sabato 27 gennaio 2007

Shoah si, Nakba no: quando la memoria è discriminante

Partiamo da un presupposto: la Shoah è stata una cosa orribile, nessuno può negare i fatti ed è importante non dimenticare. Il sonno della ragione genera mostri. Ma nei giorni della 'memoria' (come sono comunemente definiti) io voglio ricordare anche un altro sterminio, uno di quelli non pubblicizzati seppur non appartenga alla storia, dal momento che è, invece, di estrema attualità.
Perché non è possibile usare due pesi e due misure, non è possibile dire e far vedere solo quello che conviene. Perché l'olocausto deve, giustamente, essere ricordato e la Nakba (come viene definito quello palestinese - tutt'ora in corso) no?
Lo spunto viene, questa volta, da una figura super partes come il nostro Presidente della Repubblica. "No all'antisemitismo (e fin qui siamo d'accordo) anche quando esso si travesta da antisionismo [che] significa negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano alla guida di Israele".
A parte l'ultima e inaccettabile "...al di là dei governi che si alternano..." (che cos'è una forma di giustificazione? Quindi, se in Israele si "alterna" un governo che pratica crimini orribili può tranquillamente farlo senza temere niente?) vorrei ricordare - perché è questo che sto tentando di fare - che cosa è il sionismo, come e quando è nato, come si è sviluppato, a cosa ha dato vita.
Di fronte all'evidente faziosità dei media, è necessario, infatti, che qualcuno ricordi tutto questo.
Perché giornalmente sentiamo parlare di terrorismo palestinese - tanto che ormai è diventato un termine unico ed inscindibile - e non si sente MAI parlare di terrorismo sionista? Perché è lecito disprezzare la causa palestinese - tanto che é nata una nuova cultura, quella dell'islamofobia - e non si possono criticare gli ebrei, anche quando commettono crimini ugualmente deprecabili al pari dell'olocausto, senza essere accusati di antisemitismo? Tanto più che semiti non sono solo gli ebrei, ma tutte quelle popolazioni di una certa area del medioriente che parlano lingue diverse appartenenti allo stesso ceppo.
Come ha detto il portavoce della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, il discorso di Napolitano è "un passaggio che fa fare un grande passo in avanti nel ristabilire giustizia e verità nei confronti della storia e di coloro che molto spesso usano l'antisionismo come moderno strumento di antisemitismo".
Se lui può dire questo, allora io rivendico il mio diritto di dire che l'olocausto viene usato strumentalmente dal regime sionista per giustificare lo sterminio dei palestinesi, che va avanti da 80 anni con il colpevole e compiacente silenzio di tutto il mondo (proprio come accadde durante lo scempio nazista). E' necessario rivendicare questo diritto per ristabilire giustizia e verità nei confronti della storia. Me ne frego del decreto Mastella (tra l'altro ben lungi da me incitare alla violenza e alla discriminazione, propongo solo una verità storica oggigiorno celata) perché me lo permette l'articolo 21 della Costituzione. E nessuno mi venga a dire che il Costituente è sullo stesso piano di un ministro bigotto ed insignificante, un 'grillo' della politica che salta qua e là per occupare poltrone, del quale è impossibile nutrire la benché minima stima.
Nel prossimo post, allora, trovate tutta la verità sulla "fonte ispiratrice dello stato ebraico". Perché nessuno dimentichi e nessuno dica "io non lo sapevo".

giovedì 25 gennaio 2007

Andate in "pace"

* Questa vignetta e la prima pagina dell'articolo precedente sono state tratte da IL MANIFESTO del 25 gennaio 2007

Bush, il Presidente ridicolo

Il discorso sullo stato dell'Unione - rendiconto annuale al Senato obbligatorio per Costituzione dal 1790 per i Presidenti americani - pronunciato da Bush l'altra notte, ci è stato presentato il giorno dopo da tutti i tg in 3 minuti: l'omaggio iniziale a Nancy Pelosi - prima donna speaker della Camera - un Presidente sicuro di sé, una patetica infarinata di economia, sanità ed ecologia, qualche cenno all'Iraq con i soliti retorici argomenti. Il tutto condito da immagini costruite per far sembrare che sia stato anche applaudito. Chi ha, invece, letto qualche giornale americano, o ha avuto la pazienza di restare sveglio fino a notte fonda, e mastica un po' di inglese (quello di Bush con il suo accento texano è un boccone duro da mandare giù) si è reso conto che la situazione è stata ben diversa.
Un Presidente - collassato al 28% nell'indice di gradimento, come il Nixon del Watergate - giunto al cosiddetto tipping point, come una funzione di produzione che, arrivata al punto di massimo, comincia inesorabilmente a sprofondare verso lo zero. Un uomo - per dirla con un linguaggio medico tristemente famoso in America - dead on arrival, ossia già morto quando arriva all'ospedale. Sullo sfondo, una grande nave senza più un timoniere credibile, in balia delle onde nella tempesta dell'oceano iracheno che rischia di portarla negli abissi.
Una forma di governo presidenziale, infatti, non può prescindere da un commander in chief senza più autorità e rispetto: rischia la rottura di tutti quegli ingranaggi che ne permettono il funzionamento. Anche perché il meccanismo dei check and balances, su cui essa si fonda in omaggio alla divisione dei poteri, fa sì che nessun altro elemento dell'ordine costituzionale - per esempio il Congresso, l'organo legislativo - possa (e debba) sostituirsi nell'esplicazione di funzioni che sono prerogativa altrui. Figurarsi in questo momento, in cui i democratici sono maggioranza e non hanno il minimo interesse politico a sporcarsi le mani con una guerra che è (e deve rimanere) la guerra di Bush e dei suoi rapaci falchi neocon.

