venerdì 28 settembre 2007

Hip Hop nostrano: comunicazione ed espressione del sociale

Tra le espressioni musicali nostrane, un posto d'onore lo occupa un giovane cantante Hip Hop di Ascoli Piceno, Kenzie Kenzei. Parole semplici e dirette sapientemente accompagnate da un ritmo accantivante perfino per chi, come me, non è un patito di questo genere. Una delle canzoni più belle di questo artista è sicuramente "In questa city": una sorta di urlo disperato per ciò che le piccole città di provincia non offrono ai loro giovani abitanti. Ma Kenzie ha trovato ugualmente il modo di ritagliarsi il suo mondo e di imprimere una nuova svolta generazionale. E ce ne ha fatti partecipi.



- MySpace di Kenzie Kenzei;
-
Fomenta a roppe (il demo scaricabile);
- Intervista a Kenzie Kenzei (su Ascoli da Vivere).

La politica ha già troppi 'grilli'

Il V-day di Beppe Grillo ha alzato un polverone che ancora non accenna a placarsi, rintuzzato dalle trasmissioni politiche dei salotti tv che ripropongono le immagini del live di Bologna dopo aver snobbato il fenomeno nei giorni prima e nel giorno stesso della manifestazione. Ho una personale simpatia per Grillo dovuta alle sue qualità di comico e condivido quello che dice e le battaglie che porta avanti. Il successo che ha avuto il V-day è figlio di una serie di caratteristiche: la notorietà di Grillo e la sua verve comica lo hanno reso un ottimo catalizzatore, spingendo le persone ad informarsi; la drammaticità del rapporto tra classe politica e società civile, ormai degenerato, ha costituito la base del consenso comune costruito l'8 settembre, un consenso trasversale proveniente dagli elettori di tutti gli schieramenti politici - anche se in maggioranza di sinistra; infine, la potenza di internet ha reso il tutto largamente fruibile ad un variegato pubblico e facilmente gestibile in termini di numeri da parte di chi coordinava la protesta.
Gli effetti li abbiamo visti tutti: panico. Poi Grillo è stato, ovviamente, messo alla gogna, fatto oggetto di una campagna diffamatoria per parole mai dette o concetti mai espressi e, addirittura, definito come un terrorista. Sono rimasto molto meravigliato dal fatto che non gli sia ancora stato affibbiato uno di quegli appellativi che vanno tanto di moda, come ad esempio "il nuovo ahmadinejad", colui che vuole cancellare i partiti dalla mappa istituzionale italiana.
L'elité politica l'ha presa male - non tollera che un mortale possa muovergli delle critiche - ma ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e, infatti, sostazialmente tutti hanno ammesso di essere d'accordo con Grillo, pur non condividendo il suo linguaggio e il suo tono populistico. Puntualmente è arrivata la trappolina: le idee di Grillo sono giuste, ma se vuole attuarle deve scendere in politica, deve confrontarsi con le istanze che fanno capo ad i partiti. La politica ha insomma già strumentalizzato l'evento per mezzo di quella che è la sua stessa essenza. Se non puoi distruggerlo, fattelo amico, portalo sul tuo stesso terreno putrido in modo che diventi marcio a sua volta. Del resto, la politica annovera tra le sue fila già troppi 'grilli' che saltellano indisturbati da ormai troppo tempo tra una poltrona ed un'altra, aiutati dal vento che una volta tirà di là e una di qua.
Non so se Grillo deciderà di scendere nell'arena politica del paese. Senza dubbio, se starà al gioco ne verrà progressivamente plasmato e assimilato nei propri torbidi ingranaggi. Preferisco pensare che Grillo voglia portare avanti quello che si è dimostrato un ottimo strumento per incutere paura alla classe politica e spingerla ad un radicale cambiamento. Un gruppo di pressione che può giocare un ruolo fondamentale nella riappropriazione della democrazia da parte del popolo. Ma fuori dal potere politico, per l'interesse comune.

