, in quella sentenza n. 416/2000 la Corte ritenne che non fossero violate le prerogative del potere giudiziario (artt. 102, 103, 104 Cost.) perché la norma non incideva sui processi in corso, in quanto tali, ma prevedeva, per le ragioni «transitorie» sopra ricordate, una sottospecie di contratti a termine con regime analogo a quello del lavoro pubblico, pur trattandosi, ormai, di rapporto di lavoro privato. Tutti coloro che avevano stipulato quei contratti prima del 30 giugno 1997 erano soggetti alla stessa regola sostanziale, seppur negativa, indipendentemente da quando avessero iniziato il processo. Con l'art. 21 D.l. 112/2008 la differenza, invece, la fa proprio l'avere o no in corso un processo alla data di entrata in vigore della legge, dimodoché, in presenza di medesimi vizi del contratto a termine, alcuni processi devono concludersi in un modo ed altri in un altro, rispettivamente senza o con reintegro nel posto di lavoro.
La discriminante, dunque, è l'essersi già rivolti alla giustizia e non la situazione sostanziale riguardante il contratto di lavoro. Anche qui, dunque, leggendo «in trasparenza» la sentenza della Corte Costituzionale n. 416/2000, ci si rende conto che la «morte», o abrogazione dell'art. 21 D.l. 112/2008 per incostituzionalità è già annunziata. Spetta, però, a noi tutti, nei nostri diversi ruoli, far sì che ciò avvenga quanto prima.

Piergiovanni Alleva, Il Manifesto, 8 agosto 2008

giovedì 31 luglio 2008

sabato 26 luglio 2008

Il boia alla sbarra

Il quotidiano di Belgrado Danas commenta l'arresto di Radovan Karadzic. E si augura, per il bene della Serbia, che presto sia catturato anche il generale Ratko Mladic.

Radovan Karadzic, accusato della morte e delle sofferenze di migliaia di persone, non è ormai più un pericolo per nessuno. Nonostante da anni i governi che si sono succeduti continuassero a giurare che non fosse in Serbia, è stato arrestato lunedì sera a Belgrado. Solo dopo la notizia dell'arresto è diventato chiaro perché quel giorno il governo avesse tenuto una riunione straordinaria e la seduta parlamentare in corso fosse stata sospesa d'urgenza e rinviata di due settimane. I radicali e i democratici di Vojislav Kostunica loro alleati non avevano il minimo il sentore dell'arresto fino a quando non ne è stata data notizia. Si tratta di un particolare positivo, perché dimostra che hanno perso ogni collegamento con le strutture della polizia e dei servizi segreti. E questo spiega la reazione al limite del panico del leader dei radicali, Aleksandar Vucic.
Secondo fonti del nostro giornale, le autorità sarebbero sulle tracce anche di un altro criminale ricercato dal Tribunale dell'Aia, Ratko Mladic. La Serbia ha fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi paese serio: ha privato della libertà, in conformità alla legge, una persona di eccezionale pericolosità. Chi in tutti questi anni ha coperto l'ex presidente dell'autoproclamata Republika Srpska, quali personaggi influenti della Serbia lo abbiano aiutato a sfuggire alle proprie responsabilità e alle accuse rivoltegli, sono altre domande ai quali il governo dovrà rispondere. Per ora la cosa più importante è che lo stato abbia agito in modo coraggioso e deciso, come deve agire uno stato che rispetta i propri cittadini e applica la legge, indipendentemente dal fatto che si tratti di un ladro, di un narcotrafficante o del responsabile di eccidi.
Molti dubitavano dell'attuale coalizione di governo e del suo orientamento filoeuropeo, ritenendo che le dichiarazioni dei socialisti riguardo alla necessità di collaborare con il Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia dell'Aja fossero frasi vuote. Per fortuna si sono sbagliati. Naturalmente nei prossimi giorni la coalizione sarà esposta a pressioni di ogni tipo, provenienti dall'interno e dall'esterno. Le forze che sono state sconfitte alle elezioni non rimarranno zitte e ciò inquieta, perché è ancora fresca la memoria dei disordini che hanno causato a Belgrado nello scorso febbraio. Il nuovo governo ha la responsabilità di adottare misure per garantire la sicurezza dei cittadini e la stabilità del paese. Con l'arresto di Karadzic lo stato ha dimostrato che Belgrado non è più un rifugio sicuro per i ricercati dal Tribunale dell'Aja. Ora deve venire il turno di Ratko Mladic e di Goran Hadzic. Fino a quando saranno liberi, nessuno in questo paese avrà il diritto di dormire tranquillo.

