lunedì 30 giugno 2008

Il saccheggio del Congo


1. La storia della Repubblica Democratica del Congo – l’ex Zaire, un paese grande come un quarto dell'Europa - è segnata da numerosi conflitti finalizzati spesso al controllo delle immense risorse naturali di cui dispone: oro, diamanti, uranio, cobalto, rame e coltan (columbite-tantalite, metallo utilizzato nella telefonia cellulare e per le componenti informatiche), legno pregiato e gomma arabica. Ricchezze delle quali i congolesi non hanno mai usufruito: sfruttato prima dalla colonizzazione belga, poi dalla trentennale dittatura di Sese Seko Mobutu (1965-1997) quindi, a partire dagli anni '90, invaso dagli eserciti dei paesi vicini e da bande mercenarie che hanno sostenuto e alimentato la guerra civile e gli scontri tra le componenti etniche delle province frontaliere. Il conflitto in corso nella Repubblica Democratica del Congo è il più sanguinoso dai tempi della Seconda guerra mondiale e, anche a causa del gran numero di eserciti dei paesi limitrofi che ha coinvolto, è stato definito "Guerra mondiale africana". Nonostante i primi accordi di pace firmati nel 1999, i conflitti hanno avuto il loro apice tra il 1998 e il 2002, causando oltre 3,3 milioni di morti e circa 3 milioni di sfollati.
Keith Harmon Snow, un investigatore indipendente per i diritti umani e corrispondente di guerra per le organizzazioni Survivors Rights International e Genocide Watch e per le Nazioni Unite, ha recentemente riferito che nell'ottobre del 1996 ci sono stati almeno 1,5 milioni di rifugiati ruandesi e del Burundi nello Zaire orientale [Congo]. L'invasione a tutta scala è iniziata più formalmente quando le forze delegate dalla Rwandan Patriotic Army e dalla Ugandan Patriotic Defense bombardarono con l'artiglieria i campi profughi, uccidendo centinaia di migliaia di persone in un “chiaro caso di genocidio”. Il medesimo rapporto faceva anche notare che il numero di morti in Congo ha raggiunto livelli paragonabili a quelli del genocidio voluto dal re belga Leopoldo in Congo più di 100 anni prima, con “oltre 10 milioni di morti in Congo dal 1996, e milioni in più in Uganda e Rwanda”. Esso ha definito le morti come “ prodotti delle amministrazioni Bush-Clinton-Bush” (Keith Harmon Snow, The War that did not make the Headlines: Over Five Million Dead in Congo? Global Research: January 31, 2008).
Nell'aprile del 2001 il membro del Congresso Cynthia McKinney tenne un'udienza sul coinvolgimento occidentale nel saccheggio dell'Africa, in cui affermava che “al cuore della sofferenza dell'Africa c'è il desiderio dell'Occidente, e soprattutto degli Stati Uniti, di accedere ai diamanti, al petrolio, al gas naturale e ad altre preziose risorse africane... l'Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, hanno messo in moto una politica di oppressione, destabilizzazione motivata, non da principi morali, ma da uno spietato desiderio di arricchirsi con le favolose ricchezze dell'Africa” (John Perkins, The Secret History of the American Empire, Penguin Group, New York, 2007). Sembrerebbe quasi che re Leopoldo II sia tornato in Congo. Ma se ne era mai andato?

2. A parte la complessità e la carenza di informazioni documentabili, è evidente – basta semplicemente dare uno sguardo sommario alle parti combattenti – che si tratta del classico conflitto ‘per procura’, in cui potenze esterne fanno il doppio gioco con lo scopo di cristallizzare l’instabilità del paese e poter, così, gestire i loro affari: 1997/2002 - guerriglieri Tutsi del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (Rcd), appoggiati dal Ruanda, e del Movimento di Liberazione del Congo (Mlc), sostenuto dall'Uganda, contro il governo di Laurent Kabila (dal 2001 di suo figlio Joseph), appoggiato dagli eserciti di Angola, Namibia e Zimbabwe, nonché da varie milizie filo-governative (Mayi-Mayi e Hutu Interahamwe); 1999/2003 - scontri tra le fazioni rivali in cui si è diviso nel 1999 l'RCD, ovvero l'RCD-Goma (sostenuto dal Ruanda) e l'RCD-Kisangani ("ammutinati" sostenuti dall'Uganda); 1999/2005 - milizie degli Hema dell’Unione dei Patrioti Congolesi (Upc) contro milizie Lendu del Fronte Nazionalista Integrazionista (Fni) nella regione nord-orientale dell'Ituri. Ulteriore elemento della vastità degli interessi esteri in gioco, il fatto che il governo abbia ricevuto armi da Stati Uniti, Francia, Cina, Corea del Nord, Georgia, Polonia, altri Paesi dell'Europa dell'ex blocco sovietico (oltre che il diretto sostegno militare di Angola, Namibia e Zimbabwe), mentre i guerriglieri dell'Rcd dal Ruanda, quelli dell'Mlc dall'Uganda. La solita sporca storia.
Dopo l'assassinio di Laurent Kabila nel 2001, il figlio Joseph ha avviato nel 2002 il processo di pace (dialogo intercongolese, tenutosi in Sudafrica) che ha portato al ritiro degli eserciti stranieri alleati del governo (Angola, Namibia e Zimbabwe) e di quelli che sostenevano i ribelli (Ruanda e Uganda). Nonostante questo la presenza di milizie nelle regioni orientali del Paese resta considerevole, e nel Kivu si registrano sporadici scontri tra gli uomini del Rcd-Goma e le milizie Mayi-Mayi, che operano anche nel Katanga con attacchi frequenti alle truppe regolari congolesi. La presenza dei ribelli Hutu delle Fdlr (Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda), sostenute durante la guerra dal governo congolese, è un ulteriore fattore di instabilità per la regione. Dalla primavera del 2005 le Fdlr hanno rinunciato ufficialmente alla lotta armata, ma il programma di disarmo e rimpatrio non è ancora cominciato. In Kivu si registrano periodicamente movimenti di truppe a cui non sarebbero estranei contingenti militari del Ruanda, più volte accusato di destabilizzare la regione. Le truppe del Rcd-Goma, che in seguito all'accordo di pace sono entrate a far parte dell'esercito nazionale, sono sospettate di avere ancora legami molto stretti con le autorità ruandesi, tanto che dal 2003 vi sono stati numerosi casi di ammutinamento tra i contingenti militari appartenenti all'ex-gruppo ribelle. Il più famoso tra questi gruppi di dissidenti è quello capeggiato dal generale Laurent Nkunda, che nel 2004 è riuscito a occupare per diversi giorni la città di Bukavu impegnando severamente l’esercito e i caschi blu della Monuc, la missione Onu nel Paese. I dissidenti di Nkunda sono poi tornati a colpire nel gennaio 2006, quando per alcuni giorni hanno occupato la città di Rushturu e altri centri abitati minori nelle circostanze. La Monuc tenta con scarso successo di stabilizzare la situazione, anche perché i dissidenti sconfinano spesso in Ruanda per sfuggire alla cattura.
Nella primavera del 2005 c'è stata una recrudescenza del conflitto in Ituri, regione che negli anni precedenti non era stata toccata dal programma di disarmo. I frequenti scontri tra le milizie che si contendono il territorio hanno causato centinaia di vittime e hanno provocato la fuga di milioni di persone. La Monuc ha conseguentemente avviato un programma di smantellamento forzato delle circa sette milizie che si fronteggiavano nella regione. L'operazione è sostanzialmente riuscita, visto che la maggior parte dei capi miliziani è stata arrestata e imprigionata, ma gli scontri nella regione continuano anche se con minore intensità. Un ulteriore fattore di destabilizzazione è costituito dai ribelli ugandesi del Lra (Lord’s Resistance Army) che dalle loro basi nel sud del Sudan sconfinano spesso nel Congo settentrionale, attaccando la popolazione in cerca di soldi e viveri. A inizio 2006 la Monuc si è scontrata più volte con i ribelli.