martedì 18 settembre 2007

Censura a stelle&strisce


Andrew Mayer, uno studente universitario di 21 anni, è stato arrestato e immobilizzato con una pistola laser (il Taser) durante un dibattito all'università della Florida, ieri 17 settembre. Motivo: usando il microfono che era stato messo a disposizione degli studenti, aveva iniziato a rivolgere una serie di domande al democratico Kerry, sconfitto da George W. Bush nel 2004 nella corsa alle presidenziali. Alcune anche scomode: "Perché non ha chiesto l'impeachment di Bush?", e ancora "Ha mai fatto parte della società segreta Skull & Bones?". Il filmato parla da solo e sta suscitando molte polemiche. "Ha usato il tempo massimo a disposizione, nonostante gli avessimo chiesto di terminare il suo intervento - ha dichiarato il portavoce dell'università Steve Orlando - Gli abbiamo dapprima tolto l'audio, poi ha iniziato a diventare nervoso". La stessa Università ha avviato un'indagine interna per cercare di capire se sono state seguite tutte le procedure del caso, in particolare riguardo all'uso del Taser. Prevista la mobilitazione e la protesta degli studenti, come annunciato dal sito di Mayer, per chiedere la sua liberazione immediata.

venerdì 14 settembre 2007

Maiale: quando Calderoli si guarda allo specchio

Calderoli lo conosciamo tutti. Sappiamo che è un mago di porcate. Dall'apostrofare Rula Jebreal (donna bellissima e valida giornalista) come "signora abbronzata", fino alla maglietta con le famose vignette su Muhammad (gesto che provocò 11 morti e 25 feriti al consolato italiano a Bengasi), passando per la legge elettorale (ministro proponente) da lui stesso poi definita "porcata". Quindi, non sorprende più di tanto che si inserisca nel difficile dibattito sulla costruzione di una nuova moschea a Bologna (sostituirebbe quella attuale) con l'idea del maiale-day: una bella passeggiata col suo maiale sul luogo dove la moschea dovrebbe essere costruita.
"A fronte dell'inversione di rotta dell'amministrazione comunale bolognese - ha detto Calderoli - che ha dato il via libera alla realizzazione di una nuova grande moschea, metto personalmente fin da subito a disposizione del comitato contro la moschea sia me stesso che il mio maiale per una passeggiata sul terreno dove si vorrebbe costruire la moschea". Non solo. Al maiale-day dovrebbero aggiungersi concorsi e mostre "per i maiali da passeggiata più belli da tenersi nei luoghi dove chiunque pensi di edificare non un centro di culto ma il potenziale centro di raccolta di una cellula terroristica". Calderoli, che ha dichiarato di voler aderire allo sciopero della pasta e che mangerà maiale per far dispetto agli islamici che seguono il Ramadan, ha la palese intenzione di ripetere quello che aveva fatto a Lodi dove il terreno venne considerato infetto e non piu' edificabile.
Si pone ora il problema di capire se Calderoli ha così tanta familiarità coi maiali perché tra i maiali ci vive o se è semplicemente avvezzo ad avere un porco al guinzaglio, come fosse un cane - è proprio vero che il cane è lo specchio del padrone! Comunque vada a finire, c'è da chiedersi se George Orwell nella "Fattoria degli animali" pensasse a Calderoli quando scriveva che ad un certo punto i maiali e gli uomini non si distinguevano più l'uno dall'altro.
Se così fosse, dovrebbe un po' di scuse ai maiali...

mercoledì 12 settembre 2007

L'altro 9/11: Santiago del Cile, 11 settembre 1973

L'11 settembre 1973 in Cile si verificò un colpo di stato da parte dell'esercito - con l'evidente aiuto americano - con il tentativo (riuscito) di rovesciare il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, che stava operando in modo egregio a vantaggio del popolo cileno, con una serie di riforme storiche - compresa la nazionalizzazione dell'industria del rame, a svantaggio delle companies - ma andava sempre più costituendo un fastidio per i vertici dell'impero. I quali - Nixon e Kissinger - non trovarono di meglio da fare che appoggiare un golpe sfociato in una ferrea dittatura lunga 17 anni, quella di tale Augusto Pinochet.
Ieri ho visto pagine e pagine dei nostri più importanti quotidiani dedicate all'11 settembre, ma nessuna riguardava quello cileno. L'unico accenno era del Manifesto che, in un minuscolo trafiletto, informava di tensioni create in Cile dalle manifestazioni in ricordo di quel giorno, per l'intenzione di sfilare fino alla statua di Allende alla Moneda (nella foto). La Bachelet ha comunque garantito che i manifestanti sarebbero potuti arrivare fino all'altro monumento dedicato ad Allende, in Plaza Independencia. Anche se non se ne parla, il fantasma di quell'uomo fa ancora una certa paura a 34 anni dalla sua morte.

