sabato 26 gennaio 2008

La caduta

* vignetta di Marco Viviani

lunedì 21 gennaio 2008

Scientia dei non indigere

1. Avevo forse 8 anni quando una mia bravissima ed indimenticata insegnante pose alla classe questa domanda: qual'è il contrario di scienza? Probabilmente non si aspettava neanche una risposta, quasi sicuramente era solo un normale intercalare retorico. Ma in quella frazione di secondo tra la sua domanda e la risposta che ella stessa si accingeva a dare, dalla mia bocca uscì una parola: fede. Non ricordo perché diedi quella risposta, ma ricordo la faccia che fece la mia insegnante, decisamente sbalordita nel sentirsi dire quello che lei intendeva da un bambino di 3za elementare. Il concetto era evidentemente già chiaro: mentre la scienza si è data un 'metodo' e in base a questo dà spiegazioni e dimostrazioni inconfutabili (almeno fino a che non si dimostri il contrario), 'credere per fede' vuol dire accettare una verità assoluta senza averla prima appurata. Quel ricordo è rimasto scolpito nella mia memoria e mi ha accompagnato fino ad oggi. E proprio in questi giorni torna alla ribalta, a causa della polemica per il mancato discorso di Benedetto XVI all'apertura dell'anno accademico alla Sapienza. Non è mia intenzione, ovviamente, ripercorrere la querelle di attacchi dell'una e dell'altra parte, bensì spostare il discorso su un altro piano. Perché mi sembra che le verità di papa Ratziger stiano diventando sempre più numerose, e tenendo conto dell'eco che ricevono dai nostri media sarà difficile contestarle tutte. Tra le verità di cui ci sta gratificando da quando è stato eletto, due sono intimamente legate a questo nuovo scontro tra scienza e fede.
La prima afferma che per l'uomo la verità non esiste, che non può per questo distinguere tra bene e male e che il cattolicesimo si pone a colmare questa incapacità, in veste di verità dogmatica - da qui l'evidente attacco al concetto di laicità, parola estremamente odiosa per il Vaticano. La seconda riguarda i rischi che derivano da una scienza che non riconosce la morale e non vuole fare riferimento a dio, rischi che possono giungere fino alla "distruzione dell'uomo e del mondo". L'uomo ha dunque bisogno di verità. Di quale, possiamo immaginarlo.

2. La cultura laica nasce dalla confluenza di molte forme di pensiero che hanno ritenuto necessario affrancare la filosofia e la morale dalla religione positiva, in onore di un innato diritto alla libertà di coscienza e per il progressivo distacco del potere temporale da quello spirituale. Così la naturale evoluzione del pensiero laico si è impostata sul rifiuto della verità rivelata, del dogma assoluto, indicando come priorità la libera ricerca delle singole verità relative. Per usare le parole di Guido Calogero, la laicità è "un metodo di convivenza di tutte le ideologie e di tutte le filosofie possibili, che debbono rispettare, come regola primaria, il principio che nessuno può pretendere di possedere la verità". Tradotto secondo gli schemi della società odierna vuol dire che se qualcuno vuole dimostrare agli altri la fondatezza della propria teoria deve farlo seguendo determinate regole. Altrimenti gli altri hanno il diritto di sostenere che quanto affermato non corrisponde a verità. O perlomeno che non si tratti di una verità assoluta.
Nella polemica di questi giorni è stato più volte sostenuto dai difensori papali - mons. Fisichella in testa - che laicità vuol dire far parlare ed ascoltare tutti, e che non permettendo al pontefice di intervenire si è svilito il senso della parola 'laico' proprio da parte di chi si propugna tale. Mi domando allora perché non si applichi questo concetto alle altre confessioni religiose, che non godono di finanziamenti ed esenzioni statali, non hanno radio e stampa, non possiedono istituti di credito e non sono insegnate, o anche solo accennate, nelle nostre scuole. Senza mettere in dubbio la preminenza della confessione cattolica, mi sembra ovvio, in base al principio sopra ricordato, che anche le altre forme di fede debbano potersi esprimere e che gli stessi cattolici debbano conoscere un minimo delle religioni altrui - se non altro per potersi adeguatamente rapportare all'aumento degli immigrati nel nostro paese.
Ancora: perché - se laicità è libero dibattito - la chiesa non vuol sentir parlare di determinate questioni come l'aborto, la procreazione assistita, la ricerca sulle staminali, l'eutanasia, etc., per le quali si erge ad unico soggetto abilitato a regolarle? Perché, per esempio, Benedetto XVI non accetta un libero dibattito sull'evoluzionismo invece di etichettarlo come uno squallido e degradato prodotto del relativismo moderno?