tratto da Internazionale, Primo Piano

APPROFONDIMENTI:

venerdì 18 luglio 2008

Immunodelinquenza acquisita

Mentre Robin Tremood paventa «un nuovo 1929», Al Tappone teme un nuovo 1992. Gli son bastate tre paroline - socialista, tangenti, manette - per ripiombarlo nel più cupo sconforto. Tant’è che ha ricominciato a delirare di «riforma della giustizia», cioè del ritorno all’immunità parlamentare. Intanto l’apposito Angelino Jolie gli ha regalato il patteggiamento gratis, con una norma del pacchetto sicurezza che consente agli imputati di patteggiare anche durante il dibattimento, anche un minuto prima della sentenza. Così lo Stato non ci guadagna nulla, anzi perde tempo e denaro a fare i processi, e alla fine il delinquente incassa lo sconto di un terzo della pena e cumularlo col bonus di 3 anni dell’indulto, se ha avuto l’accortezza di delinquere prima del maggio 2006. Come per esempio, se sarà ritenuto colpevole, il fido avvocato Mills. Se fosse italiano, sarebbe già deputato. Essendo inglese, deve accontentarsi del patteggiamento omaggio: potrà comodamente concordare una pena simbolica, evitare il carcere e soprattutto una sentenza motivata che spieghi chi gli ha dato i soldi (quello che lui, nella famosa lettera, chiama «Mr.B.», e s’è appena messo al sicuro col lodo Alfano). Questo indulto-bis, che eviterà la galera ai condannati fino a 9 anni, sempre all’insegna della sicurezza, è stato denunciato da Di Pietro, mentre qualche buontempone del Pd parlava addirittura di dire qualche sì. È il caso del sagace Pierluigi Mantini, che all’indomani dell’arresto di Del Turco s’è precipitato a rendergli visita nel carcere di Sulmona a braccetto col senatore Pera. I due apostoli del garantismo sono specializzati nel precetto evangelico «visitare i carcerati», ma solo se c’è dentro qualche membro della Casta. Mai che gli scappi, per dire, una visitina a un tossico. Del Turco è in isolamento per tre giorni, dunque non può ricevere parenti né avvocati. Ma, pover’uomo, gli tocca sorbirsi Mantini e poi Pera. I quali, per aggirare l’isolamento, si sono inventati su due piedi un’«ispezione al carcere di Sulmona»: irrefrenabile esigenza nata, guardacaso, proprio con l’arresto del governatore. «La presenza del presidente Del Turco ­ ha spiegato Mantini, restando serio ­ è stata un motivo in più per procedere all’ ispezione di un carcere che tengo particolarmente monitorato». Ma certo, come no. En passant, dopo aver ragguagliato la Nazione sulla colazione del governatore, l’onorevole margherito domanda «se vi siano concreti pericoli di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato». Ottima domanda, se non fosse che non spetta ai deputati rispondere, ma al gip (che ha già risposto di sì), poi al Riesame e alla Cassazione. Altri, come Il Giornale e l’acuto Capezzone, inorridiscono perché Del Turco «è trattato come un boss mafioso». Ma la legge prevede l’isolamento non solo per i boss, bensì per chiunque possa, comunicando con l’esterno, influenzare i testimoni (e Del Turco aveva già tentato di inquinare le prove contattando addirittura il Procuratore generale d’Abruzzo). Con buona pace di Bobo Craxi, per il quale «la custodia cautelare e l’isolamento sono misure erogate ai criminali, non agli eletti dal popolo». Ma l’una cosa non esclude l’altra, come dovrebbe sapere. Quello con le mèches del Giornale racconta che nel ‘93 finì in carcere l’intera giunta abruzzese, dopodiché furono «tutti assolti con formula piena». Storie: ci volle la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio non patrimoniale per salvare gli assessori, mentre il presidente Rocco Salini fu condannato in Cassazione per falso (s’erano dimenticati di depenalizzare anche quello), dunque promosso deputato da FI, prima di andare ad arricchire la collezione di Mastella. Pure Al Tappone millanta un’assoluzione mai avvenuta: la sua a Tempio Pausania dall’accusa di abusivismo edilizio a villa La Certosa. Forse non sa che in quel processo non era imputato lui, ma il suo amministratore Giuseppe Spinelli; e che il processo è finito nel nulla non perché si fondasse su un «teorema», ma grazie a vari condoni, almeno uno varato dal suo governo. Resta da capire perché, con tutti i processi che ha, ne inventi di inesistenti. Forse sono i suoi avvocati che abbondano un po’ sul numero, e sulle parcelle: «Eh, Cavaliere, ci sarebbe poi quel processo a Vipiteno per furto di bestiame, una storia bruttina, ma pagando il giusto sistemiamo tutto noi…». O forse i processi se li aggiunge lui, per fare bella figura.

venerdì 11 luglio 2008

Quale alternativa al dollaro?


La crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti ha rappresentato la miccia che ha acceso il fuoco della destabilizzazione, a lungo sopito sotto la cenere di squilibri negli scambi internazionali e nei tassi di cambio. La miscela esplosiva era composta da mutui erogati a debitori ad alto rischio, da bassi tassi di interesse iniziali (ma poi indicizzati), dal collaterale uso spregiudicato dela cosiddetta ‘finanza creativa’ (in particolare, cartolarizzazioni e derivati) e da una colpevole carenza di controlli istituzionali. I successivi aumenti dei tassi di interesse ufficiali (quintuplicati in pochi mesi tra il 2006 e il 2007) decisi dalla Fed per tenere sotto controllo l’inflazione hanno reso insolventi i mutuatari marginali a fronte di rate maggiorate. Le conseguenze sono rimbalzate su banche, intermediari specializzati, mercati finanziari internazionali, nonché sul mercato immobiliare interno agli Stati Uniti.
La concatenazione degli effetti di questa crisi, rapidamente propagatasi a livello internazionale, ha rivelato la potenziale vulnerabilità e i rischi di contagio del sistema finanziario globalizzato. E’ necessario, pertanto, adattare il sistema monetario internazionale alla maggiore complessità dell’economia mondiale, che non può più contare sulla stabilità del dollaro come principale moneta di scambio e di riserva. Nel giro di poco tempo, gli Stati Uniti da paese creditore del resto del mondo sono diventati il maggior debitore, e i nuovi paesi emergenti – Cina e India in testa – hanno attualmente preso il loro posto. Troppo a lungo i tassi di cambio sono rimasti invariati, a causa della convenienza dei creditori a non rivalutare le proprie monete e, contemporaneamente, degli Usa a non svalutare il dollaro. E’ evidente che ogni shock - come appunto quello dei mutui subprime - provoca una grave crisi di fiducia, con forti vendite di attività finanziarie denominate in dollari sui mercati internazionali e conseguente svalutazione della divisa americana.
Il dilemma principale sta nel fatto che nell’attuale fase storica non c’è una moneta internazionale alternativa al dollaro. Non lo è ancora l’euro, che sconta la perdurante incompiutezza dell’integrazione finanziaria europea e che non può contare sull’unico centro finanziario alternativo a Wall Street, visto che Londra si tiene ancora fuori dalla cosiddetta ‘eurolandia’. Benché indebolito, dunque, il dollaro continua ad essere indispensabile, e tutti avrebbero da perdere da un suo perdurante tracollo. Le conseguenze che si temono potrebbero essere devastanti: forte innalzamento dei tassi di interesse, recessione mondiale, tentazioni protezionistiche, destabilizzazione dell’ordine economico e politico mondiale.
Gli strumenti ordinari delle banche centrali non sono però sufficienti a contenere questi rischi di fragilità intrinseca del sistema monetario internazionale. Gli interventi della Fed e della Bce per fronteggiare la crisi subprime con drastiche immissioni di liquidità e – per ora solo da parte della Fed – con affrettate riduzioni dei tassi ufficiali sono stati tardivi, poco efficaci e rischiano di essere controproducenti nel lungo periodo a causa del rilancio dell’inflazione. La crisi è strutturale e va gestita con interventi di adattamento alla mutata realtà di un’economia mondiale sempre più policentrica. Le banche centrali più rappresentative dovrebbero assumersi la responsabilità di cooperare seriamente con l’obiettivo comune di una svalutazione graduale del dollaro non solo nei confronti dell’euro, ma soprattutto verso le monete delle economie emergenti dell’Asia, in particolare quela cinese. La soluzione più fattibile – l’unica forse con effetti più immediati e progressivi – è probabilmente quella di adottare un sistema di compensazione sovranazionale di debiti e crediti tra la Fed, la Bce e – almeno – la banca centrale cinese. L’idea di fondo è la stessa del piano proposto a suo tempo da Keynes, ma che fu bocciato alla Conferenza di Bretton Woods nel 1944 a causa della forza del dollaro. Alla Conferenza vennero presentati, infatti, due progetti: quello di Harry Dexter White, delegato USA, e quello appunto di Keynes, delegato inglese, ma venne approvato il piano White. Il progetto di Keynes prevedeva la costituzione di una stanza di compensazione all'interno della quale i paesi membri avrebbero partecipato con quote rapportate al volume del loro commercio internazionale, in base alla media dell'ultimo triennio. La compensazione tra debiti e crediti avveniva tramite una moneta denominata Bancor. Dal piano White venne creato il Fondo Monetario Internazionale, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo mentre il dollaro venne praticamente accettato come valuta di riferimento per gli scambi. La debolezza attuale della divisa a stelle&strisce apre la strada – più di 60 anni dopo – a riconsiderare soluzioni e alternative più avanzate e adatte alla maggiore complessità del sistema economico del mondo globalizzato. Meglio tardi che mai.

APPROFONDIMENTI:

- Lo tsunami finanziario (F. William Engdahl, Globalresearch, traduzione di comedonchisciotte):
I) Il debito ipotecario subprime;
II) Le fondamenta finanziarie del 'secolo americano';
III) Il grande progetto di Greenspan;
IV) La cartolarizzazione: l'ultimo tango;
V) Atto speculativo: la crisi del sistema finanziario mondiale.

[comedochisciotte]:
- L'economia keynesiana oggi (1977);
- Credibilità del sistema;
- Le transazioni finanziarie internazionali sotto il controllo americano;
- Economia di rischio;
- Perché il dollaro vale così poco.