PER APPROFONDIRE:

* Gabriel Garcia Marquez a informationguerrilla.org.
* scaricare da emule il documentario "Salvador Allende - storia di una democrazia negata".

9/11, il tremendo dubbio mondiale

L'11 settembre 2001 mi trovavo a Perugia (dove frequentavo l'università) in uno studio oculistico quale semplice accompagnatore della mia ex-ragazza (la paziente) quando una tv accesa nella sala d'aspetto mi fece apprendere quello che stava succedendo a New York. La prima reazione fu quella di pensare - se vogliamo anche un po' cinicamente - che dopo tante malefatte era logico attendersi una sorta di contrappasso. Reazione inevitabilmente mutata dal susseguirsi degli eventi che rendevano la situazione tragica. Le valutazioni nei giorni seguenti le ho dedicate a quali effetti avrebbe portato un simile avvenimento: probabili guerre e tensioni, crisi economica, aumento vertiginoso del petrolio, morti e ingiustizie di ogni genere. Tutti puntualmente verificatisi. Mai avrei, però, pensato di assistere ad un'erosione delle garanzie costituzionali in difesa dei cittadini come quella che sta avendo luogo negli ultimi anni, con misure coercitive sempre più pressanti e facilmente giustificabili agitando lo spettro del terrorismo. Lo stato d'emergenza giustifica la violazione del diritto: è questo l'effetto meno pubblicizzato del 9/11.
In questi giorni, come nei precedenti anni, infuria la polemica tra ufficialisti e complottisti, rispettivamente chi accetta e chi rifiuta la ricostruzione fatta dal governo USA. La lascio ad altri, come quella che coinvolge l'ultimo video di Bin Laden (vero o falso?). Preferisco concentrarmi su cosa poteva fare il governo statunitense dopo l'11 settembre: raccogliere la solidarietà del mondo e rispondere alla violenza subita non lasciando impuniti i colpevoli, ma lavorare per la riapertura di un dialogo civile con il mondo (quello arabo) che attentatori e mandanti pretendevano senza titolo di rappresentare. E così quella che doveva essere una rapida vendetta per sanare la ferita subita si è trasformata in ciò che non ha mai smesso di farla sanguinare.