3. I continui attacchi alla scienza in quanto slegata dalla morale (cattolica) sono un caposaldo dell'azione papale e, quindi, mi sembrano condivisibili i dubbi che i professori della Sapienza avanzavano nella loro lettera al rettore - scritta ad inizio novembre 2007, ma mediaticamente rispolverati solo a metà gennaio 2008. Il pontefice cerca, insomma, di convincerci che la fede è razionale perché la razionalità ha bisogno della fede, ignorando che i postulati e gli assiomi possono avere una loro valenza quando si discute di geometria euclidea, non quando si tratta di stabilire i limiti di un bene per l'umanità. Che la scienza debba avere dei limiti è fuor di dubbio. Ma mi sembra decisamente opportuno assegnare il ruolo di fissare tali limiti alla coscienza comune, una morale collettiva (e non solo di parte) che si forma a seguito di diverse influenze (e quindi anche quella cattolica) e che è certamente sensibile alla intuizione delle conoscenze possibili e dei vantaggi che ne può ricavare una volta accertata l'assenza di rischi significativi. E' necessario insomma che la fede torni ad essere un aspetto (importantissimo, per carità) intimo e privato, ma assolutamente slegato dalla scienza e dalla fissazione dei limiti entro cui essa può ragionevolemente spaziare.
Certamente la laicità considera la fede come un fatto privato, un'esperienza legittima, che non può però pretendere di condizionare le regole di vita dell'uomo come se il criterio ordinatore della società potesse dipendere dalla metafisica e dal soprannaturale. Mi sembra, purtroppo, che la gran parte delle cose che ci vengono spacciate per verità altro non siano che propaganda religiosa, la quale trae la sua forza dall'atteggiamento remissivo della cultura indipendente. Il cittadino ha il diritto di essere difeso da tale propaganda, basata su presupposti gratuiti e surrettizi, ispirati ad un sapere fittizio (che vorrebbe considerare la teologia come una scienza perfetta) e attinti da libri pieni zeppi di clamorosi falsi.
Carlo Augusto Viano, uno dei più grandi maestri della filosofia laica, ha scritto: "Di fronte alla pretesa di imporre a tutti, con mezzi spesso discutibili, comportamenti giustificati da considerazioni di ordine religioso e per giunta spacciati per argomenti razionali, la cultura indipendente dovrebbe avere il coraggio di dire che queste convinzioni private proposte come base per le decisioni pubbliche sono imposture".

mercoledì 16 gennaio 2008

Benazir Bhutto: martire o non martire?

Dopo il suo rientro in patria, un primo attentato e la proclamazione dello stato di emergenza da parte del presidente Musharraf, si avviava probabilmente a stravincere le elezioni. Ora la sua uccisione a Rawalpindi getta il Pakistan nel caos. E si apre il dibattito su di lei: martire per il suo paese o immagine di una democrazia 'all'americana'?