3. Il mese scorso, Jean-Pierre Bemba Gombo, ex vice-Presidente e maggiore leader dell’opposizione dopo le ultime elezioni del 2006, che consegnarono il Paese all’attuale Presidente Joseph Kabila, è stato arrestato a Bruxelles sabato notte. L’ordine di arresto è arrivato dalla Corte Penale Internazionale, per richiesta del Procuratore Moreno-Ocampo. L’ex leader del Movimento per la Liberazione del Congo (MLC) è accusato di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità nella Repubblica Centrafricana tra l’ottobre del 2002 ed il marzo del 2003. Nello specifico le accuse sono di stupro e tortura per quanto riguarda i crimini contro l’umanità, cui si aggiungono quelle che riguardano i crimini di guerra: oltre i due reati precedenti, vi è l’offesa alla dignità umana (trattamenti umilianti e degradanti) e il saccheggio di villaggi. Bemba aveva lasciato la Repubblica Democratica del Congo l’anno scorso, temendo per la sua vita dopo che le sue milizie erano state coinvolte in violenti scontri interni, e si era rifugiato con la sua famiglia in Portogallo. Attualmente l’ex Comandante del MLC è il primo arrestato nell’ambito dell’inchiesta della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra nella Repubblica Centrafricana, iniziata nel 2007. Lo stesso Tribunale Internazionale, con sede all’Aja, sta indagando anche su altri fatti di guerra in Paesi africani, come l’Uganda, la stessa Repubblica Democratica del Congo e il Sudan (per i crimini legati al conflitto in Darfur).
L’arresto di Jean-Pierre Bemba a Bruxelles, per ordine di autorità belghe, pone nuovamente il dibattito sulla responsabilità dei processi penali per crimini di guerra. Il Tribunale Penale Internazionale, attivo dal 2002, dovrebbe essere l’organo preposto dalle Nazioni Unite a giudicare questo tipo di reati, ma più volte si è posta la questione della riluttanza di alcuni Paesi (Stati Uniti in testa) a consegnare propri concittadini al Tribunale olandese. Si ripropone anche la questione dei rapporti dei Paesi africani con quelli europei, in particolar modo gli ex colonizzatori. Al momento il governo di Kinshasa ha richiamato il proprio ambasciatore a Bruxelles, creando i presupposti per una crisi diplomatica. Crisi, peraltro, già aperta recentemente, da quando il Ministro degli Esteri belga Karel De Gucht ha accusato la RDC di corruzione e violazione dei diritti umani, oltre che dei suoi rapporti con la Cina. Proprio il gigante asiatico sta diventando il partner privilegiato dei governi dell’Africa centrale, a discapito degli alleati storici, come Francia e Belgio. L’arresto di Bemba pone infatti l’accento su una distinzione fondamentale tra l’Europa e la Cina nei confronti dei Paesi africani, dal momento che Pechino, almeno fino ad ora, non ha mai vincolato i legami politico-economici al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici.

APPROFONDIMENTI:
- FURTO DI STATO (puntata di Report dedicata ad un materiale strategico ed ambitissimo, il coltan (o tantalio), di cui la RDC è primo produttore mondiale).
- L'equilibrio instabile del Congo, Affari internazionali, 17/06/2008.
- Kabila si riprende il Congo, Altrenotizie, 17/11/2006.
- Congo, la vittoria annunciata, Altrenotizie, 04/08/2006.
- Congo, prove di democrazia, Altrenotizie, 04/04/2006.

sabato 28 giugno 2008

Detassazione degli straordinari

Una delle misure del governo Berlusconi accolte più favorevolmente dall'opinione pubblica è la detassazione degli straordinari. Una misura, a guardar bene, esaltata e sbandierata come manna dal cielo, ma che in realtà si rivela populistica, che non risolve certo il problema dell'erosione del potere d'acquisto per i lavoratori e che rappresenta in definitiva solo un esile palliativo. Devo, infatti, capire quali siano queste aziende bisognose di un gran numero di ore lavorative in più rispetto a quelle normali, vista l'aria di crisi che tira - o che almeno si dice che tiri. Non capisco, quindi, come sia possibile che le aziende italiane licenzino costantemente lavoratori - o li mettano in mobilità, etc. - ma abbiano allo stesso tempo bisogno di ore di straordinario. Tale misura si rivela, in buona sostanza, uno slogan propagandistico privo di una qualsiasi efficacia ed utilità. Gli unici che ci guadagnano sono forse gli imprenditori che si ritrovano ora un' arma in più.