lunedì 10 settembre 2007

Pax americana


fonte: il manifesto

venerdì 7 settembre 2007

La questione nucleare: 60 anni di (non) proliferazione

1. Dal punto di vista del diritto internazionale la questione nucleare è regolata dal Trattato di non proliferazione (TNP); firmato il 1° luglio 1968 con l’evidente obiettivo da parte delle due superpotenze di mantenere sotto controllo il rispettivo blocco, esso divideva, di fatto, il mondo in due: da una parte i paesi autorizzati ad avere l’atomica – quelli che avevano già fatto esplodere un ordigno di questo tipo in data anteriore al 1° gennaio 1967 [1], ai quali viene vietato di aiutare altri paesi a svilupparne – e dall’altra tutti gli altri, che, oltre a non potersene dotare, hanno l’obbligo di mettere tutte le loro istallazioni nucleari sotto il controllo dell’ Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Malgrado gli evidenti difetti e le notevoli carenze, il TNP ha funzionato abbastanza bene fino al crollo dell’ex-URSS - nonostante già molti paesi avessero sfruttato la mancanza di regolamentazione precedente ad esso per sviluppare un loro autonomo programma – ma non ha, purtroppo, ricevuto quell’applicazione integrale che avrebbe permesso la limitazione del numero degli Stati possessori di testate atomiche a cinque: se vi fosse stata la ricerca di un ampio consenso della comunità internazionale, infatti, si sarebbe forse potuto prevedere anche un meccanismo di verifica efficace e trasparente, realmente accettato da tutti.
Invece, l’organismo adibito a verificare il rispetto degli obblighi assunti dagli Stati firmatari, l’AIEA, ha dovuto lavorare, fin dall’inizio in condizioni piuttosto difficili e senza troppa autonomia. Gli ispettori possono, infatti, recarsi solo in quei paesi, già membri del trattato, che abbiano firmato (e ratificato) con l’Agenzia stessa un accordo particolare che precisa diritti e doveri. L’accesso ai diversi impianti da parte degli ispettori è poi limitato da numerose disposizioni amministrative: per esempio, devono prima sollecitare un visto il cui rilascio può richiedere tempi lunghi e solo in seguito sono autorizzati ad ispezionare uno stabilimento per un tempo minuziosamente calcolato, variabile a seconda della natura delle attività e della quantità di uranio o di plutonio presenti nel sito. È, poi importante sottolineare che tutte le regole alle quali gli ispettori devono sottostare sono state definite nel 1971, non dai funzionari dell’Agenzia, che avrebbero potuto precisare di cosa avevano bisogno per compiere la loro missione, ma dai rappresentanti degli Stati, in particolare da quelli dei paesi che all’epoca erano i più avanzati nel settore nucleare: conseguenza di ciò è stato il tentativo di limitare al massimo gli obblighi che i controlli avrebbero potuto comportare per le proprie nazioni. Così, il meccanismo di controllo è stato basato su quanto liberamente dichiarato da gli Stati: gli ispettori hanno accesso solo agli impianti dichiarati e il loro compito consiste nell’assicurarsi che tutti i materiali fissili entrati siano stati utilizzati per scopi pacifici, senza verificare l’esistenza di installazioni tenute in qualche modo nascoste.

2. I primi ad aver sviluppato la tecnologia necessaria alla costruzione di una testata atomica (ed anche i primi e gli unici ad averne fatto un uso offensivo) sono stati gli Stati Uniti, il cui programma risale agli inizi degli anni Quaranta. In questa prima fase si preferì non diffondere informazioni per evitare che anche la Germania nazista potesse raggiungere un livello tecnologico sufficiente; dopo il 1945, al contrario, venne inaugurata la cosiddetta politica degli “atomi per la pace”: se la ricerca atomica era usata per scopi pacifici, gli USA avrebbero fornito ai paesi interessati il know-how necessario, a patto poi che essi fossero stati capaci di sviluppare i propri programmi in maniera autonoma. L’avvenimento che fece comprendere a tutti la gravità di questo errore fu rappresentato dalla crisi di Cuba del 1962: l’essere andati così vicini ad uno scontro nucleare fece capire che il sistema della reciproca deterrenza non poteva da solo garantire la sicurezza mondiale. I primi passi furono sicuramente difficili se si pensa che il trattato entrò in vigore solo nel 1970 [2] grazie a paesi quali Irlanda, Danimarca, Canada, Svezia e Messico – che vedevano nel TNP lo strumento per ridurre il rischio di proliferazione nucleare indiscriminata – o a quelli che pensavano che non avrebbero mai potuto sviluppare un loro programma autonomo – tra cui Iraq, Iran e Siria, tra i primi a firmare. Tra gli Stati ad opporre un’iniziale resistenza è da menzionare anche l’Italia, che ratificherà il Trattato solo nel 1979 – quando il numero dei paesi sottoscrittori aveva ormai superato le cento unità - insieme agli accordi che avrebbero permesso l’istallazione di basi e di missili americani, famosi perché non passati, come la Costituzione imporrebbe, all’esame del Parlamento.
Nello stesso ambito del TNP, e seguendo lo spirito prodotto dalla cosiddetta distenzione, si colloca la prima fase delle trattative tra Usa e Urss per la limitazione delle armi strategiche (Strategic Arms Limitation Talks – SALT), processo che, al di là della carta, non porterà a risultati accettabili. Il SALT I si concluse nel 1972 con la firma di due distinti accordi: il primo riguardava i missili antimissile, il secondo fissava il numero dei vettori consentiti a quelli già esistenti e in possesso delle due superpotenze, senza distinguere tra quelli installati a terra, sulle navi o nei sottomarini. Con l’accordo SALT II del 1979 venne ulteriormente abbassato il limite al numero dei vettori e decisa la distruzione di quelli in eccedenza, senza peraltro che nessun organismo internazionale vi presenziasse - e quindi fosse in grado accertare l’avvenuta distruzione.
Nel 1982, dopo una fase di stallo nelle trattative, Ronald Reagan avanzò la proposta di un accordo (Strategic Arms Reduction Talks – START) che avrebbe dovuto ridurre il numero di armi installate nelle basi terrestri, un settore dell’armamento missilistico in cui i sovietici avevano raggiunto una certa superiorità. Solo nel dicembre 1987, però, vi fu un’accelerazione dei colloqui grazie al vertice Reagan-Gorbaciov, dal quale scaturì la firma di un trattato sul dimezzamento delle armi offensive a medio raggio, cosa che denotava come i tempi non fossero ancora perfettamente maturi. Bisognerà, infatti, aspettare il luglio 1991 con il vertice Bush Sr.-Gorbaciov per la firma dello START I, accordo che prevedeva la distruzione del 25% degli arsenali nucleari di Usa e Urss, e il 1993 per lo START II, firmato dallo stesso Bush Sr. e da Boris Eltsin, contenente l’obiettivo della distruzione di tre quarti delle armi nucleari possedute non solo dalle due potenze, ma anche dall’Ucraina, dalla Bielorussia e dal Kazakistan.