Come al solito non mi trovo in pieno accordo su quello che è stato scritto e detto in questi giorni sulla Bhutto: sulla stampa italiana, infatti, si è provveduto a descriverla come un angelo in terra e come l’ultima svanita speranza per il Pakistan di intraprendere la strada x la ‘democrazia’ (metto le virgolette perché ormai la parola è scaduta a concetto buono x tutte le stagioni). Ma prima di versare lacrime da coccodrillo, è bene ricordare chi fosse questa donna. Sicuramente coraggiosa e testarda, forse martire (aiutata in questo dai precedenti familiari), ma sfacciatamente corrotta e maledettamente assetata di soldi e potere. Perché nel mondo di oggi le cose bisogna saperle. Oppure, visti i mezzi che abbiamo a disposizione, bisogna indagarle con spirito critico e non farsi prendere da facili semplificazioni. E, infine, riportarle chiaramente dando a tutti la possibilità di raggiungere un barlume di verità – sebbene non assoluta. Tralasciando l’accusa di corruzione (si parla di introiti x lei pari a 1,5 miliardi di $) vorrei concentrarmi su quello che ha fatto durante la sua carriera politica attiva. Forse si possono trarre indizi su quello che avrebbe fatto se fosse effettivamente tornata alla ribalta.
Sotto il suo governo (il primo alla fine degli anni ’80, il secondo a metà degli anni ’90) il Pakistan ebbe uno dei periodi di più aperta violazione dei diritti umani che la storia del paese ricordi. La Bhutto era notoriamente legata a doppio filo al regime americano, che intendeva fare di lei un docile pupazzo con cui sostituire l’ex fantoccio Musharraf, il quale, dopo anni di sfrenato servilismo verso gli USA e di appoggio alle loro guerre di sterminio, aveva iniziato a recalcitrare e a voler fare di testa propria. Osannata dai governi occidentali, ma assai poco apprezzata in patria, la Bhutto si era fatta conoscere per le proprie apparizioni ai gran galà politici di Miami, dove si presentava indossando vestiti perfino più succinti e scollati di quelli delle signore del luogo. Il che non è certo un crimine, ma neppure il miglior biglietto da visita per una donna che intenda candidarsi a guidare una nazione di religione musulmana. La sua rivalità con Musharraf era più apparente che reale, variava d’intensità con il variare delle contingenze politiche ed era comunque subordinata all’unico fine che alla Bhutto interessasse veramente: prendere nuovamente nelle proprie mani le leve del potere pakistano.
Di lei perfino il New York Times scriveva: “Il suo comportamento all’epoca in cui deteneva il potere e la danza dei sette veli in cui si è abilmente prodotta al momento del suo ritorno – un momento opponendosi al generale Musharraf, poi dando l’impressione di volersi accordare con lui il momento successivo, senza mai far comprendere le sue vere intenzioni – ha suscitato fra i pakistani non meno sfiducia che speranza”.
Ora, a chi conveniva la morte della Bhutto? Sicuramente a molti, ma non credo solo a Musharraf o al-Qaeda. Tralasciando i terroristi – tanto ormai quando c’è da dare la colpa a qualcuno costoro sono i primi aditati, a volte neanche a torto – mi sembra di poter dire che, tra tutti gli indiziati, Musharraf sia forse quello meno probabile, visto che ormai si trova alle corde, come un pugile suonato, da molto tempo. Sharif (personaggio oscuro) non ha forse tutti questi appoggi tali da permettergli così ampie manovre, ma è indubbio che la morte della Bhutto vada a suo vantaggio e gli permetta in un certo modo (anche se non può ricandidarsi – ma si sa bene che in paesi di questo tipo tutto è possibile) di essere il capo incontrastato dell’opposizione.
Finito qua? Neanche per sogno! Infatti, ovunque vi sia un’azione mirante a creare caos, divisioni e guerra civile, è facile intravedere la mano di altri tipi di organizzazioni. Che ne pensate della CIA, del Mossad e dell’ISI, in una sua parte probabilmente collusa con i terroristi? Una nazione dilaniata dalle lotte intestine è, del resto, molto più facile da tenere sotto controllo di un paese dal potere fortemente accentrato, soprattutto per ciò che attiene agli armamenti militari (penso ovviamente alle testate atomiche).
Ammesso che la mia ipotesi possa solo lontanamente essere accettabile e condivisibile, è certo che se l’intelligence americana e israeliana sperava, con l’assassinio della Bhutto, di dare il colpo di grazia al potere di Musharraf, potrebbe scoprire con rammarico di averlo in realtà rafforzato: egli potrebbe sfruttare la situazione per un’ulteriore giro di vite ai diritti civili e per arrestare e perseguire chiunque sia anche solo lontanamente sospettato di avere legami con i fondamentalisti. Una cosa è certa: con la scusa che il Pakistan e il suo arsenale atomico possano cadere in mano ad al-Qaeda (cosa certamente vera) si assisterà in un futuro molto vicino ad un aumento della presenza militare USA nel paese. Se c’è una verità inconfutabile nella vicenda, probabilmente è proprio questa. Il tempo ci dirà quando, come e perché…