vignetta di Marco Viviani

mercoledì 25 giugno 2008

Il 'grande gioco' dall Asia al Mediterraneo



UE, LE DIFFICOLTA’ DEL NABUCCO - Benita Ferrero-Waldner, responsabile delle relazioni estere della Commissione Europea, ha incontrato lo scorso 5 maggio i responsabili energetici della Turchia e di alcuni paesi mediorientali al fine di discutere sulla possibilità che questi ultimi forniscano la materia prima per il funzionamento del nuovo gasdotto Nabucco. L’infrastruttura dovrebbe entrare in funzione nel 2010, anche se la data più probabile per la sua inaugurazione sembra essere il 2012. Il gasdotto fungerà da collegamento tra la Turchia e l’Austria e lo scopo principale della sua costruzione è garantire la diversificazione energetica in Europa allentando, seppur in maniera limitata, la dipendenza di Bruxelles dal gas russo. I giacimenti del Mar Caspio dovrebbero, quindi, garantire la diversificazione energetica in Europa. In realtà, però, il progetto presenta ancora una serie di incognite: a tutt’oggi non si conosce, infatti, la reale capacità produttiva dell’Azerbaijan e i 10 miliardi di metri cubi garantiti dal Turkmenistan difficilmente potranno garantire il funzionamento di lungo periodo del gasdotto. Del progetto dovrebbe essere parte integrante anche l’Iraq che ha già garantito una fornitura annuale pari a 5 miliardi di metri cubi, ma la situazione interna del paese rende difficile organizzare un piano di lungo periodo. Un altro possibile partner del Nabucco potrebbe essere l’Iran, ma come per l’Iraq, è al momento difficile poter contare appieno sull’appoggio degli Ayatollah al progetto, per non parlare delle riserve americane su un partenariato energetico euro-iraniano. Oltre ai problemi legati all’individuazione del gas necessario al suo pieno funzionamento il Nabucco deve anche far fronte alla concorrenza di un altro progetto sponsorizzato da Mosca, il South Stream che collegherà il Mar Nero al Mediterraneo e che a differenza del progetto di Bruxelles non deve far fronte a problemi di approvvigionamento vista l’enorme disponibilità energetica russa. Se nel lungo periodo, anche a fronte di una crescente domanda europea, i due gasdotti potrebbero essere entrambi vantaggiosi e garantire un ritorno economico, nel breve periodo la presenza di South Stream rischia di penalizzare fortemente il Nabucco. Il nuovo progetto di Bruxelles rappresenta sì un passo in avanti nella diversificazione energetica ma non è ancora sufficiente a garantire un’indipendenza significativa dalle forniture russe. Un’alternativa potrebbe essere rappresentata dagli idrocarburi algerini che però non sembrano essere in grado di sostituirsi a quelli russi. Il futuro energetico dell’UE dipenderà molto probabilmente anche dall’evoluzione dei rapporti con l’Iran e dalla stabilità della situazione irachena, ma sembra destinato almeno nel breve–medio periodo ad essere legato a doppio filo alla Russia e alla compagnia di bandiera Gazprom.

IL CORRIDOIO MERIDIONALE - Il Nabucco sarà molto probabilmente destinato ad allacciarsi al cosiddetto Corridoio Meridionale (o Trans Asian Railway) - forse il progetto più complesso tra quelli varati dall’ESCAP (Economic and Social Commission for Asia and the Pacific) nell’ambito dei trasporti – che si propone di collegare Cina ed Asia Meridionale all’Europa operando anche un programma di miglioramento ed ‘infittimento’ delle maglie delle reti ferroviarie locali (creando, ad esempio, nuove interconnessioni tra città, zone di produzione agricola e centri industriali). Questa rete avrebbe l’obiettivo di sostenere ed incentivare il traffico commerciale, principalmente quello containerizzato, integrando il sistema di collegamenti eurasiatico. La linea principale che dovrebbe attraversare questo corridoio, però, necessita non solo della realizzazione di strutture ex-novo, ma sopratutto del superamento di limitazioni tecniche e gestionali derivanti essenzialmente dall’attraversamento di sette Stati. Il contesto geopolitico, caratterizzato da discordanza e da squilibri socio-economici, genera una maggiore difficoltà ad applicare degli standards operativi necessari alla riuscita del progetto e alla sua efficienza economica (dal momento che dovranno essere recuperate ingenti quantità di capitali investiti). Le problematiche che devono essere affrontate vanno dai diversi scartamenti ferroviari impiegati e all’uso di materiale rotabile differente, fino ai disaccordi sulle pratiche doganali e sulle modalità d’ispezione dei convogli.

UNA DISPUTA DEL 'CASPIO' – Un altro fattore di incertezza che pesa sui progetti di diversificazione energetica europea è la controversia relativa al mar Caspio, discussa per l’ultima volta il 16 ottobre, a Teheran, dai presidenti dei cinque paesi rivieraschi (Russia, Kazakhstan, Azerbaijan, Turkmenistan e Iran) con l’obiettivo di decidere se il Caspio sia un mare o un lago. Un quesito che sembra capzioso, ma che in realtà ha delle importanti conseguenze: se il Caspio venisse ritenuto d’acqua dolce, i proventi delle estrazioni energetiche effettuate al largo sarebbero divisi tra tutti i paesi rivieraschi; se la sua acqua fosse considerata salata, invece, ognuno avrebbe la sua porzione di mare e di fondale: una disdetta per l’Iran, cui toccherebbe in questo modo la parte meno ricca. Il risultato del vertice è stato…non decidere, anche se i paesi interessati hanno affermato che la risoluzione del problema è affar loro, senza che nessun paese estero debba sentirsi in onere di interferire nella questione. Chiaro riferimento agli Stati Uniti (e indirettamente all’Unione Europea), che hanno alcune compagnie petrolifere bramose di esplorare il Caspio [
International Herald Tribune] insieme ai governi kazako e azero. Se si aggiunge il progetto della costruzione della Trans-Caspian Pipeline (TCP), con cui trasportare il gas sotto il Caspio, dal Turkmenistan all’Azerbaijan e quindi all’Europa (bypassando in tal modo la Russia) si capisce la preoccupazione del Cremlino per quelle opzioni che potrebbero limitare notevolmente la possibilità di Gazprom di investire nella regione [Moscow Times]. Ovviamente Putin osteggia il progetto [Jamestown Foundation], trincerandosi dietro vaghe preoccupazioni ambientaliste e affermando che la costruzione di un gasdotto dovrebbe avere l’approvazione di tutti i governi rivieraschi. Non è tardata la risposta dell’Azerbaijan [Eurasianet], secondo cui l’attuale status del Caspio non pone problemi legali di sorta alla costruzione della TCP. A fronte di tali crepe, il vertice ha deciso che il trasporto, la pesca e la navigazione nel Caspio potrà essere effettuata esclusivamente da natanti battenti una delle bandiere dei cinque paesi [Jamestown Foundation]. È stato anche messo in cantiere il progetto di un'organizzazione regionale del Caspio che, però, non sembra di prossima nascita. In ogni caso i cinque paesi hanno stabilito di non lanciarsi attacchi militari l’un l’altro e soprattutto di non ospitare sul proprio territorio truppe di uno Stato terzo che volessero colpire uno di loro. Presa di posizione importante nell’ottica di un eventuale attacco americano all’Iran, vero trionfatore del vertice [Asia Times]. Il tentativo moscovita di smarcarsi strategicamente dagli Usa, infatti, ha portato ad un riavvicinamento con gli ayatollah, anche se la politica putiniana rischia di rappresentare un autogol se i persiani persisteranno nella loro corsa nucleare.

