venerdì 30 novembre 2007

giovedì 29 novembre 2007

260 milioni di che?

Trovo decisamente inopportuno tutto il parlare e lo scrivere che si è fatto sulla richiesta dei Savoia di essere risarciti per le sofferenze che l'esilio avrebbe loro causato e spenderò, dunque, solo poche parole. Questi buffi signori - che tra l'altro si esprimono in un italiano molto particolare - dovrebbero ritenersi fortunati per il solo fatto che è stato loro permesso di rientrare nei confini nazionali.
Ora, dopo tutti i guai e le sofferenze - queste si - che hanno provocato al nostro popolo e alla nostra nazione, vorrebbero essere risarciti. A mio avviso dovrebbero essere loro a risarcire il popolo italiano. E non mi venga a dire il damerino Filiberto che le colpe furono del nonno e che lui e gli altri non possono pagare per eventi che appartengono alla storia. Senza entrare nel merito e nei particolari - cose buone per Vespa e i suoi ridicoli ospiti - mi sembra decisamente scontato affermare che dovrebbero baciarci i piedi - non a me che non li avrei mai riaccettati, ma a quel Parlamento che ha abrogato la XIII disposizione transitoria della Costituzione della Repubblica (se lo mettano bene in testa!) Italiana - per questa concessione.
Si accontentino, quindi, di essere considerati dei semplici cittadini (non ho approfondito il fatto se siano stati loro dati i diritti di elettorato attivo e passivo) e non vengano ad avanzare pretese che non stanno né in cielo né in terra. Altro che 260 milioni di euro! Se la cosa non sta loro bene possono sempre tornare a vivere a Ginevra e lasciare noi in pace.

martedì 27 novembre 2007

Chiamiamo le cose con il loro nome

L'uccisione a Kabul del maresciallo capo Daniele Paladini ha riaperto l'indecente dibattito sulla guerra in Afghanistan e tutta la sequela degli interventi delle pubbliche autorità che, come al solito, sfruttano queste occasioni per prestare il loro volto alle tv al fine di sembrare umani. Con la loro sfrontata ipocrisia possono, però, ingannare pochi.
La morte di una persona è sempre una cosa triste e ingiusta. Premesso che chi decide di andare in missione all'estero può farlo per soldi, per ideali o semplicemente perché ama il suo lavoro, è chiaro che sa di andare incontro a grossi pericoli. Ma del resto, anche facendo un lavoro meno pericoloso si può morire: se dall'inizio della missione italiana in Afghanistan sono deceduti 11 soldati, le morti bianche - quelle sul lavoro - sono decisamente più numerose (e non destano tutte queste finte commozioni).
Detto questo, non trovo giusto - anzi reputo molto fazioso - il tentativo di tutti i media di far passare i nostri militari in missione come degli eroi "perché sono lì a difendere la nostra patria". Non è assolutamente vero! Come non è vero che è una missione di pace. Non lo era con il governo Berlusconi e non lo è adesso che c'è Prodi. Da chi ci difenderebbero? Gli afghani ci hanno forse mai attaccati? La vogliamo ancora menare con i fantomatici terroristi (che pure esistono, per carità)? I nostri militari sono lì solo perché così ci è stato richiesto - anzi ORDINATO - da Washington. Punto e basta. E sono lì a fare una guerra che ha prodotto migliaia di morti civili (quelli si che sono eroi) e ha sortito l'unico effetto di schiacciare i poveri abitanti del luogo tra taliban, signori della droga e contingenti stranieri. Da che mondo è mondo i militari non costruiscono un bel niente, semmai lo distruggono. O vogliamo forse credere che impugnino fucili e mitragliatori come fossero vanghe o cucchiaie da cemento? Masuvvia! Certo i nostri sono molto più umani dei marines, ma smettiamola di fare insulsa demagogia.
Nel frattempo, le nostre spese militari sono aumentate del 30% (e parliamo di miliardi di euro) mentre quelle sociali vengono continuamente tagliate. Vuoi vedere che ‘x fare del bene (???) agli altri’ ci diamo la zappa sui piedi da soli? Ma poi, siamo sicuri che essere complici di bombardamenti e devastazioni possa essere spacciato come tentativo di aiutare “quei poveracci”? E se poveracci fossimo solo noi? Abbiamo veramente bisogno di acquistare nuovi armamenti dagli americani facendoli passare come normali equipaggiamenti NATO?
A mio modo di vedere – e posso ragionevolmente pensare di non essere l’unico – è ora di smetterla con tutta questa dilagante faziosità dell’informazione e iniziare a fornire alla gente visioni giuste ed imparziali. Ricordiamo tutti insieme i nostri connazionali morti in missione, stringiamoci intorno ai loro cari che non li avranno più indietro, ma facciamo in modo, una volta per tutte, di chiamare le cose con il loro vero nome.