3. Nel 2003 il TNP è arrivato a contare 189 membri [3]. Tra di essi non figurano India, Pakistan e Israele i quali si sono sempre rifiutati di aderire e non hanno accettato neanche il TICE, il Trattato di proibizione totale delle sperimentazioni nucleari, fortemente voluto dagli Stati Uniti a metà anni Novanta come completamento del TNP stesso: i primi due hanno fatto esplodere i loro primi ordigni nel 1998 e continuano con la produzione di materiale a tal uso, mentre Israele, pur non avendo mai effettuato esperimenti, è accreditata dai maggiori analisti di 200 testate atomiche. L’Argentina e il Brasile avevano promosso, negli anni Settanta e Ottanta, dei programmi di ricerca con obiettivi chiaramente militari, non venendo per questo in contraddizione con i loro obblighi internazionali, dal momento che all’epoca non avevano ancora firmato il Trattato di non proliferazione. Entrambi abbandonarono i progetti militari alla fine degli anni Novanta e aderirono al TNP, rispettivamente nel 1995 e nel 1998: vi rinunciarono non perché la loro sicurezza esterna fosse meglio garantita che nel passato, ma perché un regime democratico aveva sostituito le dittature militari al potere. Simile il percorso del Sudafrica che negli stessi anni fabbricò, in modo del tutto lecito e senza che l’AIEA potesse intervenire, una mezza dozzina di ordigni nucleari, poi smantellati nel 1991, poco prima di abbandonare il regime di apartheid e di aderire al Tnp.
Accanto a ciò avviene, però, che nazioni come Germania e Giappone, pur non disponendo di testate atomiche o di specifici programmi nucleari di stampo militare, hanno accumulato negli anni enormi quantitativi di uranio e plutonio, tanto da riuscire potenzialmente ad assemblare ordigni in pochissimo tempo. La presenza a Tokyo di un governo decisamente nazionalista e di una diversa opinione pubblica nel paese del Sol Levante ha già fatto sentire i suoi primi effetti, con l’intenzione ventilata dal premier Shinzo Abe di una riforma in senso militarista della Costituzione del 1947.