[altrenotizie]:
- Mutui subprime: scattano le manette;
- Crisi dei mutui: quello che le banche non dicono;
- Crisi delle borse? E' il liberismo, bellezza;
- Mutui: una crisi inevitabile?.

lunedì 7 luglio 2008

Finalmente libera!

La liberazione della Betancourt – moralmente cambiata dopo 6 anni di prigionia - si è rivelata un successo strategico e politico. La popolarità del presidente Uribe è ora alle stelle, superata solo da quella della stessa Betancourt, ma sarà importante vedere che tipo di compromesso raggiungeranno. Chavez e le Farc sono i grandi sconfitti di un evento che segnerà inevitabilmente una svolta nella tumultuosa storia della Colombia.


LA NUOVA INGRID E IL FUTURO DELLA COLOMBIA - Prima del suo ritorno alla libertà,
Ingrid Betancourt era una politica decisamente agguerrita. Dimostrando sempre un grande coraggio, non ha mai esitato a scagliarsi contro l’establishment politico. Non risparmiava nessuno ed era ossessivamente contestatrice, moralista, rigorosa e molto critica. Ma per quanto le sue denunce fossero giuste, le sue posizioni a volte estremistiche danneggiavano la sua credibilità: era una radicale, e per questo ha sempre suscitato un fascino speciale. Probabilmente le sue idee innovatrici in politica erano dovute alla formazione progressista, privilegio di pochi in Colombia. Nelle sue campagne elettorali ricorreva a gesti originali e provocatori (come distribuire preservativi per strada) o a proteste di una certa visibilità, come lo sciopero della fame che fece in Parlamento, uscendone dopo molti giorni in barella e disidratata davanti alle telecamere. Clamoroso fu il suo movimentato intervento al congresso del Partito Liberale del 1997, a metà della presidenza di Ernesto Samper, quando accusò il partito di complicità con l’assassinio di Luis Carlos Galan, il candidato alla massima carica ucciso nel 1989. In quell’occasione fu costretta a scendere dal podio a causa delle grida e degli insulti della platea: era talmente radicale da essere emarginata dal cuore stesso della politica colombiana.
La nuova Ingrid non ha mostrato rabbia, è apparsa dolce e conciliante, senza un briciolo di amarezza. Con la sua dignità è riuscita ad ottenere ciò che nessun rivoluzionario ha ottenuto con le armi nella
violenta storia della Colombia: ha conquistato il cuore e la mente del popolo. Se la ricomparsa della Betancourt ha commosso il paese (e il mondo), il suo parlare l’ha semplicemente soggiogato. Dopo 6 anni di prigionia, l’umiliazione e le malattie, è tornata trasformata in una donna universale, con la grande forza morale tipica di chi ha la consapevolezza del destino del paese. Ora la sua lotta continua. Le sue dichiarazioni sono apparse subito un vero e proprio manifesto politico, in cui sono stati toccati tutti i temi: guerra e pace, stato, rielezione, sequestro e trattative politiche. La sua popolarità è alle stelle. Di fronte al fenomeno politico in cui si è trasformata subito dopo la sua liberazione, la domanda che tutti oggi si fanno in Colombia è: sarà il prossimo presidente?

LA VITTORIA DI URIBE, LA SCONFITTA DI CHAVEZ – A parte il giallo sulla liberazione, il vero vincitore - colui che trae da questa vicenda il vantaggio maggiore - è sicuramente il presidente colombiano Alvaro Uribe. Per
El Tiempo (nato nel 1911, è uno dei principali quotidiani colombiani e dei più illustri di tutta la stampa latinoamericana. Di orientamento liberale, vende circa 300mila copie) Uribe si è comportato come uno stratega e ha “dimostrato ancora una volta di non avere paura di agire. Solo un vero leader è capace di assumersi dei rischi, e il presidente Uribe l’ha fatto in un brutto periodo: la perdita anche di un solo ostaggio avrebbe potuto inasprire le conseguenze politiche del suo scontro con la Corte Suprema. In piena crisi istituzionale ha sfidato i familiari dei sequestrati, che si opponevano ad un’operazione militare; l’opposizione politica, che gli avrebbe fatto pagare caro un errore; il presidente francese Nicolas Sarkozy, che in nome di chissà quale autorità gli aveva proibito l’uso della forza; e al presidente venezuelano Hugo Chavez, che aveva vincolato il futuro dei rapporti tra i due paesi a una sua mediazione nelle trattative per la liberazione. La scommessa ha dato i suoi frutti e Uribe ha dimostrato che è possibile liberare ostaggi, ha ridato fiducia ai colombiani e ha messo in luce la professionalità dell’esercito. Ha dimostrato di avere coraggio in tempo di guerra: è arrivato il momento di avere coraggio in tempo di pace”.
Sulla stessa linea anche il quotidiano venezuelano
El Universal (il principale quotidiano venezuelano - serio e indipendente - fondato nel 1909 dal poeta Andrés Mata e acquistato dai suoi eredi nel 1992) secondo il quale “Se le Farc hanno subito un altro grave colpo si deve soprattutto alla tenacia, al valore e all’intelligenza con cui Uribe ha gestito la situazione. Non ha ascoltato chi gli chiedeva di riconoscere le Farc né le proteste ecuadoriane per le presunte violazioni della sovranità territoriale. Non ha ceduto e oggi è un eroe davanti al mondo”. Ancora più duro El Mundo (quotidiano venezuelano che esce il pomeriggio, nato nel 1958 con una linea editoriale di sinistra, difende i valori della democrazia seguendo lo slogan ‘meglio una libertà pericolosa che una schiavitù tranquilla’. Oggi è più moderato, ma resta comunque critico nei confronti del governo) che intravede la fine delle Farc e sollecita Chavez a meditare e imparare dai suoi errori: “Il suo fiuto politico dovrebbe dirgli perché il suo comportamento e la sua tattica si sono rivelati sbagliati. I suoi seguaci più spudorati hanno già cominciato a cercare di screditare la Betancourt. Se Chavez continua in questa direzione commette un errore grossolano. Ha chiesto alle Farc di liberare gli ostaggi, ha annunciato un incontro con Uribe, ha detto che la rivoluzione va vinta con i voti e non con i fucili. Speriamo non sia solo una tattica, ma un cambio di strategia. Altrimenti sarà la fine anche di Chavez”.