APPROFONDIMENTI:
- Mar Caspio - La battaglia dei paesi rivieraschi per le risorse
- Il "Grande Gioco" entra nel Mediterraneo: gas, petrolio, guerra e geopolitica
- Risorse energetiche e controllo geopolitico. Il Grande Gioco nell’Asia centrale
- Grande gioco (origine dell'espressione)
- Mappe: regione del mar Caspio - NORD , SUD , LEGENDA MAPPE.

giovedì 12 giugno 2008

Lettera aperta di Evo Morales all'Ue

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale l'Europa è stata un continente di emigranti. Decine di milioni di europei partirono per le Americhe per fondare colonie, sfuggire alle carestie, alle crisi finanziarie, alle guerre o ai totalitarismi europei e alla persecuzione delle minoranze etniche. Oggi sto seguendo con preoccupazione l'evoluzione della cosiddetta "direttiva ritorno". Il testo, approvato il 5 giugno scorso dai ministri dell'interno dei 27 paesi dell'Unione Europea, è in attesa di essere votato il 18 giugno al Parlamento Europeo. Osservo con rammarico che renderà drasticamente più rigide le regole di detenzione ed espulsione dei migranti privi di documenti, a prescindere dal loro tempo di permanenza nei paesi europei, dalla loro situazione lavorativa, dai loro legami familiari, dal loro desiderio di integrazione e dalle loro conquiste.
Gli europei arrivarono nei paesi dell'America Latina e del Nord America in massa, senza visti né condizioni imposti dalle autorità. Furono sempre i benvenuti, e continuano a esserlo, nei nostri paesi del continente americano che assorbirono allora la povertà economica europea e le sue crisi politiche. Giunsero nel nostro continente a sfruttare ricchezze e a portarle in Europa, con costi altissimi per le popolazioni americane autoctone. Come nel caso del nostro Cerro Rico de Potosí e delle sue favolose miniere d'argento che rifornirono di denaro il continente europeo dal XVI al XIX secolo. Le persone, i beni e i diritti dei migranti europei sono stati sempre rispettati. Oggi l'Unione Europea è la principale destinazione dei migranti del mondo: ciò è il risultato della sua immagine positiva in quanto zona di benessere e di libertà civili. L'immensa maggioranza dei migranti giunge nell'Unione Europea per contribuire a questo benessere, non per approfittarsene. Vengono impiegati nella realizzazione di opere pubbliche, nell'edilizia, nei servizi alla persona e negli ospedali, tutti posti che gli europei non possono o non vogliono occupare. Contribuiscono al dinamismo demografico del continente europeo, a mantenere il rapporto tra attivi e inattivi che rende possibile i suoi generosi sistemi di sicurezza sociale e dinamizzano il mercato interno e la coesione sociale. I migranti offrono una soluzione ai problemi demografici e finanziari dell'Unione Europea.
Per noi, i nostri migranti rappresentano quell'aiuto allo sviluppo che gli europei non ci danno – considerato che pochi paesi raggiungono realmente l'obiettivo minimo dello 0,7% del proprio PIL in aiuti allo sviluppo. Nel 2006 l'America Latina ha ricevuto 68.000 milioni di dollari in rimesse familiari, cioè più di tutti gli investimenti stranieri nei nostri paesi. A livello mondiale raggiungono i 300.000 milioni di dollari, che superano i 104.000 milioni concessi con gli aiuti allo sviluppo. Il mio paese, la Bolivia, ha ricevuto più del 10% del PIL in rimesse (1100 milioni di dollari), o un terzo delle nostre esportazioni annue di gas naturale. Questo significa che i flussi di migrazione sono benefici sia per gli europei sia marginalmente per noi del Terzo Mondo che però perdiamo anche milioni di persone che costituiscono la nostra manodopera qualificata, nella quale in un modo o nell'altro i nostri Stati, benché poveri, hanno investito risorse umane e finanziarie.
Purtroppo il progetto della "direttiva ritorno" complica tremendamente questa realtà. Se riteniamo che ogni Stato o gruppo di Stati possa definire le sue politiche migratorie in assoluta sovranità, non possiamo accettare che i diritti fondamentali delle persone vengano negati ai nostri connazionali e fratelli latinoamericani. La "direttiva ritorno" prevede la possibilità di incarcerazione fino a 18 mesi dei migranti senza documenti prima della loro espulsione – o "allontanamento", secondo il termine usato dalla direttiva. 18 mesi! Senza processo né giustizia! Nella sua forma attuale il progetto della direttiva viola chiaramente gli articoli 2, 3, 5, 6, 7, 8 e 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. In particolare l'articolo 13 che recita: "1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese". E, ancor peggio, esiste la possibilità di rinchiudere madri di famiglia e minorenni, senza tener conto della loro situazione familiare o scolastica, in questi centri di detenzione dove sappiamo che si verificano depressioni, scioperi della fame, suicidi. Come possiamo accettare senza reagire che siano rinchiusi in questi campi i nostri connazionali e fratelli latinoamericani privi di documenti, la maggior parte dei quali ha trascorso anni lavorando e integrandosi? Dove sta oggi il dovere di intervento umanitario? Dove sta la "libertà di movimento", la protezione contro le detenzioni arbitrarie?
Parallelamente, l'Unione Europea sta cercando di convincere la Comunità Andina delle Nazioni (Bolivia, Colombia, Ecuador e Perù) a firmare un "Accordo di Associazione" che comprende un Trattato di Libero Scambio caratterizzato dalla stessa natura e contenuti di quelli imposti dagli Stati Uniti. Siamo sottoposti a intense pressioni da parte della Commissione Europea, che vuole farci accettare condizioni di profonda liberalizzazione nel commercio, nei servizi finanziari, nella proprietà intellettuale e nei nostri servizi pubblici. Inoltre a titolo di protezione giuridica subiamo pressioni a causa del processo di nazionalizzazione dell'acqua, del gas e delle telecomunicazioni realizzato nella Giornata Mondiale dei Lavoratori. La mia domanda è: in questo caso, dove sta la "sicurezza giuridica" per le nostre donne, i nostri adolescenti, bambini e lavoratori che cercano prospettive di una vita migliore in Europa? Promuovere la libertà di movimento delle merci e delle finanze, mentre assistiamo all'incarcerazione senza processo dei nostri fratelli che hanno cercato di muoversi liberamente. Questo significa negare le basi della libertà e dei diritti democratici.
In queste condizioni, se fosse approvata la "direttiva ritorno" ci troveremmo nell'impossibilità etica di approfondire i negoziati con l'Unione Europea, e ci riserviamo il diritto di applicare ai cittadini europei lo stesso regime dei visti che imposto ai boliviani dal 1° aprile 2007, secondo il principio diplomatico della reciprocità. Finora non abbiamo esercitato questo diritto sperando giustamente in un segnale positivo dall'Unione Europea. Il mondo, i suoi continenti, i suoi oceani e i suoi poli conoscono gravi difficoltà: il surriscaldamento globale, l'inquinamento, la scomparsa lenta ma inesorabile delle risorse energetiche e delle biodiversità mentre la fame e la povertà aumentano in tutti i paesi, rendendo più fragili le nostre società. Trasformare i migranti, provvisti o no di documenti, in capri espiatori di questi problemi globali non è una soluzione. Non corrisponde ad alcuna realtà. I problemi di coesione sociale dei quali soffre l'Europa non sono colpa dei migranti, ma il risultato del modello di sviluppo imposto dal Nord, che distrugge il pianeta e disintegra le società degli uomini.
In nome del popolo della Bolivia, di tutti i miei fratelli del continente e delle regioni del mondo come il Maghreb, l'Asia e i paesi africani, mi richiamo alla coscienza dei governanti e dei deputati europei, dei loro popoli, cittadini e attivisti d'Europa, perché non sia approvato il testo della "direttiva ritorno". Come la conosciamo oggi, questa è una direttiva della vergogna. Chiedo inoltre all'Unione Europea di elaborare, nei prossimi mesi, una politica migratoria rispettosa dei diritti umani che permetta di mantenere questo slancio positivo per entrambi i continenti e che ripaghi una volta per tutte il tremendo debito storico che i paesi dell'Europa hanno nei confronti di gran parte del Terzo Mondo, chiudendo subito le vene ancora aperte dell'America Latina. Oggi le loro "politiche di integrazione" non possono fallire come hanno fatto con la presunta "missione civilizzatrice" al tempo delle colonie. A tutti voi, autorità, europarlamentari, compagne e compagni, invio saluti fraterni dalla Bolivia. E in particolare la nostra solidarietà a tutti i "clandestini".