4. Nonostante alcuni successi, paradossalmente, il TNP ha ricevuto il colpo di grazia proprio in occasione della Conferenza (1995) che decise di mantenerlo in vigore, sostanzialmente fallita a causa degli Stati Uniti e delle altre potenze. Da quasi quarant’anni, infatti, i cinque Stati del ‘club nucleare’, non a caso anche i primi esportatori mondiali di armi convenzionali, si guardano bene dall’incoraggiare un disarmo generale e lamentano i mancati progressi – dovuti ovviamente al comportamento di altri - per ignorare cinicamente gli impegni da loro assunti: gli Stati Uniti parlano regolarmente di produrre nuovi ordigni nucleari. Di più: le armi nucleari non costituiscono più una categoria separata dell’arsenale americano, ma sono integrate nell’insieme delle armi offensive, utilizzabili allo stesso titolo di qualsiasi altra arma, ed è già stato avviato il reclutamento di una nuova generazione di specialisti nel settore delle armi per rimpiazzare quella che andrà in pensione, la sostituzione dei missili intercontinentali nel 2020, dei sottomarini nel 2030, e dei bombardieri nel 2040. Il che sta ad indicare che l’armamento americano è concepito per una durata indefinita e in ogni caso fino alla fine del secolo.
La politica di non proliferazione è stata profondamente indebolita, quindi, proprio dalla grande ipocrisia con cui i cinque Stati dotati di armi nucleari ignorano i loro obblighi di disarmo: conservando oggi arsenali così ricchi, essi di fatto incoraggiano gli altri paesi ad imitarli. La disaffezione all’idea di non proliferazione si è manifestata, del resto, in maniera clamorosa nel corso della Conferenza di revisione del trattato, nel giugno 2005: invece di manifestare unanime riprovazione contro chi inganna, gli Stati partecipanti si sono lasciati senza aver trovato neanche un minimo accordo, a testimonianza di un mondo diviso, disilluso, disorientato. Più alto è il numero dei paesi che dispongono di armi nucleari, più grande è il rischio che siano usate deliberatamente, non per dissuadere, ma per annientare, o che, per errore, si scateni un conflitto, o che un paese bombardi a scopo preventivo le installazioni dei suoi avversari, o ancora che armi o materiali fissili cadano in mano a gruppi criminali: la proliferazione nucleare è dunque uno dei pericoli più seri per il futuro dell’umanità.

5. La questione nucleare, prepotentemente tornata alla ribalta negli ultimi due anni e aggravata dalla minaccia del terrorismo internazionale, è molto complessa e deve necessariamente essere analizzata nei singoli scenari in cui essa si colloca. Quale dovrebbe essere, per esempio, la risposta di paesi come l’Iran e la Corea del Nord, inseriti – a torto o a ragione – nel cosiddetto ‘asse del male’ elaborato dall’amministrazione Bush? Memori di ciò che è accaduto all’Afganistan dei taliban e all’Iraq di Saddam (regimi sicuramente spregevoli, ma ugualmente spalleggiati a suo tempo dalla Casa Bianca e dalla CIA) non è forse una reazione scontata e per lo più pragmatica quella di dotarsi di un’arma atomica come deterrente verso possibili azioni militari? Se per la Corea del Nord il nucleare sembra assumere il carattere di ultimo rigurgito di un regime ormai entrato nella sua fase di inesorabile declino, tanto che gli esperimenti dello scorso anno hanno ricevuto aspre critiche perfino dagli alleati cinesi, per l’Iran la questione ha un significato molto più articolato. Senza ombra di dubbio il regime degli Ayatollah ha quale obiettivo ultimo quello di dotarsi dell’arma atomica: il sentimento di forte nazionalismo da sempre presente nella cultura persiana, la recente ascesa degli sciiti in tutto il mondo arabo – specchio del disastroso intervento compiuto dagli Usa in Iraq, paese a maggioranza sciita e per molti anni governato dalla minoranza sunnita – e il senso di accerchiamento imposto dalle truppe a stelle e strisce alla Repubblica Islamica hanno favorito una rapida escalation.
È del tutto ovvio che possedere la tecnologia sufficiente alla costruzione di testate atomiche, in combinazione all’enorme influenza di cui godono gli sciiti iraniani in Iraq - oltre che in Libano e sulle minoranze delle petro-monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa - collocherebbe l’Iran in una posizione di assoluto dominio nell’area del cosiddetto Greater Middle East. Senza contare che le pur denigrabili esternazioni antisioniste del Presidente Ahmadi-Nejad hanno fruttato all’ex sindaco di Teheran una crescente popolarità nel mondo musulmano, il che ha contribuito ad accrescere la visione degli sciiti quale unica forza in grado di resistere all’occupazione straniera, di contro al comportamento ‘collaborazionista’ della parte sunnita. Ciò è stato in particolare evidente nel conflitto libanese: Nasrallah è dipinto come il nuovo ‘saladino’ e Hizbollah – de facto pedina iraniana - ha ampliato il suo consenso popolare rispetto ad un governo di marca sunnita che, agli occhi del mondo arabo, non è stato in grado di difendere il paese da un’aggressione esterna. Al di là del ruolo strumentale rivestito dal Partito di Dio per gli interessi iraniani, è con la partita nucleare che si giocano gli equilibri su due dei teatri geopolitici più strategici dei prossimi decenni: sarà probabilmente la conclusione delle crisi nord-coreana e iraniana, se non proprio a mettere la parola fine, a delineare, per lo meno, lo scenario futuro. O, forse, no.