LA FINE DELLE FARC? –
La liberazione della Betancourt (insieme a 7 militari, 4 poliziotti e 3 cittadini statunitensi), al di là del giallo sul riscatto o delle molte verità raccontabili, è, dunque, un avvenimento destinato ad avere un’enorme ripercussione sulla vita politica del paese. Le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) hanno ricevuto un durissimo colpo che si somma a una serie di sconfitte cominciate nel 2003, ma dispongono ancora di una struttura solida, di un’efficiente unità di comando e di migliaia di uomini che godono del sostegno incondizionato della popolazione rurale (e quindi più povera), in un paese in cui non c’è mai stata una vera riforma agraria. Davanti alle Farc si aprono ora diverse strade: un disperato inasprimento della via militare, la ricerca di una alternativa politica realistica e urgente alla lotta armata, la frammentazione in gruppi comandati da caudillos senza una vera ideologia che faccia da collante, e aperti a qualsiasi genere di alleanza di convenienza con formazioni paramilitari o narcotrafficanti. Scegliere una alternativa diversa da quella politica causerebbe inevitabilmente gravi sofferenze alla popolazione, metterebbe ancor più in pericolo gli ostaggi che ancora si trovano nella foresta e inasprirebbe una guerra civile che è già latente, oltre a giustificare la militarizzazione e il consolidamento di una sorta di ‘autoritarismo carismatico’, plasmato – almeno per il momento - sulla figura di Uribe.
Sempre El Tiempo effettua una mirabile analisi, indicando che “lo scenario peggiore è quello della frammentazione delle Farc in piccole bande criminali e anarchiche. Per questo bisogna fare una proposta di pace generosa, almeno finché i rivoluzionari hanno almeno una parvenza di strutture di comando e di disciplina. Non basta offrire una pace che si limiti al disarmo, né è sufficiente ripetere fino alla nausea che il governo è disposto al dialogo. Negli ultimi tempi è emerso sempre più chiaramente che non resta niente della cosiddetta ala politica delle Farc. Se esiste ancora è il momento che faccia un passo avanti e che si tenti di mediare con essa. E’ inconcepibile che una guerriglia che si autodefinisce rivoluzionaria non presenti nessuna proposta politica rilevante da anni. Se le Farc non sfrutteranno quest’opportunità per costruire insieme un paese migliore, si lasceranno alle spalle solo una lunga strada insanguinata che dura da più di 40 anni”. Anche secondo un altro quotidiano venezuelano,
TalCual, è evidente che le Farc si stanno disintegrando. “L’abisso morale di una narcoguerriglia che viola i diritti umani è uno dei migliori alleati della politica di ‘sicurezza democratica’ portata avanti dal presidente colombiano Alvaro Uribe. La politica dei sequestri ha, insomma, messo in luce le loro carenze morali”.