Evo Morales Ayma - Presidente della Repubblica di Bolivia
Fonte:
Rebelión

martedì 10 giugno 2008

Il Libano tra Damasco e Tel Aviv

Il conflitto tra Hizbullah e Israele dell’estate 2006 ha riportato a galla una verità ignorata solo dalla retorica politica: in Libano, lo stato come viene concepito in Europa non esiste. Dietro la facciata delle istituzioni, il potere è gestito da diversi centri di interesse, alternativi e paralleli a quelli ufficiali, solo apparentemente periferici, ma in realtà espressione delle esigenze delle differenti comunità del paese. Questo dato fa del Libano un paese estremamente debole, vittima di ricorrenti fasi di instabilità cronica determinate da tensioni sociali interne e da continui tentativi esterni di influenzare la sua vita politica. Dopo 18 mesi di paralisi politico-istituzionale e di opposizione nelle piazze per l’elezione del Presidente della Repubblica, la crisi politica libanese ha assunto un’accelerazione improvvisa a causa dello scontro militare tra le milizie filo-governative e quelle dell’opposizione. La firma dell’accordo di Doha e l’elezione di Suleiman alla presidenza chiudono la prima fase di riassestamento del Libano post-siriano.

CONFESSIONALISMO POLITICO: GARANZIA DI STABILITA' O 'PECCATO ORIGINALE'? - Il Libano moderno, con i suoi confini attuali, nasce nel 1920. Fino ad allora esistevano vari territori uniti sotto l’autorità formale ottomana e gestiti da rappresentanti locali dell’impero o da diversi capiclan. La Repubblica libanese vede, invece, la luce tre anni più tardi e a carta costituzionale, che ribadisce il principio secondo il quale il potere deve essere diviso in base alla consistenza di ciascuna comunità confessionale, è del 1926. Da allora, ogni incarico di governo è assegnato secondo la divisione proporzionale. Il Capo di Stato - la figura istituzionale più importante del nuovo Libano - fu per la prima volta un greco-ortodosso (Charles Dabbas), ma successivamente tale carica fu sempre scelta tra i rappresentanti dei clan maroniti. E così, senza un accordo scritto, agli sciiti fu assegnato l’incarico di presiedere il Parlamento, mentre ai sunniti fu riservata la guida dell’esecutivo. Dai vertici dello stato fino alle cariche minori questo principio fu rispettato in seguito in maniera capillare, anche se la preminenza maronita era evidente: provenivano da famiglie maronite anche i vertici dell’esercito, il capo delle due agenzie dei servizi di sicurezza, il direttore generale del ministero degli affari esteri, il governatore della banca centrale e il rettore dell’università pubblica. Questo squilibrio nella ripartizione dei poteri ha finito per riflettersi profondamente sul diverso sviluppo sociale delle varie regioni del nuovo Libano, segnando la vita politica dei decenni successivi. “La prima ragione dell’attuale fragilità libanese va ricercata proprio nella struttura di uno stato pluricomunitario costruito dalla Francia attorno ai cristiani, o più esattamente attorno ai maroniti, e per loro” [1].
Tra il 1943 - anno in cui le diverse comunità si univano in un Patto nazionale (non scritto) che gettava le basi per uno stato diviso tra cristiani e musulmani – e l’indipendenza del 1946, il progetto libanese rimaneva ancorato al principio del confessionalismo, percepito ancora come fattore di stabilità e garanzia di rappresentanza per i diversi gruppi, piuttosto che come elemento di debolezza o di ostacolo allo sviluppo politico e sociale. Ma le contraddizioni erano destinate a riemergere e le tensioni insite nella natura dello stato. La rappresentanza politica basata sulla divisione confessionale generava inevitabilmente una serie di pratiche clientelari che assicuravano lo strapotere dei clan dell’entroterra o dei notabili urbani, sfavorendo la gran parte della popolazione. Questi meccanismi venivano riproposti nelle lotte politiche della capitale, dove ciascun leader cercava di volta in volta l’appoggio di un altro leader in funzione di un terzo che, in quel momento, era valutato più pericoloso. Un altro elemento contribuisce a spiegare lo strapotere di cui godevano – e godono tutt’ora – i clan: la capacità di questi ultimi ad attrarre e tenere unito il consenso. Il fattore confessionale non basta, infatti, a spiegare la complessità della politica libanese. Esso giocava – e gioca – un ruolo ad intensità variabile, smentendo le analisi di chi vorrebbe leggere la storia libanese solo in termini di scontri religiosi: è molto difficile per i partiti non legati all’autorità che i capiclan esercitano di fatto sui singoli territori, riuscire a formare una propria base di elettori.