martedì 20 novembre 2007

E voi la chiamate democrazia

Nell'immaginario comune - degli stolti, direi io - quella degli Stati uniti d'America è la più grande democrazia del mondo. Ma come converranno coloro che stolti non sono, democrazia è oggigiorno un vocabolo ampiamente inflazionato, nel senso che, essendo ormai usato in modo decisamente inappropriato, ha assunto un significato che spazia dal tutto al niente. Cosa vuol dire quindi democrazia? Libere elezioni? La possibilità - o meglio la parvenza - di poter fare determinate cose? Senza voler scendere nell'etimo del vocabolo - e senza voler chiamare in causa la filologia - mi limiterò a sottolineare che l'elemento principale di quella forma di gestione della cosa pubblica che comunemente definiamo come democrazia assume il nome di garanzia. Garanzia che lo stato, anch'esso assoggettato al diritto, non abbia a prevalicare quei diritti fondamentali che spettano a tutti per il solo fatto di essere nati (concetto dello 'stato di diritto'). Così come definito, però, questo non avviene. Nemmeno nella 'più grande democrazia del mondo'. Quella stessa che ha la presunzione di volersi diffondere (a suon di bombe) in tutto il globo.
Capita, allora, che un ragazzo di 18 anni, magari in una situazione sospetta, venga freddato da agenti di polizia con 20 colpi di pistola e poi, una volta morto, (e ci mancherebbe altro, mica è Duncan McLoud - l'ultimo immortale) il suo cadavere venga ammanettato perché così prevede la procedura standard (questa la giustificazione di Paul J. Browne, capo del dipartimento di polizia di New York) avallata, tra l'altro, dal cosiddetto Patron Guide. E non è neanche l'unica volta che accade, visto che tre anni fa tre uomini vennero colpiti nel Queens da almeno 50 proiettili della polizia.
Si chiamava Khiel Coppin e l'unico reato che aveva commesso era quello di impugnare una spazzola in una situazione che il dipartimento di polizia di New York City ha definito 'sospetta'. L'accaduto ha sollevato una grandissima indignazione sul New York Times, ma la stampa italiana non ha evidentemente ravvisato la necessità di informarci su quest'episodio di barbarie umana. Per fortuna (espressione probabilmente non appropriata) sono sempre più numerose le critiche di coloro che considerano quest'episodio un’offesa alla dignità dell’individuo. "Ammanettare qualcuno che è stato ferito, o che è già deceduto o che sta morendo è una delle cose più barbare, inutili e orribili che la Polizia possa commettere", ha detto l’avvocato Ronald Kuby.
Cosa ci lascia in eredità questa triste vicenda? L'immagine di una 'democrazia' (che poi viene a dare lezioni di garantismo a noi italiani) bisognosa della coercizione, della violenza e dell'imposizione completamente al di fuori di ogni pratica umana per perpetuare la propria sopravvivenza e la propria capacità di attrattiva. Ma solo per gli stolti.

venerdì 16 novembre 2007

I risvolti delle ultime elezioni in Europa

Tra la fine di settembre e la seconda metà di ottobre si sono tenute - in ordine cronologico - elezioni in Ucraina, Polonia e Svizzera. Al di là delle singole differenze, i risultati sono stati sorprendenti e hanno aperto lo spazio ad una serie di interrogativi che rimbalzano da una parte all'altra dell' Europa. Ma cosa c'è dietro ai singoli eventi?