POLITICA INTERNA - Il primo round, quello della politica economica, vede un Bush ottimista profetizzare "un futuro di speranza e opportunità [...] con una disoccupazione bassa, livelli di inflazione in discesa e i salari che stanno aumentando". Manco fossimo in un mondo perfetto.
E, infatti, inciampa subito quando affronta la tragedia dei costi per la sanità - principale cavallo di battaglia della campagna democratica della Clinton e di Obama - annunciando una detraibilità fiscale delle assicurazioni mediche, che in America sono a carico del cittadino. L'ha forse scoperto negli ultimi mesi? Ignora che ad impedire ad 1/5 della popolazione la possibilità di curarsi non è il fisco, ma i disastrosi livelli del reddito? La detraibilità fiscale, semmai, va bene per chi i soldi ce l'ha già, non per chi ne bisogna.
Ma il colpo di genio, la carta nuova e vincente, è rappresentata dalla svolta 'ecologista': da ridere se non ci fosse di mezzo un problema serissimo. "La nostra dipendenza dal petrolio altrui ci rende più vulnerabili nei confronti di regimi ostili e dei terroristi (Venezuela e Iran, NdA) che possono mettere in crisi i rifornimenti provocando aumenti dei prezzi" - con chiaro riferimento all'asse Chavez/Ahmadi-Nejad nato recentemente a Caracas.
Altro che ambiente. Altro che riduzione (20%) del consumo di benzina nei prossimi 10 anni. Altro che utilizzo di fonti di energia alternative (etanolo). La sua preoccupazione sarebbe stata credibile se, proprio all'inizio del suo mandato, avesse accettato di ratificare il protocollo di Kyoto, poco più di un'ammissione di responsabilità degli Stati nei mutamenti climatici. Insomma, una mascherata pre-carnevalesca. O, anche, il tentativo maldestro di strappare quache simpatia alla maggioranza democratica per preparare il terreno al tema più scomodo.

POLITICA ESTERA - Perché parlare di Iraq ad un Congresso di maggioranza ostile, ha comportato per Bush l'uso di toni soft. E, allora, nessun ritiro - perché "un fallimento avrebbe conseguenze terribili" - ma la consapevolezza quasi messianica che "la politica estera americana non è fatta solo di guerra e diplomazia [...] il nostro lavoro nel mondo deve essere basato su una verità eterna [...] dobbiamo rispondere alle sfide della fame, della povertà, delle malattie [...] continuando a combattere l'Aids, specialmente nel continente africano".
Sarà per questo che ha iniziato a bombardare la Somalia! Se uccidiamo tutti i contagiati, il virus non potrà più diffondersi!
"Per vincere dobbiamo portare la lotta in casa del nemico, giocare d'attacco" perché "siamo di fronte ad una crescente minaccia degli estremisti sciiti, che sono altrettanto ostili all'America (oltre ai sunniti di Bin Laden e Al-Zawahiri) e determinati a dominare il Medioriente". Essi "prendono ordini dall'Iran, che finanzia e arma terroristi come Hizbullah, un gruppo secondo solo ad al-Qaeda quanto a vite americane prese" - ricordando forse ciò che accadde in passato in Libano con il disastroso tentativo a stelle e strisce di installarsi nel Paese dei Cedri. Scopre solo ora che esistono sciiti e sunniti? Ha capito solo adesso che l'invasione dell'Iraq avrebbe comportato tutto ciò? Vorrebbe forse essere lui a dettare ordini e dominare il Middle East?
Bush giustifica, quindi, l'invio di altre truppe chiedendo di "dare una possibilità al mio piano, dal momento che, dopo un'attenta analisi, questa si è prospettata come la soluzione con più probabilità di riuscita" dicendosi fiducioso sul fatto che "possiamo vincere se restiamo ancora uniti [...] come è successo più volte nel passato, possiamo superare le nostre differenze e raggiungere grandi traguardi per l'America" e annuncia l'idea di creare un Consiglio consultivo speciale per la guerra al terrorismo di composizione bipartisan. Infatti, "entrambi i partiti, repubblicano e democratico, entrambi i poteri, esecutivo e legislativo, dovrebbero lavorare in stretta collaborazione". Proprio lui che ha sempre fatto il contrario, ha snobbato l'opinione pubblica e ora ignora i suggerimenti del piano Backer e del Congresso chiedendo 21500 soldati in più.
Una richiesta che non ha passato neanche 24 ora prima di essere bocciata dalla Commissione Esteri del Senato (12 a 9, con voto contrario anche di un repubblicano) ed essere bollata dal vicepremier iracheno come "idiota" - giudizio peraltro esteso a tutta la campagna in Mesopotamia. Un "no", ad ogni modo, non vincolante, che rimette la questione all'Assemblea in seduta plenaria.

SI SALVI CHI PUO' - Dunque, una Casa Bianca allo sbando e una nazione alla deriva, priva di un capitano abbandonato, ormai, anche dai suoi compagni di partito: Arlen Specter (Commissione Giustizia), John Warner (Commissione Forze Armate), Richard Lugar (Commissione Esteri). Tutti hanno preso le distanze, dal più critico, Chuck Hagel - che ha addirittura votato contro quello che definisce "un ping pong con le vite dei soldati americani" - al più menefreghista, il senatore John McCain - probabile candidato di punta alle prossime presidenziali - ripreso varie volte dalle telecamere durante il discorso mentre dormiva.
Con mezzo corpo impantanato in Iraq, l'America potrebbe rischiare di sprofondare nelle sabbie mobili e i quasi due anni rimasti a Bush non promettono nulla di buono. Il fatto di aver pronunciato la parola "Iran" per ben cinque volte la dice lunga sulla sua new exit strategy. Fossi Ahmadi-Nejad sarei preoccupato. Come lo sono i cittadini americani.