MANOVRE STRANIERE, GUERRA CIVILE E CONFLITTO REGIONALE: LE MACERIE DEL LIBANO - Intanto il Libano continuava ad essere terreno di scontro delle potenze regionali e mondiali. Se la prima guerra arabo-israeliana coinvolse solo marginalmente il paese dei cedri, le ripercussioni internazionali non mancarono di manifestarsi già con la crisi di Suez del 1956, quando il presidente filoamericano Camille Chamoun si rifiutò di scendere in campo a fianco a Nasser contro Israele, Francia e Gran Bretagna. Forti proteste attraversarono il paese e fu proclamato lo stato d’emergenza. Washington interveniva assicurando un lauto pacchetto di aiuti economici (15 milioni di dollari) e militari (invio di marines a Beirut, circa 10 mila) contro chi vedeva con favore il panarabismo di Egitto e Siria sotto egida sovietica. La costituzione della RAU (1958-61) tra i due paesi suscitò in Libano ampi scontri tra chi ne chiedeva l’ingresso e chi rivendicava l’indipendenza nazionale. Un fatto era ormai chiaro: ciascun attore internazionale attivava le proprie alleanze interne al Libano dividendo il paese tramite promesse ad ogni singolo leader politico di Beirut. Come se non bastasse, si aggiungeva il problema dei profughi della nakba palestinese, stanziati nei campi del sud. L’afflusso si fece ancora maggiore in seguito alla guerra del 1967 e agli eventi del settembre nero del 1970, allorquando la dirigenza di Fatah ed un numero imprecisato di palestinesi vennero cacciati dalla Giordania di re Hussein: ha inizio la cosiddetta ‘palestinizzazione’ del Libano con il crescente controllo del territorio da parte dei combattenti di Arafat (quello che fu per anni chiamato Fatahland in seguito agli accordi del Cairo del novembre 1969 che formalizzarono di fatto la presenza armata palestinese nel paese). Così, ancora una volta, il paese è scosso da tensioni sociali interne e antiche rivalità claniche, sottostanti a logiche e interessi di attori esterni contrapposti su scala regionale o globale. In questo quadro, lo scoppio della guerra civile nell’aprile 1975 è un evento ineluttabile.
Ancora oggi si discute in Libano e all’estero se si sia trattato davvero di una guerra civile oppure di una guerra combattuta per procura sul suo territorio. Secondo alcuni [2] alla luce dei fattori che hanno scatenato le violenze (protrattesi fino al 1991 con più di 150 mila vittime) sarebbe possibile affermare che si sia trattato di entrambe le cose: le fazioni locali hanno preso le armi contro loro concittadini, agendo per interessi propri e per quelli di attori esterni come Siria, Iran, Urss da una parte e Israele, Francia, Stati Uniti dall’altra. Nel giugno 1976, preoccupato che la guerra civile potesse recare danno al suo regime e sostenuto da Mosca, il presidente siriano Hafiz al-Assad decise di installare le sue truppe sul territorio del fragile vicino e nel 1979 l’influenza della rivoluzione islamica iraniana contribuiva a segnare lo sviluppo del nuovo scenario libanese. Ma l’evento principale fu probabilmente l’invasione israeliana del paese (in cui già dal 1978 erano presenti nel sud) con la scusa di annientare le milizie palestinesi. Una forza multinazionale (Usa, Francia e Italia) fu dispiegata a Beirut, ma il contingente fu costretto a sloggiare già a partire dal 1983 a causa dei sempre più frequenti attacchi: il Libano era di fatto lasciato al suo destino, spaccato in due zone di influenza che vedevano la Siria installarsi al nord e Israele controllare il sud. Sul terreno, a combattere ci sono la destra maronita, prima sostenuta da Damasco e poi abbandonata a favore delle sinistre filo-palestinesi, le quali erano appoggiate da Amal (sciiti guidati dall’attuale presidente del Parlamento, Nabih Birri) salvo poi diventarene, su richiesta siriana, uno dei principali obiettivi. Da parte sua Israele non resta certo a guardare: con un amano addestra i falangisti maroniti sul proprio territorio e li manda a combattere in Libano contro i palestinesi (massacro di Sabra e Chatila del settembre 1982), con l’altra si appoggia ai collaborazionisti, tanto cristiani quanto sciiti, per la lotta contro Hizbullah. Il partito di dio nasce nel 1982 proprio dal vuoto venutosi a creare con l’invasione israeliana e dalla spinta della rivoluzione iraniana, soprattutto in un paese in cui la maggioranza degli sciiti costituiva la parte più povera ed emarginata. La fine della guerra civile si ha nel 1991 con la definitiva installazione dei siriani nel paese, in un momento in cui Damasco era utile a Washington in funzione anti-irachena: il Libano, ancora una volta, era merce di scambio di accordi tra soggetti esterni.

LA STABILIZZAZIONE IMPOSSIBILE - Gli eventi sono, però, destinati a susseguirsi senza sosta e senza che venga raggiunta una soluzione stabile: nella primavera del 2000, sotto la pressione di un’opinione pubblica insofferente, il premier israeliano Ehud Barak annuncia il ritiro delle truppe, anche se Tsahal rimane in alcune zone strategiche lungo il confine come le fattorie di Shiba e tre villaggi poco distanti (Kfar Shuba, Kfar Kila e Giagiar). Poche settimane dopo muore a Damasco Hafiz al-Assad che lascia il potere al figlio 34enne Basshar, già incaricato del dossier libanese, il quale si rivelerà troppo inesperto e delapiderà in poco tempo il capitale politico e strategico costruito per anni dal padre. Intanto Hizbullah riesce a guadagnare consensi sul terreno strategico e politico. Mantiene inalterato –anzi potenzia – il proprio arsenale militare con la giustificazione della lotta ad Israele che occupa ancora il suolo libanese e ne viola la sovranità (dal 2000 ad oggi sarebbero più di 12 mila le violazioni israeliane dello spazio aereo e marittimo libanese), ottenedo, sul piano politico, ottimi risultati alle elezioni legislative del 1992 (12 parlamentari) e alle consultazioni del 2000 per la Camera nazionale (16 seggi). Dal 2000 in poi la politica libanese si caratterizza per lo scontro tra il capo di stato Emile Lahoud (appoggiato da Hizbullah) e il premier antisiriano Rafiq Hariri. Invece di concludersi nel 2004, il mandato di Lahoud viene prolungato con l’interferenza di Damasco, provocando nuove tensioni e ulteriori divisioni, questa volta tra filo siriani e antisiriani. Il primo fronte (fedele a Lahoud e sostenuto da Iran e Siria) è costituito dal duo sciita Hizbullah e Amal, dal partito del generale cristiano Michael Aoun (rientrato poi nel maggio 2005 dopo anni di esilio) e da una serie di piccole formazioni tradizionalmente fedeli a Damasco. Il secondo fronte (quello di Hariri, sponsorizzato da Usa e Francia, ma anche da lobbies economiche occidentali) si compone del partito ‘personale’ della sua famiglia, la Corrente del futuro (Tayyal al-Mustaqbal, sunnita), dal clan druso di Walid Giumblatt (un partito socialista progressista), dai due partiti ultracristiani delle Falangi (clan Giumayyil) e dalle Forze libanesi di Samir Giagia, oltre a vari politici per lo più cristiani considerati indipendenti. Lo scontro si fa drammatico in seguito all’attentato del 14 febbraio 2005 nel centro di Beirut in cui muoiono Hariri e altre 22 persone (la ‘strage di san Valentino’) e per effetto della protesta del 14 marzo (1 milione di libanesi in piazza) contro l’occupazione siriana. Nell’aprile seguente Damasco annuncia il ritiro dal Libano, ma come al solito la situazione è destinata a precipitare. Il paese dei cedri è momentaneamente libero dalla morsa siriana, ma la questione di Hizbullah rimane insoluta. Usa e Israele, impegnate nel confronto con l’Iran, continuano a vedere nell’ala armata del partito di dio la principale minaccia alla sicurezza dello stato ebraico, mentre per i vertici sciiti, per Teheran e per Damasco, la resistenza islamica deve continuare fino a quando esisterà il pericolo strategico sionista. Già a fine dicembre 2005 si accendono pesanti scontri lungo la linea blu, anche se le prove generali hanno luogo solo nel maggio 2006 con un botta e risposta di 16 ore tra Tsahal e Hizbullah. La notizia il 12 luglio dello scoppio della guerra – che meriterà uno spazio a sé in un’altra occasione - è una sorpresa per molti, ma non per tutti: iraniani e siriani, americani e israeliani erano senza dubbio già pronti ad una nuova guerra a spese del Libano. Dopo 33 giorni di bombardamenti, il cessate il fuoco investe l’Unifil di nuovi compiti e lascia il paese in balia delle tensioni.