APPROFONDIMENTI:
- Benazir Bhutto uccisa in un attentato, rassegna stampa di Internazionale (27 dic 2007);
- Troppi nemici, rassegna stampa di Internazionale (29 dic 2007).
- Bhutto al servizio dell'Impero, Steve Landman per Z-mag
---> riviste specializzate (in inglese):
- The Destabilization of Pakistan, Michel Chossudovsky - Globalresearch, 2007-12-30
- Pakistan: restore democracy - International Crisis Group [pieno di links]
- After Bhutto's Murder: A Way Forward for Pakistan - International Crisis Group, Asia Briefing N°74, 2 January 2008

venerdì 11 gennaio 2008

L'omicidio politico di Saddam Hussein

Poco più di un anno fa (26 dicembre 2006) l’esecuzione di Saddam Hussein gettava ombre sul processo di pacificazione dell’Iraq. Da allora è sempre più evidente il fallimento di una non dichiarata strategia della vendetta. Dalla ventilata “svolta epocale”, all'”uccisione per procura” decisa dal grottesco remake di Norimberga.

1. La scontata sentenza di morte contro Saddam Hussein, prodotta apparentemente da quella parodia di Norimberga che è stato il suo processo, era in realtà già stata scritta ed eseguita nel dicembre del 2003, quando George Bush, il presidente della nazione occupante, aveva dichiarato alla BBC subito dopo la cattura che soltanto "la pena ultima" (la morte) sarebbe stato il giusto castigo per il "disgustoso tiranno". Caso chiuso e Capodanno con il patibolo.
Non sono serviti tribunali internazionali, giuristi e giudici di peso e di altre nazioni, come fu appunto nel
Processo di Norimberga. La sentenza era già stata depositata a priori. Tutto il resto, il processo con giudici destituiti e cambiati a piacere dall'immaginario governo di Bagdad (se non quando addirittura assassinati), le procedure seguite frettolosamente e fuori dai canoni giuridici internazionali, la sentenza, l'appello farsa che ha richiesto ben 15 minuti di delibere, l'esecuzione, sono pantomime organizzate per dare una parvenza di legittimità giudiziaria alla vendetta finale del vincitore contro il vinto. Nella guerra - insieme globale e privata - che dal 1991 vede in campo Stati Uniti e Iraq (ma senza che mai l'Iraq abbia aggredito gli Stati Uniti) alla fine il clan texano dei Bush ha saldato il conto con il clan sunnita dei Takriti. E il figlio ha potuto vergognosamente esibire la tanto agognata testa del nemico al padre. Nonostante non ce ne fosse alcun bisogno.
Il personaggio Saddam Hussein aveva perso la popolarità anche tra i sunniti iracheni, i quali oggi lo considerano responsabile del loro proprio declino con l'ascesa degli sciiti al governo. Tanto che hanno l'impressione di pagare oggi, come comunità, i crimini del raìs. Ma, nel mondo arabo sunnita in generale, mentre la virtù pedagogica della guerra contro il terrore ha cessato di avere peso ormai da tempo, la democratizzazione del Medio Oriente tanto celebrata dai neocon, non è riuscita a creare un modello alternativo. La trappola irachena funziona inesorabile. Abbattuto il tiranno si è disgregato il paese e la sua condanna alla forca, giustificata ma decisa in modo sommario, lo ha promosso al ruolo di martire e simbolo della rivolta sunnita che ancora continua, alimenta al tempo stesso l'intransigenza sciita che punta su una rapida esecuzione della sentenza. Il trofeo di Bush continua a trasformarsi in un boomerang. Esso prende il nome di guerra civile.