L'UCRAINA TRA MOSCA E LA NATO - La storia recente dell'Ucraina prende le mosse dalla cosiddetta 'Rivoluzione arancione', quel movimento di protesta nato all'indomani delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004 che videro, in un primo momento, la vittoria del filo-russo Yanukovic - delfino dell'ex-presidente Leonid Kucma. Elezioni contestate dal filo-occidentale Yuscenko che denunciò brogli. A seguito delle proteste, la Corte Suprema ucraina invalidò il risultato elettorale e fissò nuove elezioni per il 26 dicembre. Questa volta ad uscirne vincitore fu proprio Yuscenko, con il 52% dei voti contro il 44% del suo sfidante.
La situazione di stallo si è trascinata fino alle elezioni per la Rada, il parlamento ucraino, tenutesi il 26 marzo 2006, in cui la "coalizione arancione" presieduta da Yuscenko‎ è uscita notevolmente ridimensionata a causa del tradimento di una parte della coalizione - il partito socialista. E così, Yanukovic si è ritrovato a vestire la carica di primo ministro. Il culmine della crisi politica si è raggiunta nel momento in cui il partito di opposizione, il Blocco di Yulia Tymoshenko, ha sostenuto il governo proponendo una legge che annullasse il potere di veto del Presidente.
Yuscenko, preoccupato per il fatto che la coalizione di governo si sarebbe assicurata una maggioranza dei due terzi necessaria per annullare il proprio potere di veto, chiese, con il sostegno dell'opposizione, che il diritto dei singoli membri di una fazione parlamentare a sostenere la coalizione al governo fosse ritenuta contraria alla
Costituzione. La seguente decisione di Yuscenko‎ (2 aprile 2007) di firmare un decreto per sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni legislative - poi bocciato dall'assemblea - ha scatenato le proteste del premier Yanukovic e dei suoi sostenitori.
Il 30 settembre 2007 la crisi è sfociata in elezioni parlamentari anticipate, frutto di un accordo tra i due Viktor e il presidente del Parlamento, Moroz. Secondo l'attuale sistema elettorale ucraino, i 450 seggi sono divisi tra i partiti che raggiungono un minimo del 3% dei voti totali e numero dei seggi assegnati ad ogni partito che abbia superato tale soglia, è calcolato utilizzando il metodo del maggior resto. L'esito è stato quantomai controverso: se il Partito delle Regioni di Yanukovic è risultato essere il primo partito, la coalizione tra il Blocco di Julija Tymoscenko e il partito Nostra Ucraina di Yuscenko ha, de facto, la maggioranza dei seggi (cliccare sulla cartina per vedere la loro distribuzione).
L'Ucraina è, però, ben lungi dalla stabilità politica. Dopo la 'rivoluzione arancione' sponsorizzata da Washington (come in Georgia - ricordate la 'rivoluzione delle rose'?) l'ex-repubblica sovietica si ritrova divisa a metà tra spinte all'occidentalizzazione e vecchi legami con l'establishment di Mosca. A cosa poteva portare tutto ciò se non al caos nella politica interna del paese? Si sa benissimo che gli americani hanno, giocoforza, portato l'Ucraina (così come hanno fatto e stanno facendo a vario titolo con Repubblica Ceca, Polonia, Serbia e tutti i Balcani, Caucaso, Repubbliche centroasiatiche) all'interno della Nato. Le loro intenzioni le possiamo agevolmente capire tutti quanti. D'altro canto, Putin non è certo stato a guardare: il conseguente spostamento politico dell'Ucraina verso occidente sancì da parte di Gazprom l'aumento delle tariffe del gas fino al prezzo di 230 dollari, rispetto a quello precedentemente praticato di 50. Gli sviluppi di questa contrapposizione, insieme a quella tra russofoni e ucrainofoni, non lasciano presagire niente di buono.