LA DIMENSIONE POLITICA DELLA BETANCOURT - Oggi la dimensione politica della Betancourt ha di fronte tre sfide. La prima, di carattere politico-elettorale, registra la sua enorme popolarità, ma non equivale certo ad una autostrada dritta verso la presidenza. Una cosa è la popolarità nata dall'orgia massmediatica del momento, un'altra cosa è conquistare i voti necessari nel durissimo braccio di ferro elettorale del 2010. Se nel paese l'appoggio a Uribe resta forte come oggi, la Betancourt non avrà sufficiente benzina per andare lontano; se invece la Colombia seguirà la svolta a sinistra in atto nel continente - puntando soprattutto sulla riconciliazione e sulle questioni sociali - è certo che la protagonista della nuova stagione sarà lei. La seconda sfida si estende, invece, al di fuori del paese e concerne i rapporti con l'estero, in particolare con gli altri stati dell'America latina. Ingrid potrebbe trovare buoni interlocutori in Cristina Kirchner, Lula e Alan Garcia (rispettivamente presidenti di Argentina, Brasile e Perù), ma non dubita sulla necessità di coinvolgere nell'ambito di una cooperazione più vasta Chavez e l'equadoriano Rafael Correa. Infine,
la pace in Colombia – quella che sarà probabilmente la sua bandiera oltre che la sua sfida più grande. La Betancourt ha diversi argomenti interessanti per convincere l’opinione pubblica a seguirla in uno scenario che oggi appare difficilmente immaginabile: negoziare una volta per tutte con le Farc. Per parlare di pace e riconciliazione nessuno è in una posizione migliore della sua. E’ già un simbolo universale dell’orrore dei sequestri perché è stata vittima della guerriglia, è riconosciuta in ambito nazionale ed internazionale, gode di fortissima credibilità all’interno dello stato, delle sue istituzioni politiche e delle forze armate.
Nonostante ciò – euforia della liberazione a parte – il cammino di Ingrid e della Colombia è ancora lungo, incerto e difficile. Lungo, perché la realtà del paese cambia molto velocemente, e con essa anche l’orientamento dei colombiani; incerto, perché Uribe non ha ancora deciso se ripresentarsi alle prossime elezioni, e questo cambierebbe totalmente le carte in tavola; difficile, perché dietro a quello che è divantato un simbolo che ha commosso il paese si nasconde pur sempre una donna che deve affrontare le inevitabili sofferenze di una prigionia lunga 6 anni. Senza contare gli ostacoli confezionati ad arte dall’interno e dall’esterno che dovrà superare…

FONTE PRINCIPALE: Internazionale n. 753

APPROFONDIMENTI:
Dossier liberazione Betancourt - limesonline
Bentornata Ingrid - altrenotizie
La sesta vita di Ingrid Betancourt - comedonchisciotte
Colombia_Scheda Conflitto - peacereporter

IN LIBRERIA (libri sulla Colombia consigliati da Internazionale acquistabili online da Ibs Italia):
• Alfio Neri,
Società e crisi politica nella Colombia contemporanea, L'Harmattan Italia, 2004 [25,50 euro];
• Guido Piccoli,
Colombia, il paese dell'eccesso. Droga e privatizzazione della guerra civile, Feltrinelli 2003 [12,00 euro];
• Guido Piccoli,
Colombiani. Storie da un paese sotto sequestro, Internazionale, 2000 [5,16 euro].

sabato 5 luglio 2008

La pesante eredità di Suharto

Il decennale dell'abdicazione di Suharto è praticamente passato inosservato in Italia. Nonostante il tempo e gli sforzi, l'Indonesia resta un paese povero, privo di un vero sviluppo e deficitario quanto a democrazia. Lo spirito di Suharto aleggia, insomma, ancora incontrastato.