2. Una guerra civile originata da una vittoria americana mancata, e che proprio per questo, in quanto conseguenza della fallita impresa della superpotenza, sta sconvolgendo l'area geopolitica al momento più critica del mondo. Nulla è finito con Saddam sottoterra. Quando George W. Bush definiva l'esecuzione "una pietra miliare", sulla strada della democrazia irachena in gestazione, cercava di dare l'impressione che l'immagine dell'ex raìs alla forca chiudesse un capitolo e ne aprisse un altro. Per questa strada si è andati, invece, verso una situazione tragicamente confusa e irrisolta, dalla quale né lui né i suoi generali sanno in verità come uscire, né hanno un'idea di come andrà a finire.
L'impiccagione di Saddam è stato un episodio della guerra civile e in una guerra civile i giudici non hanno alternative. A Bagdad era come se sulle loro nuche fossero puntate delle pistole. Non che ci fossero dubbi sulla colpevolezza di Saddam. Era un campione dei crimini contro l'umanità. Per il numero di vittime Pinochet gli era di gran lunga inferiore - e comunque è morto nel suo. I giudici di Bagdad non hanno avuto il tempo di esaminare tutti i delitti di Saddam, individuali o di massa. Hanno giudicato la strage del 1982 (143 sciiti uccisi nel villaggio di Jubail), ed è bastata per infliggergli la pena capitale. Non hanno avuto il tempo di passare in rassegna tutte le repressioni ordinate contro i curdi e gli sciiti, che hanno fatto decine di migliaia di morti. Spesso con armi chimiche.
Se George W. Bush avesse voluto un processo regolare, se avesse voluto una giustizia imparziale, avrebbe consegnato Saddam Hussein al
Tribunale Penale Internazionale dell'Aja. Il processo, è vero, sarebbe durato anni e non si sarebbe concluso con una condanna a morte, perché il TPI esclude la pena capitale, ma ci sarebbe stato un dibattimento trasparente, lontano dalle passioni di una guerra civile. L'Amministrazione americana non poteva tuttavia consegnare Saddam a una giurisdizione che essa non riconosce. Gli Stati Uniti, come altre potenze, tra queste la Cina e la Russia, non hanno infatti ratificato il trattato che ha istituito il TPI. Né Washington, né Mosca, né Pechino vogliono correre il rischio di vedere un giorno i propri responsabili sul banco degli imputati. E in tutti i modi non era gradito un processo durante il quale sarebbero emerse le innumerevoli complicità tra Saddam e gli americani, in particolare quando Saddam era il potente rais laico che si opponeva all'islamismo iraniano. Durante la guerra Iran-Iraq, egli rappresentava la grande diga di fronte alla Repubblica islamica di Khomeini. E quando, dopo la prima guerra del Golfo (1991) annientò la guerriglia sciita nel Sud dell'Iraq, gli americani che l'avevano favorita e illusa, lasciarono Saddam agire indisturbato. Di questo non si è parlato nell'aula bunker del tribunale speciale iracheno.

3. Dal punto di vista giuridico, c’è chi ha evidenziato che la legislazione irachena è disorganica e contraddittoria[1]. Inoltre lo Statuto del Tribunale speciale era ed è tuttora volutamente ambiguo in quanto, in materia di pene, rimanda genericamente alla legislazione irachena, e cioè essenzialmente al codice penale del 1969, che tra l'altro non prevedeva affatto i crimini per cui Saddam Hussein è stato giudicato e condannato, e cioè i crimini contro l'umanità. Il susseguirsi di tesi giuridiche diverse circa l'eseguibilità della pena capitale era da leggere in realtà come indice di un grave conflitto politico, in Iraq, tra falchi e colombe - queste ultime evidentemente inclini a rinviare nel tempo l'esecuzione, per paura di gravi ripercussioni sul futuro del paese.
A leggere le norme pertinenti della legislazione irachena, è chiaro che l'approvazione della pena capitale da parte del Presidente Talabani è stata necessaria: la Costituzione irachena del 2005, all'Articolo 70, prevede tra i poteri del Presidente quello di "ratificare" le pene capitali pronunciate "dalle corti competenti", mentre il codice di procedura penale del 1971 e la Costituzione del 1990 assegnavano al Presidente anche il potere di commutare la pena o graziare il condannato (dal 2005 può, appunto, solo approvare o meno la sentenza capitale). Resta il fatto che la pena non può essere eseguita senza il suo assenso. In mancanza del quale, la pena è sospesa o rinviata nel tempo. E' chiaro che si è trattata di una decisione puramente politica, da prendere alla luce di considerazioni relative all'impatto che avrebbe l'esecuzione capitale sulla popolazione irachena e sulla guerra civile in corso, nonché sugli altri Stati. In questo, come in altri casi, il diritto serve dunque solo come pretesto o paravento per scelte politiche.