martedì 23 gennaio 2007

Dal Molin, l'inadeguatezza della politica estera italiana

Ci sono elementi della politica estera di uno Stato che dovrebbero essere condivisi da tutte le forze politiche interne ad esso da esulare dagli interessi particolari dei singoli e dalle ideologie dei partiti. La scelta di fondo del sistema istituzionale è senza ombra di dubbio l’elemento principe, immediatamente seguito dalle scelte di politica estera. Oggigiorno non esiste Stato che possa considerarsi slegato dal contesto internazionale: essi hanno ormai delegato parte delle loro prerogative ad organismi sovranazionali. Non esiste più, quindi, una sovranità assoluta, ma un sistema complesso di interdipendenze, allo stesso tempo volontarie e obbligatorie.
Durante la guerra fredda, l’Italia è forse stato il paese che meglio ha compreso l’esigenza di dar vita a tali relazioni, in quanto intrinsecamente debole e non preparato ad affrontare le sfide di un mondo globalizzato.
Ha saputo, cioè, trasformare quella condanna in virtù, tanto che per molto tempo i diplomatici di mezzo mondo hanno definito la nostra politica estera “della moglie americana e dell’amante araba” nonostante il fatto che “l’amante fosse poco fedele e molto costosa e che la moglie facesse la gelosa salvo poi sfruttare la stessa relazione extra-coniugale per i propri interessi”. Nel mutato contesto internazionale, però, la tresca è definitivamente saltata: l’amante è stata praticamente abbandonata e la moglie è diventata nel frattempo sempre più esigente, acida, dispotica e non tollerante nei riguardi delle scappatelle.
La cosa grave è, però, rappresentata dal fatto che una grossa mano affinché si verificasse tutto questo è stata data dall’odierna classe politica.
Durante i cinque anni del governo Berlusconi ci siamo imbarcati in due guerre al di fuori di ogni legittimità internazionale, buttando nella pattumiera quanto di buono – poco per la verità, ma è un altro discorso – era stato fatto in precedenza.
Perché? Non sarebbe forse stato meglio fare gruppo con gli altri grandi paesi europei contrari a queste guerre e costringere gli Stati Uniti a non agire unilateralmente? O, perlomeno, ad agire su basi diverse?
Cambiato il governo non è, quasi per niente, cambiata la nostra linea. Solo per fare un esempio, nella guerra israeliana di aggressione al Libano quest’estate abbiamo mantenuto un basso profilo e si sono anche levate voci a difesa di Tel Aviv. Solo dopo la distruzione del Paese dei Cedri e la morte di 1300 civili abbiamo inviato i nostri uomini, essenzialmente per difendere i nostri interessi commerciali. Non era meglio difenderli prima, chiedendo a gran voce l’immediato stop delle operazioni al regime sionista, pena la rottura delle relazioni commerciali e diplomatiche o l’interruzione dell’accordo di cooperazione militare firmato dal governo Berlusconi nel 2004?
A causa delle incertezze della guerra, infatti, l’Italia ha perso il suo primato trentennale di principale partner commerciale di Beirut e, secondo i dati diffusi dall’ICE e dalle dogane libanesi, nei primi nove mesi del 2006 abbiamo esportato beni per 494 milioni di dollari, un terzo in meno rispetto allo stesso periodo del 2005, con una quota di mercato ormai ridottasi al 7,4%. Il risultato è che siamo scesi al quarto posto tra i partner commerciali del Libano, dopo Stati Uniti, Francia e Cina. Senza contare che abbiamo quasi 3000 soldati impegnati nella missione Unifil 2 (United nations interposition force in Lebanon) che costano ai cittadini svariati milioni di euro all’anno. Ma questa è ormai storia.
In questi giorni, la questione dell’ampliamento della base militare americana di Vicenza ha portato nuovamente alla ribalta tutta l’incoerenza e la contraddittorietà della politica estera italiana e del relativo dibattito.
Dicevamo che la politica estera di un paese dovrebbe prescindere dalla litigiosità delle fazioni e dei partiti politici per essere, al contrario, incanalata verso la realizzazione degli interessi nazionali. In Italia succede, invece, che episodi di questo genere vengono utilizzati ed abilmente strumentalizzati a fini di politica interna. E ciò è vero tanto da destra quanto da sinistra.
La condotta di politica estera è, infatti, il biglietto da visita con cui presentarsi al di fuori dei nostri confini nazionali. L’Italia dei “giri di valzer” – come venivamo definiti a causa della nostra inclinazione a “voltare faccia” e ribaltare le alleanze anche durante lo svolgimento delle guerre - così facendo lascia il posto ad un interlocutore non più solo inaffidabile, ma semplicemente inesistente. Rischiamo, così, di non cogliere i vantaggi che possono derivarci nei prossimi due anni dal sedere al Consiglio di Sicurezza ONU, pur se solo da membri non permanenti.
Che ruolo speriamo di giocare per questa via? Quello di spalla all’amministrazione americana più arrogante e prepotente della storia? Speriamo davvero di preservare così i nostri interessi nazionali? Oppure il governo spera di cavarsela dichiarando che la base “Dal Molin” ha un influsso benefico sull’economia vicentina grazie all’indotto creato e ai posti di lavoro garantiti? Spero proprio di no, anche perché forse Prodi ignora che, al contrario, le basi americane sul nostro suolo ci costano (non a lui, ma a tutti noi) più di 300 milioni di euro all’anno, come costi diretti di contributi all’amministrazione di Washington, senza contare gli oneri indiretti (opere di urbanizzazione, sgravi fiscali sulle utenze, etc.) e le cosiddette “esternalizzazioni negative”, quali inquinamento, dissesto del territorio, malattie e tumori insorti tra la popolazione (si pensi ad Aviano). È uno dei pochi casi in cui l’indennizzo lo paga non chi occupa un terreno, ma chi se lo fa occupare. Ma il paradosso non finisce qui: solo per rendere l’idea della gravità, diamo agli americani, come ricompensa per le loro basi sul nostro territorio, la metà di quanto spenderemo nel 2007 per la cooperazione allo sviluppo.
Ma andiamo avanti: si fa un gran parlare, a volte senza neanche averne nozione, del fatto che gli Stati Uniti siano nostri alleati. Da che mondo è mondo, le alleanze si stipulano con il per nulla velato scopo di avere dei partners a livello internazionale con i quali gestire le complessità del mondo globalizzato e perseguire i propri interessi nazionali, tanto nel breve quanto nel lungo periodo. In poche parole, quando si dice “alleato” si pensa ad un soggetto - in questo caso uno o più Stati - al quale si garantisce un determinato comportamento, o al quale dare comunque qualcosa, in cambio di una reciprocità evidente. Se si agisce, invece - come del resto si è fatto per tutti i sessanta anni di storia della nostra Repubblica - dando tutto senza ricevere nulla in cambio, allora non si può parlare di alleanza. Definiamola schiavitù, sudditanza o come la si vuole, ma smettiamo di dire che gli Stati Uniti sono nostri alleati, dal momento che non hanno mai garantito la reciprocità del loro comportamento nei nostri confronti, se non quando per loro era totalmente ininfluente. Non possono, quindi, essere definiti nostri alleati. Sono, a ben guardare, i nostri padroni.
Personalmente non darei mai il consenso all’ampliamento, anzi lavorerei per lo smantellamento immediato di tutte le basi Usa sul nostro territorio, negando, inoltre, qualsiasi tipo di servitù militare (compreso l’uso dello spazio aereo a qualsiasi titolo) al governo di Washington.
Ma se vogliamo essere realisti, purtroppo questa è una soluzione che tutti sappiamo essere non praticabile. È necessario, allora, fare di necessità virtù: diamo il consenso all’ampliamento, ma pretendiamo con forza un reale impegno americano alla sistemazione definitiva del problema mediorientale. Solo loro sono in grado di fare pressioni su Israele e costringerla a rivedere la propria politica di ghettizzazione dei palestinesi. Il ruolo italiano nel Mediterraneo e nel mondo intero ne uscirebbe definitivamente legittimato, con grandissimo guadagno del nostro paese sotto tutti i punti di vista. Questa è la mentalità con cui si porta avanti una linea di politica estera. Non aggredendo, non minacciando, non usandola come arma di convenienza verso l’opposta fazione politica e non subendo passivamente decisioni altrui sulla propria sovranità, ma semplicemente agendo da “alleati”.