Sono passati 10 anni da quando il presidente dell’Indonesia Suharto pronunciava la famosa frase “I quit”, me ne vado. Dopo 32 anni di potere assoluto era come assistere alla caduta di una divinità. Correva il giorno 21 maggio 1998, ma il decennale è passato decisamente inosservato: dopo questi anni di ‘transazione democratica’, del resto, nessuno in Indonesia è probabile che voglia fare bilanci, in particolare rispetto al passato regime. Fa eccezione Tempo - uno dei settimanali più venduti nel paese – che ha rivisitato la storia recente indonesiana analizzandola dal punto di vista economico: “Elezioni più democratiche, autonomia delle province, volti nuovi nella politica sono stati certamente conseguenze positive del cambiamento. L'economia del paese, grazia alla novità del libero mercato, si è ripresa rapidamente. Ma a muovere le fila del mercato nazionale sono sempre gli stessi attori di un tempo. La deregolamentazione e gli aiuti statali hanno permesso a chi già dominava il mercato prima della crisi di mantenere il controllo sul proprio giro di affari, con più facilità di investimento. A quanto pare l'unico ad aver perso denaro è lo stato, che nel febbraio 2004, alla chiusura dell'Agenzia per la ristrutturazione delle banche Indonesiane (Ibra), lamentava una perdita di 600 miliardi di rupie (circa 42 milioni di euro). I ricchi di un tempo in quattro anni si erano ripresi dalla crisi, sfruttando le nuove leggi che eliminavano alcuni monopoli e aprivano il mercato alla libera concorrenza” [13 maggio 2008].
L’ex presidente è morto lo scorso gennaio nel suo letto senza mai essere processato né per le malversazioni e i casi di corruzione di cui era stato imputato, né tantomeno per la violenta repressione che ha caratterizzato il suo regime – su cui pure la Commissione nazionale per i diritti umani aveva avviato alcune inchieste, nessuna arrivata a conclusione. Eppure, la lotta alla corruzione in Indonesia sembra infinita, malgrado gli sforzi compiuti negli ultimi anni dal governo di Jakarta. L'episodio più recente ha coinvolto l'ufficio della procura generale (Ago), in particolare la sezione crimini speciali, che indaga su casi di corruzione particolarmente gravi. Tutto è cominciato il 2 marzo con l'arresto di Urip Tri Gunawan, capo di una squadra investigativa che in passato si è occupata dell'attentato di Bali. L'uomo, trovato in possesso di 660mila dollari di origine sospetta, è stato fermato nella capitale dagli ufficiali della commissione anticorruzione (Kpk). Secondo il settimanale Tempo, il caso ha spinto le autorità ad avviare altre indagini all'interno dell'Ago e nelle ultime settimane sono stati sospesi diversi funzionari dell'ufficio, tra cui il viceprocuratore generale e il direttore del reparto investigativo. Questa doppia rimozione è stata un duro colpo alla credibilità della sezione. Come spiega al settimanale il procuratore generale, Hendarman Supandji, "la nostra priorità, ora, è sostituire queste persone e selezionare con più cura chi ne prenderà il posto. Dopo queste vicende dobbiamo riuscire a migliorare l'immagine della procura agli occhi dei cittadini indonesiani" [25 marzo 2008]. Intanto, per la prima volta in Indonesia è stato quantificato il patrimonio della famiglia Suharto: 14mila miliardi di rupie indonesiane (poco più di un miliardo di euro), cifra rivelata nel corso della causa di divorzio del terzo figlio di Suharto, Bambang Trihatmodjo. La moglie di Bambang ha presentato al giudice un elenco delle proprietà di famiglia chiedendone la confisca. Secondo la lista, le ricchezze dei Suharto si estendono ormai a tutti i settori dell'economia indonesiana: un'emittente televisiva, una società telefonica, un'industria automobilistica, alberghi, intere isole e terreni per oltre mille ettari, mentre alcuni attribuiscono all'ex dittatore anche nove miliardi di dollari trasferiti su conti correnti esteri ai tempi del regime. Ma i danni non finiscono qui.
Per trasformare un paese povero, rurale e molto popoloso in una ‘tigre’ asiatica, durante la sua lunga dittatura il ‘padre dello sviluppo’ (come si faceva chiamare) ha applicato minuziosamente le ricette del libero mercato, spinto a questo anche dalle amministrazioni di Washington, salvo farle funzionare solo per la sua famiglia e i suoi clientes. A pagarne il prezzo sono state le foreste, le risorse naturali e le popolazioni rurali e indigene del paese. Lo sviluppo è cominciato con le grandi concessioni minerarie – per esempio quella del 1965, e ancora attuale, alla Freeport McMoran che ottenne i diritti esclusivi sulla più grande miniera a cielo aperto di rame e oro a Papua occidentale – da cui le multinazionali hanno tratto miliardi di dollari di profitto, mentre solo una piccola percentuale è andata in royalties allo stato indonesiano. Di più: le attività di estrazione hanno inquinato la zona in modo irrecuperabile e l’interesse economico correlato alle miniere ha contribuito alla repressione delle popolazioni locali, anche finanziando l’esercito. Dopo le miniere, le foreste: tra il 1965 e il 1997, l’Indonesia ha perso tra 40 e 50 milioni di ettari di foresta tropicale, a causa di un misto tra sfruttamento selvaggio del legname commerciabile, espansione di grandi piantagioni, miniere, progetti di infrastrutture e urbanizzazione. Tempo denuncia, appunto, come l'esportazione illegale di legno pregiato stia causando danni gravissimi alle foreste indonesiane, ma sottolinea anche che di recente gli sforzi della polizia per combattere il fenomeno sono stati premiati: un'operazione ha portato all'arresto di 27 persone nella regione di Ketapang, nel Kalimantan Occidentale. "Per anni, una mafia del legno è stata attiva nelle foreste di Ketapang. Sono