POLONIA: SPERANZA CONTRO RISENTIMENTO -
In uno dei più popolosi paesi europei - di recente entrato nell'Unione - alle elezioni legislative si è imposta la formazione liberale PO (41,51%), guidata da Tusk, contro il PIS dei gemelli Kaczynski (32,11%), uno dei quali, Lech, resterà presidente fino al 2010. La formazione vincitrice ha iniziato il giro delle consultazioni per formare un governo di coalizione insieme ad altre forze di centrosinistra. Il risultato è stato senza dubbio salutato come una grande svolta per il paese. Insomma, la Polonia della speranza si è schierata contro quella del risentimento.
I polacchi hanno respinto il populismo del PIS, le insinuazioni, la paura e la volontà di mettere i gruppi sociali l'uno contro l'altro. Come ha scritto la Gazeta Wyborcza (fonte: Internazionale n.716), i cittadini hanno votato contro "la politica fondata sulla teoria del complotto, sulla megalomania nazionale e sulle fobie antitedesche", contro "il ricatto, le intercettazioni, i pedinamenti e le provocazioni, respingendo la propaganda dei mezzi di informazione schierati con il PIS e le sue manovre elettorali".
Ha vinto, quindi, la Polonia dei cittadini, la Polonia senza complessi, un partner nella famiglia dei popoli europei, un paese che vuole modernizzarsi, che rifiuta l'integralismo di Radio Maryja, la xenofobia, il populismo e certe leggi che i gemelli Kaczynski avevano promosso. La società polacca ha detto basta e ha inferto una lezione umiliante all'ormai ex-primo ministro, lo stesso che aveva fortemente voluto queste elezioni anticipate.

SVIZZERA, POPULISMO E PAURA DELLO STRANIERO -
La xenofobia, il populismo e il rifiuto dell'Europa sono, invece, gli ingredienti della vittoria elettorale di Blocher nel paese dei cantoni. All'interno del particolare sistema costituzionale svizzero, della sua forma di governo direttoriale (unico esempio rimasto al mondo in cui un collegio composto da più persone funge da Capo dello Stato e del Governo) e del meccanismo politico (in cui la stabilità è data da ampie coalizioni, a volte comprendenti anche diversi movimenti - la cosiddetta 'formula magica') l'Unione democratica di centro ha ottenuto quasi il 30% dei voti. In realtà di centro non ha proprio niente, connotandosi invece come partito di estrema destra con un programma pieno di elementi tipici dei nazionalisti e tendenze apertamente xenofobe: riduzione delle tasse, lotta contro burocrazia, immigrazione e diritto d'asilo, oltre ad una istintiva diffidenza verso l'Ue.
La sua vittoria è frutto di un lungo e capillare lavoro, di una strategia spregiudicata e mirata ad instillare nella popolazione un pericoloso sentimento di diffidenza e, più esattamente, di paura verso lo straniero. Il suo primo significativo successo risale al 1992 quando riesce ad imporre la sua visione e convincere gli svizzeri a rifiutare l'adesione allo Spazio economico europeo, l'anticamera della futura Unione.
Per tutti gli anni '90 costruisce la propria immagine tuonando pesantemente contro Bruxelles, appellando come approfittatori gli immigrati che abuserebbero del sistema svizzero di previdenza sociale e indicandoli come coloro che minacciano la proverbiale tranquillità civile elvetica. Con un clima sociale che inizia piano piano a deteriorarsi la ricetta funziona e nel gennaio 2004 Blocher diventa uno dei 7 ministri del governo di coalizione, pur giocando a fare l'oppositore. Il suo tono populistico raggiunge l'apice con le affermazioni che lo vedono prendere la difesa dei più poveri, quando in realtà è parte integrante del grande capitale in quanto miliardario e possessore di un'impresa internazionale, la Ems-Chemie.
Una cosa è certa: in un clima di grande instabilità generalizzata il rigurgito xenofobo funziona più che mai. Alcune avvisaglie iniziano a manifestarsi anche in Italia. Speriamo di non dover assistere anche noi ad affermazioni politiche di tal genere.