4. Infine, due considerazioni. Anzitutto, l'esecuzione della condanna ha confermato quanto fosse fallace l'affermazione della Casa Bianca secondo cui l'impiccagione dell'ex dittatore avrebbe dimostrato che oggi la
"rule of law", e cioè lo stato di diritto, è subentrato alla tirannide ("rule of a tyrant"). In realtà le gravi irregolarità del processo, la violazione dei diritti della difesa e l'irrogazione della pena capitale (vietata da tutti i tribunali penali internazionali) provano che ciò non è vero.
Inoltre, uno degli effetti deleteri dell'esecuzione capitale dell'ex dittatore ha permesso la caduta di tutti gli ulteriori processi previsti per imputazioni molto più gravi: dall'uso di armi chimiche contro i curdi iracheni (nel 1988, la campagna denominata ‘Anfal’) a quello delle stesse armi contro l'Iran, nella guerra tra i due paesi (1980-88) – fatto, questo, ammesso dallo stesso imputato nelle ultime settimane, nel corso dell’appello. Un'ammissione che avrebbe dovuto indurre a non interrompere quel processo (in cui è accusato di genocidio) o, meglio ancora, ad aprirne un altro, per crimini di guerra. E, invece, è caduto anche il processo per l'aggressione contro il Kuwait (1990) e l'altro per la repressione delle insurrezioni di curdi e shiiti nel 1991.
In particolare merita questa seconda repressione. I curdi iracheni aiutarono logisticamente (quindi anche con informazioni di intelligence sul territorio) gli americani sia nella prima che nella
seconda guerra del Golfo. Nella prima credettero ingenuamente (forse perché convinti da Bush padre) che gli americani sarebbero arrivati fino a Bagdad e avrebbero destituito Saddam. Il quale, a guerra finita e dopo aver salvato la pelliccia, da buon dittatore che si rispetti infierì su di loro, con i gas forniti negli anni '80 dalla 'democrazia' di Washington. Stessa cosa hanno fatto in questi anni, ma ora possono a buon ragione sperare in un loro stato autonomo, dotato tra l'altro di un'arma che funziona sempre, il petrolio, anche se un Kurdistan iracheno autonomo non va a genio a molti, a cominciare dalla Turchia.
Corsi e ricorsi storici a parte, l’insegnamento che si tra da tutta questa vicenda è che una delle poche ragioni per cui i processi dei vincitori contro i vinti si possono salvare è che comunque si fa luce su episodi complessi, oscuri e ambigui, accertando fatti controversi e rivelando cose prima nascoste. Con la morte di Saddam, non è stata assolta nemmeno questa funzione di chiarificazione storica. Se così è, qualcuno potrebbe chiedersi se allora non sarebbe stato meglio uccidere subito Saddam, al momento dell'arresto. Certo, sarebbe stato un atto gravissimo, ma che avrebbe almeno evitato la farsa del processo.

NOTE:
[1]
Antonio Cassese - uno dei più autorevoli esperti e studiosi del diritto internazionale - Una sentenza nel caos giuridico, Corriere della Sera, 28 dicembre 2006.

giovedì 10 gennaio 2008

Il Belgio ha ancora un futuro?

Sulla scia del separatismo linguistico il Belgio sta attraversando una profonda crisi istituzionale che rischia di trasformarsi in una sorta di secessione. Nelle rivalità tra Fiandre (attiva e ricca) e Vallonia (insabbiata in una crisi economica) la comunità germanofona riceve una valanga di risorse dallo stato federale. Una questione solo di diversità culturale e linguistica o specchio di un paese a 'due velocità'?