BLOCCO POLITICO ED ELEZIONE DI SULEIMAN - L’impasse politica domina il Libano dopo l'estate 2006 e caratterizza pesantemente la sua vita politica con lo scontro tra la maggioranza sunnita filo-occidentale (che appoggia Siniora) e opposizione cristiano-sciita che, sotto la guida di Hizbullah, sponsorizza l'alleanza con la Siria e l'Iran. Il nodo centrale del contendere si riflette nella politica interna e turba la promulgazione di un governo di unità nazionale, oltre ad impedire per ben 18 mesi - ed in seguito a 19 falliti tentativi - l’elezione del nuovo capo dello stato alla fine del mandato di Lahoud. La situazione si fa davvero pesante, rischiando di far precipitare il Libano in una nuova guerra civile, ai primi di maggio. L'8 e 9 maggio, Hizbullah e gli alleati di Amal occupano, in una sorta di azione dimostrativa, tutte le aree strategiche di Beirut, rimarcando - se ce ne fosse bisogno - la propria potenza militare e strategica. In segno di moderazione, Nasrallah riconsegnerà tutte le zone occupate all'esercito, ma non mancherà di accentuare, con aspre parole, come il gesto sia da attribuire al rispetto che Hizbullah nutre per le istituzioni libanesi. La recente elezione di Suleiman quale Presidente della Repubblica è storia dei nostri ultimi giorni. La tensione sembra per il momento essersi allentata, ma sono sempre carichi di sciagure i venti che spirano da una parte all’altra del paese dei cedri. La via che va da Tel Aviv a Damasco passa sempre per Beirut.

NOTE:
[1] Samir Kassir (storico libanese assassinato il 2 giugno 2005), La guerre du Liban - De la dissension nazionale au conflit régional, Parigi, 1994.
[2] G. Tueni, Une guerre pour les autres, Parigi, 1985.

APPROFONDIMENTI :
Il futuro del Libano – Internazionale (commenti della stampa araba sugli accordi di Doha)
Il Libano di Suleiman – limes on line (sito nuovo), 09/06/2008
Il Libano tra spinte conservatrici e nuovi rapporti di forza – affari internazionali, 09/06/2008
Il vento del Libano - Internazionale 746, 29/05/2008
Siria, Israele e Libano: verso una ricomposizione regionale? – affari internazionali, 26/05/2008
Libano: trincea per una nuova guerra fredda – altrenotizie, 21/05/2008
Rubrica Damasco-Beirut – limes on line (sito nuovo, dopo 1 maggio 2008)
Rubrica Damasco-Beirut – limes on line (sito vecchio, fino al 30 aprile 2008)
Libano: archivio articoli - osservatorio iraq
Libano-Israele: scheda conflitto – peacereporter
Lebanon under siege - The Guardian

domenica 8 giugno 2008

Le interferenze della chiesa e la debolezza dello Stato

"Compito della chiesa è quello di indicare come si vadi in cielo, e non come vadi il cielo" - Leonardo da Vinci, Dialogo sopra i massimi sistemi dell'universo.

Il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, cioè dei vescovi italiani, all'apertura dell'assemblea annuale di questo consesso, ha indicato, sia pur nel linguaggio curiale che gli si conviene, la priorità dell'agenda politica del governo Berlusconi, l'emergenza rifiuti, "l'aiuto a chi ha perso potere d'acquisto", le questioni della sicurezza e degli immigrati, ha attaccato - qui senza troppe perifrasi - le linee-guida della legge 140 che consente l'indagine pre-impianto sugli embrioni nella fecondazione assistita e ha infine auspicato "un'operosa stabilità politica alla quale contribuiscono maggioranza e opposizione".
"Ma di Gesù Cristo ha parlato?" ha commentato sarcasticamente il filosofo Massimo Cacciari, che pur non è un laico trinariciuto, ma anzi molto attento alle tematiche religiose (sono noti i suoi studi sull'angelismo). Ed Emma Bonino ha constatato: "Non conosco Paese al mondo in cui si alza un vescovo e dà indicazioni su qualsiasi cosa, neanche fosse un altro governo ombra". Difficile darle torto. Stiamo diventando una repubblica teocratica o quantomeno un Paese dove le autorità religiose si affiancano a quelle di governo non solo sulle questioni etiche ma anche su quelle politiche. Non è detto che ciò sia di per sè un male.
In fondo tutto il medioevo europeo si è basato sui precetti della Chiesa, sia in campo etico che sociale, economico e politico, che poi venivano recepiti dagli statuti civili. E si deve alla generosa, e per molti secoli vittoriosa, battaglia degli scolastici, di Tommaso d'Aquino, Alberto Magno, Nicola Oresme, Giovanni Buridano, Gabriel Biel, Molina, De Lugo, contro non solo l'usura (come oggi si fa credere) ma contro l'interesse in quanto tale (con un'argomentazione sottile: il tempo è di Dio, e quindi di tutti, e non può essere oggetto di mercato) e per "il giusto prezzo", se quel mondo rimase meno sperequato di quello attuale governato, dopo l'esplosione della Rivoluzione industriale, dal dominio dell'economia, del mercato, della "libera intrapresa".
Ma l'Italia di oggi non è più una semiteocrazia come ai tempi del medioevo. È una democrazia liberale. E uno dei fondamenti della liberaldemocrazia è la rigida separazione dei poteri fra Stato e Chiesa ("Libera Chiesa in libero Stato" aveva sintetizzato Cavour). Come sarebbe inammissibile che un ministro italiano mettesse in duscussione il dogma della verginità della Madonna, altrettanto inammissibile è che i rappresentanti della Chiesa indichino a quelli dello Stato ciò che devono o non devono fare. Oltretutto questa confusione di ruoli non giova nè allo Stato nè alla Chiesa. Non giova allo Stato perchè deve operare in un contesto internazionale, cui è strettamente legato, che ha esigenze diverse da quelle della Chiesa, non giova alla Chiesa perchè a furia di occuparsi delle cose del mondo ha finito per mettere in secondo piano (come notava Cacciari) le ragioni istituzionali, diciamo così, del suo esistere, perdendo in credibilità come è dimostrato dalla crisi verticale delle vocazioni e, più in generale, dal processo di desacralizzazione che colpisce l'intero mondo occidentale.
Infine assistiamo a un curioso paradosso. Mentre l'Occidente (perchè il fenomeno non riguarda solo l'Italia, si pensi ai teodem americani) contraddicendo se stesso tende a diventare teocratico o semiteocratico per motivi politici che nulla hanno a che fare col sacro (nel medioevo avveniva esattamente il contrario), nello stesso tempo muove una battaglia feroce a quei Paesi (vedi l'Afghanistan talebano, vedi l'Iran) che sono coerentemente teocratici perchè la legge del Corano è la legge dello Stato. Noi dobbiamo deciderci. O siamo laici, con tutti i prezzi - per esempio sull'istituto familiare - che si devono pagare. O siamo teocratici, con altri e diversi prezzi che pur si devono pagare. Ma non possiamo essere tutte e due le cose insieme. E soprattutto dobbiamo smetterla di andare a bombardare, ideologicamente e materialmente, le Istituzioni altrui, quando, con tutta evidenza, non siamo più tanto convinti delle nostre.