mercoledì 14 novembre 2007

Con il calcio non c'entra niente

1. Ci sono molte cose gravi in quello che è successo la mattina dell’11 novembre sull’autostrada A1 all’altezza di Arezzo, in quello che ne sta conseguendo e in quello che ne conseguirà.
E’ gravissimo che un agente di polizia estragga una pistola e cominci a sparare – foss’anche in aria – da distanza ragguardevole per un avvenimento del quale non conosceva nulla - senza quindi che vi fosse un’immediatezza del pericolo – che per di più si svolgeva dall’altra parte di un’autostrada a quell’ora trafficatissima.
Voglio sperare, per il bene di tutta la società, che l’esito di questa sconsiderata azione non fosse voluto. Ancor più grave è il modo con cui la situazione (sintetizzata nell'immagine sopra - fonte:corriere.it) è stata gestita dalle autorità, nonché l’ipocrisia con la quale è stata - e continua ad essere - commentata dai soliti interessi mediatici di parte.
Questa volta deve essere ben chiaro: il calcio, il tifo e i tifosi con quello che è successo sull’A1 non c’azzeccano niente. I tafferugli di Bergamo e la guerra di Roma sono un’altra cosa.

2. Tutta la gestione della vicenda da parte della pubblica autorità si presta a molti dubbi e solleva diverse critiche. La sensazione è che si sia voluto, almeno in un primo momento, cercare di manipolare e di coprire la verità.
Amato avrà i suoi buoni motivi per sostenere che è stato fatto tutto il necessario – e forse anche ragione – ma ciò non toglie che l’approccio del suo dicastero nel gestire i momenti di crisi di qualsiasi natura (immigrazione, delinquenza, problema stadio – spesso accomunati alla tematica della sicurezza) sia decisamente inappropriato. Le figure giuridiche dei vari reati sono già presenti nel nostro ordinamento, così come le relative pene. Il problema è applicarle nella giusta maniera e non produrne di nuove. Che tradotto vuol dire solo perdere tempo e soldi, oltre che offrire nuovi pretesti di radicamento a chi si vorrebbe combattere.
A chi come la Meandri vorrebbe chiudere gli stadi, vietare le trasferte o sospendere temporaneamente i campionati di calcio per dare “un segnale forte” mi sento di dire che è perfettamente inutile: i soli colpiti sarebbero i veri appassionati e tifosi, insieme all’immagine italiana di quel fenomeno sociale che si chiama sport. Gli autori degli episodi di violenza dentro e fuori gli stadi non sono tifosi, sono solo delinquenti ai quali è stato permesso di appropriarsi di quello che una volta era un gioco, spalleggiati da società calcistiche (le connivenze le conosciamo tutti), interessi economici (penso agli sponsor e alle televisioni payperview) e potere politico eversivo, sembrerebbe di estrema destra.

3. Un grosso disgusto me l'hanno provocato i soliti giornali italiani, sempre pronti a lucrare sui clamori di un grave avvenimento piuttosto che fare informazione e creare quella cultura sportiva che tutti ora - ma sono anni che se ne parla - tirano in ballo. Il fatto di aver immediatamente accostato - anche prima degli episodi di Bergamo e Roma - la morte di Gabriele Sandri al fenomeno violenza nel calcio è atto vilissimo e indice di come l'informazione italiana sia al servizio di poteri politico-economici occulti. Di come punti a darci una sua visione: il calcio è violenza, gli stadi vanno chiusi, corriamo tutti a comprare una tesserina magnetica ricaricabile (invece dell'abbonamento o del biglietto) e vediamo la partita in tv a casa.
E così - tanto per fare un esempio - in un articolo intitolato "Comunque è stato ucciso dal calcio" Vittorio Zucconi scrive su Repubblica che "giratela come vi pare, ma il fatto rimane. Gabriele Sandri è stato ucciso dal calcio, da questa 'cosa' deforme e mostruosa che in Italia ha perduto da anni ogni senso, ammazzato anche lui da questo cancro che anno dopo anno, scandalo dopo scandalo, cerotto dopo cerotto, chiacchiera dopo chiacchiera continua a metastatizzare e pretendere, come una divinità pagana, sacrifici umani per sentirsi importante".
Torno a ripeterlo: il fatto oggettivo di un poliziotto che spara forse per errore (a meno che non venga configurato la fattispecie del dolo), probabilmente per negligenza (ma desta più di un serio dubbio il particolare delle braccia tese al momento dello sparo) ad un individuo qualsiasi - per puro caso tifoso e diretto alla partita - non può essere accostato alla guerriglia che pur ne è seguita. Deve piuttosto portare a considerazioni utili a ricostruire un ordine che si è perduto.