mercoledì 17 gennaio 2007

La guerra civile palestinese

Per spiegare cosa veramente succede in Palestina è necessario fare un passo indietro, precisamente al gennaio 2006.
In questa data Hamas ha stravinto le elezioni politiche, sorvegliate da una miriade di osservatori internazionali e ritenute, almeno fino a che non sono stati resi noti i risultati, perfettamente regolari. Anzi, le più regolari della storia del medioriente. Purtroppo, però, oggigiorno essere eletti democraticamente non basta più. È necessario, piuttosto, stare dalla parte di coloro che pretendono di disegnare democrazie “su misura”.
E così, Stati Uniti e Unione Europea hanno congelato i fondi destinati ai palestinesi, provocando una paralisi che dura ormai da un anno. Si deve pensare, infatti, che gli impiegati dell’amministrazione (e, ancor più grave, i medici negli ospedali) non ricevono lo stipendio da nove mesi e hanno dovuto dar fondo ai risparmi di una vita per sopravvivere (loro che almeno qualche risparmio lo avevano). Non solo: Israele ha tagliato a Gaza e in parte dei Territori – eh già perché dove ci sono i coloni non è successo - persino l’acqua e la corrente elettrica.
Il popolo palestinese ha continuato a lottare – perché mai si piegherebbe al volere imperialista che lo costringe alla fame nel tentativo di imporre il cambio di un governo che ha legittimamente e democraticamente eletto - e a resistere a tali ignobili atti. La situazione è degenerata quando il Presidente dell’ANP, Abu Mazin – esponente di al-Fatah, la fazione opposta ad Hamas - nel tentativo di imporre un governo di unità nazionale (leggi ribaltone), ha minacciato di indire nuove elezioni.
Visti l’oscurantismo, la censura e le falsità che si leggono sui giornali occidentali (a proposito bandite l’inviato del tg1 a Gerusalemme dall’ordine dei giornalisti!) riporto alcuni passi delle testate della regione.
Secondo Amin, sito web d’informazione palestinese, la decisione di Abu Mazin di annunciare elezioni anticipate, sia presidenziali sia politiche, rischia di avere effetti devastanti. Gli scenari possibili sarebbero due: nel primo Hamas boicotta il voto e non ne riconosce i risultati; nel secondo mette da parte le riserve e decide di partecipare. In entrambi i casi, la capacità dei palestinesi di resistere all’occupazione israeliana risulterebbe indebolita dal voto.
Più critico verso la fazione del premier Haniyeh è il quotidiano di Ramallah Al Ayyam, secondo cui il doppio rifiuto - delle elezioni e di un governo di unità nazionale - dimostra la determinazione di Hamas a rimanere al potere mentre il popolo palestinese soffre per le conseguenze dell’embargo.
Anche il quotidiano panarabo a Londra Asharq al-Aswat attacca Hamas per il cinismo e la mancanza di senso dello stato, caratteristiche che stanno cancellando la simpatia e la comprensione che la causa palestinese riscuote tra gli arabi e nell’opinione pubblica internazionale.
Assai critico verso la scelta di Abu Mazin sulle elezioni – ritenute una soluzione destinata a non metter fine alle sofferenze dei palestinesi - è invece Al Hayat, altro giornale britannico in arabo. Il quotidiano è attento anche alle conseguenze della crisi a livello regionale: secondo i calcoli dei paesi vicini e delle potenze internazionali - scrive - la questione palestinese è diventata la porta d'ingresso per risolvere i problemi del Medio Oriente, senza però che i palestinesi ne possano trarre alcun vantaggio.
Il quotidiano libanese in lingua inglese Daily Star giudica la crisi dell'autorità palestinese "triste ma non sorprendente" e prevede che l'instabilità e l'ingiustizia che regnano in Palestina contageranno anche i paesi vicini. Per il futuro, le previsioni sono improntate al pessimismo: Striscia di Gaza e Cisgiordania finiranno come la Somalia, il Libano o l'Iraq.
Non è d'accordo il giornale saudita Arab News, secondo il quale “Malgrado gli scontri - scrive - la situazione non è ancora quella di una guerra civile. È necessario però che si facciano avanti personalità nuove e dai nervi saldi per mettere fine a una crisi che non è certo cominciata per colpa di Hamas”.
Di guerra civile parla, invece, senza esitazioni la stampa israeliana. “I palestinesi non si trovano sull'orlo di una guerra civile - scrive il conservatore Yedioth Ahronoth - perché ci sono già dentro fino al collo”. Per impedire l'aggravarsi degli scontri è essenziale che Israele, Egitto, la Giordania e la comunità internazionale uniscano le forze per alleviare le sofferenze dei palestinesi, senza però rafforzare il governo di Hamas. (E ti pareva… - NdA).
Anche il giornale di Gerusalemme Ha'aretz sostiene che la guerra civile è già cominciata, ma con toni decisamente più realistici ed opportuni. Il giornale progressista, infatti, ritiene che Hamas si sia rafforzato grazie ai problemi di Al Fatah - da tempo in posizione di debolezza - ma fa dipendere la crescente radicalizzazione dei palestinesi soprattutto dall'atteggiamento dei politici israeliani, che hanno interpretato gli accordi di Oslo come l'autorizzazione ad allargare gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