trafficanti, tagliatori, membri dell'ufficio forestale, della polizia, del ministero delle foreste e dell'amministrazione locale. Secondo le stime della squadra congiunta formata dall'ufficio nazionale di polizia e dal ministero delle foreste, la loro attività causa perdite annuali per più di 32mila miliardi di rupie (circa due miliardi di euro). All'inizio di marzo la squadra ha lanciato un'operazione di smantellamento della rete mafiosa, arrestando tra l'altro il capo dell'ufficio forestale di Ketapang, il capo del distretto di polizia locale e un candidato alla carica di governatore della regione. L'operazione, però, non è ancora conclusa: molti pesci grossi, infatti, sono riusciti a evitare l'arresto. Poi c'è da chiedersi se la polizia e la magistratura sapranno lavorare insieme per assicurare i colpevoli alla giustizia. E intanto le foreste stanno scomparendo" [15 aprile 2008].
Oltre al danno ambientale, è stato un disastro per milioni di persone che dipendono dalla terra. Forse il più grande disastro sociale e ambientale insieme al programma di “trasmigrasi”: tra il 1969 e il 1999 circa 4 milioni e mezzo di persone dalle isole più sovraffollate – Java, Madura e Bali – sono state risistemate nelle isole esterne dell’arcipelago, per lo più Kalimantan (o Borneo indonesiano) e Papua, con il massiccio – e criminale! - sostegno finanziario della Banca Mondiale. In teoria la trasmigrazione serviva a dare uno sfogo alla pressione demografica, ridurre la povertà e sviluppare l’agricoltura, ma la realtà è ben diversa. Spesso i progetti di colonizzazione agricola sono andati a rotoli perché le terre non erano adatte o perché non c’erano le infrastrutture necessarie e i mercati su cui operare, mentre i trasmigranti (IDPs, Internally displaced persons) sono finiti a fare da manodopera sfruttata per imprese di deforestazione o in piantagioni. Ciò ha indubbiamente contribuito alla nascita di conflitti con le popolazioni autoctone, a cui erano state sottratte terre e foreste senza alcuna considerazione per i propri diritti. Le popolazioni locali si sono trovate, insomma, sempre più emarginate e impoverite, e questo ha anche acutizzato il senso di ingiustizia e alimentato rivendicazioni separatiste, da Papua ad Aceh. L’attuale clima politico non favorisce certo un alto grado di stabilità. Le ultime tensioni si sono verificate a febbraio, quando il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono ha dovuto rinunciare al vertice della Fao di Roma. Il recente rincaro della benzina - il terzo stabilito dal suo governo - ha causato un malumore diffuso nel paese e dopo le manifestazioni di protesta del 28 maggio, il presidente ha deciso di restare a casa. La sua vera preoccupazione è stata quella di non rifare l'errore commesso dieci anni fa dall'ex dittatore Suharto. Durante gli scontri del maggio del 1998 furono uccisi quattro studenti universitari. La crisi politica che ne seguì causò la caduta del regime di Suharto, al potere da 32 anni. Così per evitare che la storia si ripetesse, il governo di Jakarta ha proibito alla polizia di portare armi da fuoco quando è in servizio durante le manifestazioni. Secondo i sostenitori di Yudhoyono, le proteste sono organizzate dai suoi avversari, che vorrebbero ridurne la popolarità in previsione delle elezioni del 2009. “I servizi segreti - scrive Tempo - pensano che a capo delle proteste ci sia un ex ministro e non è difficile intuire che si riferiscono a Rizal Ramli, ex ministro dell'economia. Ma Ramli respinge l'accusa di essere il manipolatore degli studenti, affermando che questa insinuazione è un insulto all'intelligenza degli studenti”. [12 febbraio 2008]
Anche dal punto di vista dell’economia il paese non dorme sonni tranquilli. L’allarme lanciato sempre da Tempo [4 dicembre 2007] non ha ricevuto adeguate risposte. L'Indonesia in futuro avrà, infatti, bisogno di produrre più energia elettrica. Gli esperti prevedono che per il 2009, anno delle elezioni, il paese sarà a rischio black out. Il governo sta cercando di prevenire questa eventualità con la costruzione di nuove centrali, che dovrebbero fornire al paese il 40 per cento in più di energia elettrica. Per l'azienda elettrica nazionale (Pln) si tratta di un investimento enorme che prevede la costruzione di 35 centrali termoelettriche alimentate a carbone, di cui l'Indonesia è il principale produttore mondiale, e a gas. Il petrolio non sarà usato a causa dei prezzi troppo alti. Inizialmente sembrava che le imprese costruttrici e le banche statali cinesi sarebbero state le uniche finanziatrici e partner di questo progetto. Tuttavia, poiché gli istituti bancari hanno fissato dei limiti di tempo troppo rigidi per la restituzione dei crediti, la Pln ha cercato finanziamenti altrove. Oggi, delle cinque banche che hanno partecipato all'appalto, una è cinese, tre sono indonesiane e un'altra è la Barclays. Il governo e la Pln sperano in questo modo di poter realizzare i lavori più urgenti per ottenere una produzione di 2.100 megawatt per il 2009 ed evitare la crisi energetica nel 2009.
Ad ogni modo il bilancio attuale resta disastroso. Secondo Down to Earth – bollettino on line della ‘Campagna per la giustizia ecologica in Indonesia’ – “il problema è che l’economia indonesiana resta basata sull’export e sullo sfruttamento intensivo delle sue risorse naturali, le miniere, la deforestazione e le piantagioni intensive". A distanza di 10 anni, il modello di ‘sviluppo’ di Suharto è, insomma, ancora vivo.


APPROFONDIMENTI:
- Cosa accade in Indonesia (fonte: Amnesty International; Down to Earth; WWF International);
- Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC);
- IDMC: Indonesia profile;
- IDMC maps: IDPs situation throughout Indonesia, as of june 2003.