4. I delinquenti vanno messi in galera (ci sono tutti i mezzi giuridici e tecnologici) e non più finanziati. Chiudere gli stadi o fermare le partite non ha nessuna importanza per loro. Loro le partite non le vedono neanche.
Il poliziotto dovrà essere punito in maniera giusta, ma spero servirà anche a fare un po' di luce in quella che è, invece, una realtà: anche nelle forze dell'ordine ci sono delle 'teste calde'. Non sono in grado di giudicare - né è mia intenzione - il caso specifico, ma da abituale frequentatore degli stadi - supertifoso e non facinoroso - posso giustificatamente sostenere che a volte gli atteggiamenti di gruppetti o di singoli all'interno delle forze dell'ordine sono decisamente fastidiosi e pesanti, a volte inopportuni perché danno un pretesto a chi altro non aspetta. Così avevo accolto favorevolmente la presenza dei soli steward perché in un certo modo allevia un clima di tensione. Ma, ovviamente, non rappresenta una soluzione.
Non vorrei, però, che le colpe maggiori siano da ricercare in coloro che fomentano paura a livello sociale, che seminano insicurezza e che, con legislazioni d'emergenza, fanno sì che alcuni si sentano come Walker Texas Ranger, da cui è lecito aspettarsi di tutto purché la legge 'trionfi', e altri si arroghino arbitrariamente il dovere di scardinare il viver civile.

mercoledì 7 novembre 2007

La nuova "sinistra" e la censura fascista

La legge Levi-Prodi e la fine della Rete

Ricardo Franco Levi, braccio destro di Prodi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha scritto un testo per tappare la bocca a Internet. Il disegno di legge è stato approvato in Consiglio dei ministri il 12 ottobre. Nessun ministro si è dissociato. Sul bavaglio all’informazione sotto sotto questi sono tutti d’accordo.La legge Levi-Prodi prevede che chiunque abbia un blog o un sito debba registrarlo al ROC, un registro dell’Autorità delle Comunicazioni, produrre dei certificati, pagare un bollo, anche se fa informazione senza fini di lucro.I blog nascono ogni secondo, chiunque può aprirne uno senza problemi e scrivere i suoi pensieri, pubblicare foto e video.L’iter proposto da Levi limita, di fatto, l’accesso alla Rete.Quale ragazzo si sottoporrebbe a questo iter per creare un blog?La legge Levi-Prodi obbliga chiunque abbia un sito o un blog a dotarsi di una società editrice e ad avere un giornalista iscritto all’albo come direttore responsabile.Il 99% chiuderebbe.Il fortunato 1% della Rete rimasto in vita, per la legge Levi-Prodi, risponderebbe in caso di reato di omesso controllo su contenuti diffamatori ai sensi degli articoli 57 e 57 bis del codice penale. In pratica galera quasi sicura.Il disegno di legge Levi-Prodi deve essere approvato dal Parlamento. Levi interrogato su che fine farà il blog di Beppe Grillo risponde da perfetto paraculo prodiano: “Non spetta al governo stabilirlo. Sarà l’Autorità per le Comunicazioni a indicare, con un suo regolamento, quali soggetti e quali imprese siano tenute alla registrazione. E il regolamento arriverà solo dopo che la legge sarà discussa e approvata dalle Camere”.Prodi e Levi si riparano dietro a Parlamento e Autorità per le Comunicazioni, ma sono loro, e i ministri presenti al Consiglio dei ministri, i responsabili.Se passa la legge sarà la fine della Rete in Italia.Il mio blog non chiuderà, se sarò costretto mi trasferirò armi, bagagli e server in uno Stato democratico.Ps: Chi volesse esprimere la sua opinione a Ricardo Franco Levi può inviargli una mail a : levi_r@camera.it.