Fonte: http://www.massimofini.it/

giovedì 5 giugno 2008

Vertice FAO, l'ignobile farsa

Milioni di individui muoiono nel mondo per fame. Berlusconi dice che è ora di passare dalle parole ai fatti, ma intanto condivide l'idiozzia di chi vorrebbe usare le basi del sostentamento alimentare globale per produrre energia e soddisfare i 'bisogni' del mondo industrializzato. Di ricette serie se ne sono viste poche, ma in cambio non sono mancate le polemiche ideologiche. Tutte rivolte ad un solo soggetto: Mahmoud Ahmadi-Nejad.

Tante chiacchiere, ma pochi fatti. Con questa frase può essere riassunto il senso del vertice Fao di Roma. Sulla fame nel mondo si sono spese le solite parole di circostanza, mentre il leit-motiv degli incontri tra le delegazioni è stato il dibattito sulla presenza e sulle esternazioni del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadi-Nejad. Il quale, sentendosi sotto i riflettori, non ha lesinato il suo costante sprezzo verso Israele e gli Stati Uniti. Ad onor del vero, però, è importante sottolineare come tale questione sia stata eccessivamente strumentalizzata dai media, i quali - come d'abitudine, ma non è più ormai un'usanza che desta sorpresa - hanno dato ampia enfasi alle sue parole, con lo scopo di offrire quella che è un'interpretazione preconcetta. Così nessuno ha pensato agli 862 milioni di individui che oggi soffrono la fame, destinati ad aumentare vertiginosamente in pochi anni se prenderà piede - come purtroppo sembra - la folle idea che ci si possa affrancare dalla dipendenza dal petrolio sviluppando energia da quelli che sono i prodotti della terra. E se dovesse convenire più investire nelle colture da bioenergia piuttosto che usare quella risorsa per il fabbisogno alimentare mondiale? Cosa andremo a mangiare nel futuro? O meglio, quanti di noi potranno ancora permettersi di alimentarsi?
E invece al centro delle cronache sono balzate le parole dell’ex sindaco di Teheran e tutta la querelle diplomatica che ne è seguita: “Israele sarà cancellata dalle mappe geografiche”! Pur essendo un personaggio quantomeno ambiguo, esponente di una ‘teocrazia militare’ – per la commistione tra potere religioso e controllo dei Pasdaran - molto lontana dai nostri canoni democratici, è innegabile che nei discorsi del presidente iraniano tali parole non compaiano affatto (vedere intervista). Per esempio, Ahmadi-Nejad non dice mai “Israele”, ma “entità sionista”: frutto questo di una visione che non può concepire uno stato puramente ebraico su tutto il territorio della Palestina storica come il precetto sionista imporrebbe. Ed è utile ricordare che il sionismo in quanto categoria politica non ha nulla ha che vedere con l’ebraismo e il popolo ebraico: non è un fatto di razza o religione, ma un’idea politica che, come qualsiasi altra, è criticabile senza che si presupponga il concorso di ideologie razziste o antisemite. Non parla mai di “ebrei” che verranno sterminati dai musulmani. Semplicemente non riconosce lo status quo in Palestina, contraddistinto dalla presenza di uno stato propriamente detto e di una moltitudine di disperati che vivono in lembi di territorio. Non parla mai di “mappe”, non usa il termine “cancellare”. Dice che il “regime sionista è destinato a finire”, intendendo che non ci saranno più l’occupazione e la colonizzazione, che non ci sarà più un solo stato, che i profughi del’48 troveranno una sistemazione definitiva (possibilmente col diritto al ritorno), che Gerusalemme tornerà ad essere anche araba.
Ahmadi-Nejad è solo di passaggio nello scenario geopolitico mediorientale. Gli sforzi vanno concentrati in ottica futura per la soluzione definitiva dell’annoso problema, e finché la volontà di dialogo sarà sottoposta ad interessi strategici ed economici, non vi è possibilità che si giunga alla sua eliminazione dalla radice. Nel frattempo i prezzi della catena alimentare aumentano a dismisura e generano nei paesi più poveri morte e sofferenza, mentre dall’altra parte della barricata c’è chi consuma grano anche per fare il pieno al Suv.

APPROFONDIMENTI:
Food price crisis - BBC special reports
Intervista video di Ahmadi-Nejad alla Rai e testo integrale
Uno tsumani davvero “poco” silenzioso – Affari internazionali
Vertice Fao, chiacchiere su chiacchiere - Altrenotizie
Le radici storiche della fame – Come don Chisciotte
La farsa tra Ahmadi-Nejad e la comunità ebraico romana – Come don Chisciotte
La fame e l'Fmi - Serge Halimi, Le Monde Diplomatique, maggio 2008