martedì 16 gennaio 2007

Nessuna ammissione

Se si analizza con attenzione ciò che accade in questi giorni, risulta lampante che il famoso “gruppo di studio per una strategia d’uscita dall’Iraq” non è altro che una caramella servita per addolcire l’opinione pubblica americana e mondiale. Esso era stato appositamente confezionato secondo un’ottica trasversale e pubblicizzato come imparziale (grazie alla guida bipartisan di un repubblicano e un democratico, rispettivamente Becker ed Hamilton) allo scopo di mostrare la bontà del tentativo e calmare l’umore della gente.
È evidente, però, che il discorso alla nazione pronunciato dal presidente Bush va verso un’altra direzione.
Molti hanno scritto e fatto notare che Bush ha ammesso i suoi errori e quelli dell’amministrazione neocon, la più arrogante e conservatrice della storia americana. No – dico io – Bush ha solo ammesso di aver sbagliato a prevedere il numero dei soldati necessari da inviare in Iraq, per la precisione 21500 in meno. Solo questo ha ammesso.
Non che l’invasione di un paese sovrano è, secondo le leggi internazionali, sbagliata; non che, nel caso di specie, aggredire l’Iraq giustificandosi con enormi bugie – le armi di distruzione di massa, il collegamento con l’11/9 e le connivenze con al-Qaeda – è non solo un errore, ma anche un crimine internazionale. Così come è un crimine internazionale – precisamente contro l’umanità – l’utilizzo (stavolta si) di armi terribili e vietate quali il fosforo bianco a Falluja. E, invece, no: l’unico errore che Bush ha esplicitamente ammesso e collegato direttamente alla sua condotta è il numero dei soldati inviato.
Ammettere i propri errori significa, innanzitutto, cercare di ovviarvi. E Bush non sta ovviando a niente. Ignorando anche quello che poteva essere ritenuto l’unico elemento rilevante del rapporto Becker-Hamilton, ossia la necessità, prima ancora che l’opportunità, di inserire, quale condicio sine qua non, Siria e soprattutto Iran nel processo di pacificazione dell’Iraq. Perché è a Teheran che si gioca la partita decisiva nello scacchiere mediorientale.
Che Teheran aspiri ad ottenere il rango di prima potenza regionale è evidente e dichiarato. Che questo rango non possa prescindere dal possesso dell’energia nucleare è un fatto innegabile. Oppure dal disarmo nucleare simultaneo di tutti i paesi della regione che hanno nel loro arsenale testate atomiche, Israele e Pakistan.
La decisione di Bush di riaprire una guerra che aveva dichiarato vinta già quattro anni fa, nonostante il parere contrario della maggioranza dell’opinione pubblica e del Congresso, non è un’ammissione di errore. È solo un ulteriore errore.
Un esercito regolare, per quanto numeroso e tecnologicamente superiore, non può vincere in uno scontro asimmetrico. Non può debellare una guerriglia asserragliata in una metropoli come Bagdad. Semplicemente la guerriglia resterà acquattata per qualche tempo, in una sorta di letargo, al fine di far passare la tempesta e riproporsi, in maniera peggiore, al primo baglior di sereno. Con l’aiuto del popolo che, nel frattempo, avrà subito atroci sofferenze.
Si può anche ipotizzare, però, che Washington non rigetti del tutto la possibilità di un negoziato con la repubblica degli Ayatollah. Ma ha bisogno di “alzare la voce” per rendere possibile il negoziato su basi accettabili. È, però, evidente che non può decidere unilateralmente e dovrà giocoforza tener conto degli altri attori internazionali: Israele, Russia, Ue, ma anche Cina e India.
L’Occidente europeo ed europeizzante (quella parte dell’opinione americana, cioè, che non sostiene più Bush e la sua politica) non ha alcun interesse ad una clamorosa sconfitta Usa in Medio Oriente che fornirebbe al terrorismo un impatto formidabile nella regione, con ripercussioni inimmaginabili in termini di destabilizzazione sociale nel nostro continente.
Ma l’Europa, al contempo, non ha neppure alcun interesse a favorire una politica di guerre a catena, una più rischiosa e coinvolgente dell’altra. Questa nostra vecchia Europa sarà anche vile, come la tacciano di essere i neo-conservatori di qua e di là dell’Atlantico, ma sa bene che in tali scenari è meglio muoversi con tutte le precauzioni del caso e potrebbe trarre da questo ruolo una decisiva spinta verso una maggiore integrazione politica, di cui, proprio nella questione irachena, si è sentita una forte mancanza.
Qualunque sia lo scenario futuro, l’ipotesi di un mondo unipolare, di un’unica forza egemone e guardiana degli assetti globali, è ormai definitivamente tramontata. Prima ancora di essersi compiutamente attuata.