6. Per la Corea del Nord il paventare il possesso di armi nucleari rappresenta il tentativo di tenere in piedi il regime, camuffando la pesante crisi economica, e non costituisce, in realtà, il benché minimo pericolo per nessuno - e del resto è proprio degli ultimi giorni la notizia che Pyongyang ha definitivamente rinunciato al proprio programma. L'Iran - che forse potrebbe anche possedere tecnologia nucleare di basso livello, ma avrebbe bisogno di anni prima di riuscire a mettere in piedi almeno un progetto che possa definirsi serio - dal canto suo non sarebbe mai in grado di attaccare Israele con armi nucleari, dal momento che poi dovrebbe sopportare pesantissime ritorsioni: avere nel proprio arsenale una decina di testate nucleari significherebbe avere un potere di dissuasione contro attacchi dall'esterno, ma mai permetterebbe un first strike.
Ecco allora che il pericolo più grave per un' escalation della proliferazione degli armamenti può venire dall'insensata idea di piazzare missili intercettori in Polonia e radar nella Repubblica Ceca - da estendere ad Ucraina, Georgia (ricordate le rivoluzioni "arancione" e "delle rose"?) e anche all'Italia - nell'ambito del cosiddetto scudo spaziale. Cosa che ha destato - non a torto, aggiungerei - furibonde ire da parte del Cremlino. Putin ha immediatamente reagito prima con mosse dal vago sapore diplomatico - in sostanza se lo scudo non è uno strumento di offesa verso il suo paese, ma solo di difesa verso presunti attacchi iraniani, perché non piazzare i missili sul Caucaso invece che davanti alla Russia e in paesi ex-patto di Varsavia, ora neo-Nato? - e poi uscendo dai trattati ABM. I non sprovveduti, infatti, sanno benissimo che tale scudo non è altro che il tentativo da parte americana di garantirsi la possibilità di poter effettuare un attacco per primi e non certo quello di difendersi da improbabili - se non inesistenti - minacce altrui.

Note:

[1]
L’URSS fece esplodere la sua prima bomba A nel 1949 e la sua prima bomba H nel 1953; la Gran Bretagna ha sperimentato il suo primo ordigno a fissione nel 1952 e la sua prima bomba a fusione nel 1957; le date per la Cina sono rispettivamente il 1964 e il 1967; la Francia (1960 e 1968) fornì inoltre nel 1956 ad Israele il reattore e l’impianto di ritrattamento di Dimona, mentre il Canada, che non ha mai fatto esplodere ordigni, ha venduto all’India nel 1955 il reattore ad acqua pesante con il quale è stato prodotto il plutonio necessario alla costruzione della sua prima bomba. In riferimento alla cronologia della prima esplosione si hanno nell’ordine USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina; contrariamente, però, ad un’idea molto diffusa, non c’è alcun legame tra lo status di Membro Permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e quello di Stato facente parte del “club atomico”: i Membri Permanenti sono i vincitori della seconda guerra mondiale, mentre gli Stati autorizzati ad avere armi nucleari sono quelli che possedevano la bomba alla data di stipulazione del TNP.
[2] Il testo del Trattato condiziona la sua entrata in vigore alla firma e alla ratifica di almeno 40 Stati.
[3] La cifra va corretta a 188 se si considera che proprio nel 2003 la Corea del Nord ha deciso di ritirarsi dal Trattato; ad ogni modo gli altri paesi ritengono che il ritiro non sia accettabile, in quanto non conforme alle condizioni previste dal Trattato stesso per il recesso.