domenica 14 gennaio 2007

Deliri appena sveglio

Domenica mattina...beh mattina non tanto, visto che sono le 13. Mia madre mi viene a svegliare ed io a stento, dopo le "fatiche" del sabato sera, riesco ad aprire gli occhi. "Sono le 13 è quasi pronto...mangi?". Le sue parole vengono coperte da quelle dei titoli del tg5. Berlusconi critica la sinistra (facile saprebbe criticarla chiunque!) per la sua politica estera affermando che la coalizione attualmente al governo "strizza l'occhio ad Hizbullah e va contro gli Stati Uniti ed Israele, ultimo avamposto della democrazia in medioriente".
Salto fuori dal letto e comincio ad inveire. Di tutte le stupidaggini che ho sentito dire a Berlusconi negli, ormai, ultimi tredici anni, questa è di gran lunga la peggiore. Come si fa a dire che Israele è un paese democratico? Ma, poi, come fa lui a criticare o solo a parlare di politica estera?
Nei cinque anni in cui è stato al governo, la sua è passata alla storia come la condotta in politica estera peggiore degli ultimi sessanta anni, ossia da quando l'Italia è una repubblica. Da un giorno all'altro il signor "mi consenta" ha stravolto quella che era la linea storica della politica estera italiana, sempre preoccupata di colmare quel vuoto esistente tra l'alleanza atlantica e l'enorme influenza di cui il nostro paese godeva nel bacino del Mediterraneo.
Per dirla con le parole di Harold Nicolson [1] (che Berlusconi sicuramente ignora) "lo scopo della politica estera italiana è sempre stato quello dell'acquisizione sul terreno diplomatico di un'importanza maggiore di quella che possa esserle assicurata dalla sua potenza reale. Essa è pertanto l'antitesi del sistema tedesco (o statunitense, aggiungerei), perché invece di basare la diplomazia sulla potenza, basa la potenza sulla diplomazia". Insomma, non certo una macht-politik [2], quanto piuttosto una real-politik. Concetti che sicuramente Berlusconi non ha mai avuto il piacere di comprendere, visto che con lui al governo abbiamo abbandonato la diplomazia e ci siamo appiattiti sulla politica di potenza a stelle e strisce.
Cercherò di spiegarmi meglio. Dopo la seconda guerra mondiale, la politica estera italiana si è dovuta basare su un'inestricabile dicotomia: siamo costretti ad assecondare i nostri alleati atlantici (cosa che ci conviene pure) ma, al contempo, abbiamo bisogno - per diversi motivi, in primis la necessità dell'approviggionamento energetico - di mantenere il nostro status di paese faro nel cosiddetto mare nostrum (un potenziale bacino, contando i soli stati rivieraschi, di 400 milioni di individui).
Purtroppo per noi, le due cose non coincidono, neanche convergono, anzi, sono proprio agli antipodi. Per sessant'anni, abbiamo dovuto fare di necessità virtu e ci siamo riusciti anche bene - nonostante abbiamo dovuto sopportare la presenza di basi e armi atomiche, aspettare più di 10 anni per l'estradizione della Baraldini, subire 20 vittime innocenti sul Cermis, per l'idiozia di 2 piloti che giocavano a fare i top gun, e, come se non bastasse, l'omicidio impunito di Calipari (la lista è assolutamente esemplificativa e potrei continuare fino allo sfinimento).
Come si permette, quindi, costui a parlare di politica estera? Parlasse di economia che almeno a fare i soldi, o meglio a rubarli, è sicuramente un esperto. Costui che si reca a Camp David e con un inglese talmente stentato, da risultare quasi incomprensibile, riesce a dire che "Considero la bandiera degli Stati Uniti non solo la bandiera di un paese, ma un messaggio universale di libertà e democrazia", ricevendo perfino i complimenti - del tutto gratuiti, e probabilmente anche perculativi - del suo dirimpettaio, l'inquilino della Casa Bianca ("his english is very good!").
La politica estera italiana deve, finalmente, tornare ad imboccare il binario della diplomazia e del dialogo, della condanna ad azioni ignobili e immorali, quali la pena di morte, e alla strenua opposizione ad atteggiamenti unilaterali come la guerra preventiva e di aggressione. Il nostro esercito non ha niente a che vedere con i "rambo" americani, tutto muscoli, poco cervello e cuore assente. Al contrario, siamo dotati di professionisti che possiedono una grande umanità e sono in grado di rapportarsi nella giusta maniera a contesti culturali molto diversi dal nostro. Sono uomini che non torturano altri uomini e non pisciano sul Corano dei detenuti di Guantanamo e Abu-Ghraib. Sono persone civili che danno lustro ad una nazione civile. E con i due anni a venire, nei quali siederemo al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, sia pur da membri non permanenti, avremo l'occasione di rafforzare quel ruolo che a lungo ci è appartenuto. Con buona pace di Berlusconi.
Spenderò, infine, solo poche parole - tanto merita - per la questione della "democrazia" israeliana. Che possiederà sicuramente istituti democratici e libere elezioni, ma è avvezza, al contempo, ad un comportamento che potrebbe contendere la poco felice fama di criminali ai gerarchi nazisti.In conlusione, allora, una foto scattata a Cana (villaggio già simbolo nel '96 del martirio libanese) per rendere l'idea della magnificenza della "democrazia" israeliana, che ha avuto occasione di ricordarci quest'estate quanto sia alto il suo senso della vita umana.
Note
[1] H.Nicolson, Storia della diplomazia, Il Mulino, 1967.
[2] Per la politica di potenza vedere R.Aron, Macht, Power, Potenza: prosa democratica o poesia demoniaca?, Il Mulino,1992 e H.J.Morgenthau, Politica tra le nazioni. La lotta per il potere e la pace, Il Mulino, 1997.

sabato 13 gennaio 2007

Il potere della chiesa cattolica

Stavo controllando un attimo la posta elettronica, giusto prima di andarmi a docciare e uscire, e ho notato la newsletter di Beppe Grillo con il link ad un post: una lettera del Papa al noto comico. Trattandosi di queste cose, non sono riuscito a trattenermi e ho inviato un commento. Lo riporto interamente.

Sono d'accordo (con uno dei commenti dei lettori - NdA)...questi signori dovrebbero capire che non sono graditi tra persone civili. Per secoli hanno rubato, ucciso, impedito al nostro paese uno sviluppo decente.
È indelebile nella storia che hanno favorito l'accesso, con la scusa della religione, a qualsiasi sorta di potenza straniera ogni qualvolta uno dei piccoli staterelli, di cui era formata l'Italia, diveniva abbastanza grande da minacciare il loro potere temporale. Hanno ritardato il nostro sviluppo industriale perché, al contrario dei protestanti, consideravano il prestito come usura...e tutti sappiamo che senza prestiti non si può investire (leggere indicativamente Max Weber "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo").
Una volta divenuta nazione unitaria, nonostante si fossero strenuamente opposti, sono riusciti ugualmente a cavarsela fornendo appoggio al regime fascista e ricevendo in cambio (patti lateranensi del '29) legittimazione, immunità e immense rendite - che noi tutti continuiamo a pagare. Dopo la nascita della Costituzione, che sancisce a chiarissime lettere la laicità dello Stato, hanno approfittato della guerra fredda e dello spauracchio comunista per consolidare il loro potere.
E continuano ancora oggi, con metodi sopraffini, ad ingerire nella vita pubblica e, ahinoi, a dominare la politica italiana. Fino a negare, con argomentazioni scandalose, non la parità delle coppie di fatto con quelle sposate, ma semplicemente alcuni diritti fondamentali a chi si astiene dal matrimonio.
Se noi non possiamo fare nulla, però, è colpa di chi ci governa. Noi che siamo italiani e dovremmo interessarci a ciò (la nostra libertà) non siamo in grado di capire.
Ha capito benissimo, però, il corrispondente del Time in Italia, nonostante sia solo dal '98 che vive nella nostra cara penisola. Invito a leggere il suo impeccabile articolo su Internazionale di questa settimana.

venerdì 12 gennaio 2007

giovedì 11 gennaio 2007

Quando lo stato d’emergenza giustifica la violazione del diritto

L’effetto meno pubblicizzato dell’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 è, forse, costituito dalle misure eccezionali, varate dalla “dottrina Bush” del 2002 e giustificate sulla base dello stato di emergenza che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare in virtù della guerra globale al terrorismo portata avanti dall’amministrazione neocon a stelle e strisce.
Conseguenza di ciò è stato un progressivo ampliamento dei poteri del Presidente, che ha inevitabilmente portato ad un’erosione di quelli del Congresso, alla compressione dei diritti costituzionali e alla “reinterpretazione” delle norme internazionali.
La strategia giuridica della Casa Bianca aveva, infatti, permesso all’esecutivo di emanare ordinanze con le quali si istituivano commissioni militari – incaricate di processare i detenuti di Guantanamo al posto delle normali Corti Marziali, in barba a tutti i principi del due process of law – e di considerare i presunti terroristi catturati in Afghanistan come non rientranti nelle due categorie previste dalla III Convenzione di Ginevra - che codifica tra l’altro il diritto internazionale e si configura per questa via come jus cogens: quelle dei civili e dei combattenti legittimi o illegittimi.
Tale posizione ha, così, inferto un durissimo colpo al fondamentale principio di separazione dei poteri, permettendo al Presidente Bush di arrogarsi arbitrariamente poteri che, per espresso ed esplicito volere della Costituzione, spettano al Congresso.

LA SENTENZA DI GIUGNO - Per fortuna a giugno 2006 una sentenza della Corte Suprema – la seconda [1] in due anni – ristabilendo la supremazia del diritto e riaffermando il principio per il quale in una situazione di emergenza devono essere rispettati non solo i principi inderogabili dell’ordinamento costituzionale, ma anche le norme internazionali universalmente riconosciute, bocciò tale strategia e costrinse l’esecutivo a tornare al Congresso (in cui i Repubblicani avevano una solida maggioranza) per ricevere l’esplicito mandato a processare i detenuti di Guantanamo davanti ai tribunali militari.
La maggioranza dei giudici (5 contro 3 – il presidente John Roberts si astenne dal votare perché aveva già avuto occasione di esprimersi sulla questione) delineò, infatti, le seguenti motivazioni:

- l’istituzione di “Commissioni militari” è illegale perché esse, tra le altre cose, pongono in essere una violazione gravissima delle garanzie dovute agli accusati, non permettendo loro di esaminare le prove, di contestarne la validità o l’attendibilità e di produrne in propria difesa;
- se per l’amministrazione la guerra al terrorismo sfugge a certe norme internazionali perché al-Qaeda non è uno Stato e non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui prigionieri, per la Corte essa è pienamente applicabile, dal momento che all’articolo 3 menziona espressamente i “conflitti armati non internazionali”, in cui una parte (per esempio i ribelli) non abbia sottoscritto le Convenzioni, e richiede che i processi siano comunque svolti davanti alle corti regolarmente costituite (e non speciali) con l’obbligo di accordare tutte le garanzie previste;
- infine, i giudici pongono l’accento sul fatto che la non corrispondenza dell’accusa di conspiracy (complotto) come crimine di guerra nel diritto internazionale potrebbe creare precedenti e dare il via a prassi pericolose.

A giudicare dalle motivazioni individuali – che nei sistemi di common law ricevono uno spazio maggiore rispetto a quelle dei giudici operanti in sistemi di civil law – per la Casa Bianca sembrò trattarsi di una sentenza pesantissima.
Per il giudice Stevens “l’istituzione di un processo da parte di una commissione militare solleva dubbi del più alto livello sulla separazione dei poteri”; fece da eco il giudice Kennedy, secondo il quale “la concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo espone la libertà personale al pericolo dell’azione arbitraria dei pubblici ufficiali, un’incursione che la separazione costituzionale dei poteri in un triplice sistema è designata proprio per evitare”.
Parole dure, come quelle che erano espresse nelle motivazioni dei giudici di minoranza: per il giudice Thomas, infatti, “quella della maggioranza è una decisione pericolosa che danneggia gravemente la capacità del Presidente di affrontare e sconfiggere un nemico nuovo e mortale” [2].
Coloro che vedevano questa sentenza come il colpo mortale al lager di Guantanamo, anche grazie alle numerose pressioni – tra cui quelle di D’Alema nella sua prima visita alla Rice in qualità di Ministro degli Esteri del governo Prodi- giunte ultimamente a Washington da ogni parte del mondo, hanno dovuto ricredersi.
Se, da un lato, era chiaro che l’opera di demolizione avviata dalla Corte Suprema contro il sistema arbitrariamente messo in piedi da Bush e soci sarebbe stata sicuramente portata avanti, dall’altro, c’è chi sosteneva [3] che la sentenza non avrebbe scalfito il potere del Pentagono di tenere lì i prigionieri. E del resto, lo stesso Bush, dopo le pressioni ricevute, si era affrettato a dichiarare, in occasione del suo viaggio a Vienna per il vertice Usa-Europa, che anche lui voleva la chiusura del carcere, tranne poi smentirsi (non è la prima volta) affermando che “siamo in guerra, non chiuderemo mai Guantanamo”[4].
Insomma, era chiaro che l’imposizione della strategia americana sarebbe comunque andata avanti.

LA LEGGE – L’ultimo capitolo è stato scritto il 17 ottobre, con la firma del Military Commission Act da parte di Bush, in quello che ha definito come “un giorno storico”.
Fortemente voluta dalla Casa Bianca, la nuova legge ha subito durissime critiche da parte dell’opposizione democratica e creato dissensi anche fra i repubblicani, al punto da rendere faticoso l’iter di approvazione. La normativa istituisce delle Commissioni militari, ossia dei tribunali speciali (quelli, appunto, dichiarati illegali dalla Corte Suprema) per i processi dei detenuti di Guantanamo, e convalida tutte le “procedure alternative”, ovvero gli interrogatori in segreto e senza garanzie fatti dalla Cia. In una parola: TORTURA.

Note
[1]
La prima, del giugno 2004, stabiliva l’illegittimità della detenzione dei prigionieri senza limite di tempo e senza concedere loro un processo.
[2] Fonte: repubblica.it.
[3] Alan M. Dershowitz, uno dei più noti avvocati americani, professore di legge alla Harvard University e considerato uno dei più grandi difensori dei diritti individuali.
[4] Fonte: The economist, 24-30 giugno 2006.

venerdì 5 gennaio 2007

Lezioni di geopolitica

Questo post è un estratto di una lettera inviata alla rubrica di Sergio Romano sul Corriere della Sera dopo aver letto uno scandaloso articolo sul giornale medesino. Lettera, ovviamente, MAI pubblicata e alla quale, nonostante la mia esplicita richiesta, non ho MAI ricevuto risposta.

Sono assolutamente indignato, in quanto profondo amante della verità, per un articolo apparso a pag. 10 del Corriere della sera l’11 gennaio 2006 a firma di Niall Ferguson il quale, nonostante il posto di grande prestigio che occupa (insegnante di storia alla Harvard University), dimostra di avere una concezione dei fatti decisamente di parte e di ignorare molte cose. O, perlomeno, di volerle deliberatamente ignorare. Fantasioso paragone tra rivoluzioni enormemente diverse a parte, nell’articolo si afferma che “l’Iran è oggi sul punto di diventare la maggior minaccia per la democrazia nel mondo” e che “dato che sono tra i maggiori produttori di petrolio al mondo, questa corsa all’energia nucleare” (a scopi civili) “è un po’ sospetta” perché “certamente non è dettata dal desiderio di combattere l’effetto serra”. Ciò che il sig. Ferguson dimentica (o forse evita accuratamente di dire) è che oggi, per la maggior parte dell’opinione pubblica mondiale, la più grande minaccia per la pace e la democrazia sono proprio gli Stati Uniti e la sua amministrazione, che per il petrolio mediorientale si è andati a sconvolgere una zona del mondo già di per sé travagliata e che i primi a non considerare il protocollo di Kyoto sono proprio gli americani (manco a farlo apposta i più grandi inquinatori del globo).
In secondo luogo, si parla di “Piano B” per indicare che, dopo i falliti tentativi della diplomazia europea (il “Piano A” o “carota”, come si definiscono tali tentativi), il passo successivo è rappresentato dal ricorso all’ONU (o “flaccido bastone”), destinato anch’esso a fallire perché necessita della richiesta dei 35 paesi dell’ AIEA e dell’approvazione successiva dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Anche qui, però, non si accenna minimamente al fatto che l’ONU è divenuto un “flaccido bastone” proprio perché coloro che maggiormente avrebbero potuto dotarlo di una solida rilevanza internazionale hanno sempre, nei momenti a loro convenienti, fatto di tutto per renderlo ciò che esso, ad oggi, si ritrova ad essere. Per fare un esempio relativamente recente, Colin Powell, in occasione della risoluzione 1441 sull’Iraq, si trovò a commentare che “Washington potrà consultare altri membri del Consiglio, ma non avverte la necessità di ottenere la loro approvazione” (citato da Julia Preston in New York Times del 18 ottobre 2002): a quanto pare tutte le difficoltà riscontrate dal sig. Ferguson sono da definire secondo un’ottica ben diversa…Non a caso, gli Stati Uniti hanno sempre disatteso norme internazionali e sono nettamente in testa alla classifica dei veti posti alle risoluzioni ONU, primato ancor più significativo se si tiene conto che nelle occasioni in cui non hanno fatto ricorso a questa prassi sono comunque riusciti a svuotarle del loro significato principale: basterebbe citare quelle che avrebbero dovuto prevedere pesanti sanzioni per Israele (molte delle quali per violazione del “cuore” della Carta dell’ONU, il paragrafo VII) finite poi in un nulla di fatto. E come giudicare, tanto per fare due esempi, la mancata esecuzione della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 1986 sul Nicaragua (a cui seguì il rifiuto americano di accettare la giurisdizione della Corte stessa) e il mancato riconoscimento, assieme a Israele, Nigeria, Cina e Sudan, della Corte Penale Internazionale? Per rendersene conto è sufficiente leggere un qualsiasi libro di Noam Chomsky (lui si che dimostra di occupare il suo posto con pieno merito) o gli articoli che di tanto in tanto appaiono su alcuni giornali americani, di cui oggi si può facilmente disporre grazie a quel fantastico strumento rappresentato da Internet.
Infine, si arriva a sostenere che americani ed europei avrebbero creduto che “la minaccia iraniana non li riguardasse” e che, anzi, avrebbero “inavvertitamente” rafforzato quel regime islamico, citando una frase di Kissinger – “Peccato non possano perdere entrambi” – datata 1980 quando Saddam scatenò la guerra contro l’Iran (guarda caso dopo la Rivoluzione del 1979). Saddam fu aiutato in quell’occasione, salvo poi vedersi recapitare il conto, proprio perché, al contrario di quanto si sostiene nell’articolo, l’Iran e il suo neo-nato regime islamico rappresentavano già una minaccia da non poter ignorare; e non si trattava, né si tratta, di una minaccia nucleare. Il regime dello Scià (il padre del commensale del sig. Ferguson, citato nell’ articolo) fu insediato da Stati Uniti e Gran Bretagna proprio per controllare tale minaccia; peccato che la Rivoluzione abbia scombussolato i loro piani! Di più: ci si è mai chiesti perché negli ultimi anni l’ amministrazione americana si sia concentrata su paesi come l’ Afghanistan, il Pakistan e l’Iraq? La risposta è semplice: stringere in una sorta di morsa l’ Iran. Non è allora Ahmadi-Nejad ad aspettare “una guerra per indossare i panni sanguinari di Stalin”, bensì i falchi di Washington che sperano di arrivare laddove dal 1979 non sono più potuti arrivare. Consiglierei al sig. Ferguson, pertanto, di leggere il paragrafo a pagg. 99-100 del numero 5/2005 di Limes (interamente dedicato proprio all’Iran) intitolato Teheran ha davvero bisogno del nucleare?, scritto da Maurizio Martellini (professore di fisica e consigliere scientifico della rivista stessa) e Riccardo Redaelli (professore di storia dell’Iran e dell’Asia centrale, oltre che esperto di Medio oriente) . In esso, dopo aver riportato una serie di cifre, si giunge alla conclusione che, producendo energia nucleare ad uso civile, si risparmierebbe una quantità di petrolio il cui valore sarebbe sei volte maggiore di quello impiegato per installare i reattori nucleari necessari a tale scopo. C’è da aggiungere che l’Iran ha registrato negli ultimi anni un forte aumento della propria popolazione e, conseguentemente, un aumento del fabbisogno interno di energia; se si considera che l’economia iraniana è pressoché dipendente dalle esportazioni di greggio, che l’accresciuta domanda interna si è attestata al 40% della produzione totale e che le eccedenze di greggio potrebbero essere immesse sul mercato per sopperire in parte alla forte richiesta cinese, non stupisce che esso voglia dotarsi di impianti per la produzione di energia nucleare. Tanto più che il TNP non vieta - anzi espressamente permette, art.4 – attività di questo tipo. Per cui, nessun tipo di violazione palese.
Ahmadi-Nejad è sicuramente un pazzo, ma non è così che lo si può tenere a freno; la sua stessa inaspettata elezione è sintomo palese del fatto che il popolo iraniano preferisce essere governato da un fanatico piuttosto che da riformatori (quali Khatami e Rafsanjani) amici e conniventi di coloro che cercano in ogni modo di ostacolare lo sviluppo democratico naturale di un paese geopoliticamente molto importante.