La domanda che si pongono molti suoi abitanti (Il Belgio ha un futuro?) rivela il trauma che sta attraversando il paese che ospita parte delle istituzioni comunitarie. Un trauma che non nasce certo oggi, ma si trascina da molto tempo. Certo non è tale da far scomparire un paese che ha avuto altri momenti difficili (basti pensare all'invasione tedesca) ma è un dato di fatto allarmante che le due maggiori comunità linguistiche (quella fiamminga e quella francofona) stiano - come mai nel passato - costruendo un ideale muro di separazione che somiglia sempre più ad una frontiera.
La comunità di lingua fiamminga (vista da sempre come la lingua dei contadini) vive nelle Fiandre, regione una volta povera e cattolica, ora molto ricca e in continua crescita economica grazie, soprattutto all'industria e alla tecnologia. Da sempre i fiamminghi hanno mal digerito la penetrazione culturale e linguistica francese (basti pensare - lo dico per esperienza personale - che nella finale mondiale del 2006 tra Francia e Italia erano tutti dalla nostra parte) e hanno pian piano reagito a questa situazione, arrivando negli ultimi anni a cambiare tutti i cartelli stradali, a vietare le scritte in francese sulle vetrine dei negozi o sui mezzi di trasporto pubblici, fino ad istituire scuole che impartiscono la didattica esclusivamente in fiammingo - la lingua francese è studiata al pari delle altre come lingua straniera). E' interessante notare che in territorio fiammingo, precisamente a 50 km ad est di Bruxelles, esiste una città, Leuven (in cui si parla fiammingo), all'interno della quale è stata costruita una cittadella universitaria, Louvaine la Nouve (la nuova, appunto) in cui si insegna in francese. L'istituto - che ho personalmente visitato - ha la biblioteca di studi mediorientali più grande d'Europa e i libri al suo interno sono divisi tra quelli in fiammingo (contrassegnati da numeri dispari) e quelli in francese (numeri pari). Anche la consultazione avviene in stanze separate.
La comunità francofona vive, invece, in Vallonia, la regione al sud, laica e socialista, precedentemente vero motore culturale ed economico, ma che negli ultimi anni ha visto il suo declino farsi sempre più reale. Nonostante sia in territorio fiammingo, Bruxelles (e più in generale la regione intorno ad essa) gode di uno statuto speciale: ovunque vi sia necessità di scrivere qualcosa, è obbligatoria la doppia dicitura - spesso anche in inglese. Ma basta uscire appena fuori dal Ring, l'anello autostradale che cinge Bruxelles, e nessuno sarà disposto a rispondervi - o lo farà ostinatamente in fiammingo - se gli parlate in francese, a meno che non si accorgano di avere a che fare con un turista. Il motivo della rivalità sta nel fatto che fino a qualche anno fa il francese era considerata la lingua ufficiale, tanto che la prima università fiamminga è del 1930 e la Costituzione (datata 1831) è stata tradotta solo nel 1967. Sebbene la frontiera linguistica definitiva sia solo del 1962-63 e il Belgio sia stato uno stato federato solo nel periodo 1970-93, dal 2001 si è tornati a conferire ampia autonomia alle comunità linguistiche, in ossequio al principio del 'federatismo evolutivo', tanto osteggiato dai francofoni.
Ma c'è un'altra comunità linguistica, quella germanofona che vive in quei territori di frontiera con la Germania - territori restituiti al Belgio con il Trattato di Versailles del 1919 - che ha tutto il vantaggio a proseguire per la sua strada senza invischiarsi nella questione (amministrativamente quest'area fa parte della Vallonia). Grazie all'ampia autonomia concessale per via della lingua, riceve enormi finanziamenti che vanno ad accelerarne la crescita e la ricchezza, tanto che non pensa minimamente a reclamare il ritorno alla Germania, della quale costituirebbe solo una remota area periferica e sarebbe, dunque, destinata a tutt'altro livello di vita.
Nonostante ciò, il diverso livello di ricchezza che si va profilando, il senso di rivalsa mai sopito e, probabilmente, il consolidamento di una situazione forse evitabile sta portando ad una soluzione che appare irreversibile. Vari sforzi si stanno compiendo, ma potrebbe essere forse troppo tardi per impedire alle Fiandre di ottenere quello che vogliono.

Mr. Apartheid

E' morto il 20 novembre scorso ad 88 anni Ian Douglas Smith, ex-primo ministro della Rhodesia (l'odierno Zimbabwe) considerato da molti il simbolo dell'epoca colonialista e razzista dell'Africa. Per 15 anni alla guida del paese dal 1964 al 1979, aveva unilateralmente proclamato l'indipendenza dalla Gran Bretagna l'anno successivo (dichiarazione mai riconosciuta a livello internazionale che provocò una sanguinosa guerra civile), ribattezzando il paese Repubblica di Rhodesia [storia]. L'indipendenza vera e propria fu raggiunta grazie alla maggioranza nera solo nel 1980, e questa volta ottenne il riconoscimento internazionale. Da allora il nome dello stato è Zimbabwe [storia], nome che deriva dalla parola shona Zimba Remabwe, il cui significato è 'grande casa di pietra'.
Smith instaurò un regime razzista di apartheid verso la popolazione nera e una politica tristemente famosa che valse alla Rhodesia la condanna e l'isolamento economico delle Nazioni Unite, con tutte le catastrofiche conseguenze per la popolazione già preda della guerra civile [ris. n. 232 del 16 dicembre 1966 e n. 253 del 29 maggio 1968 - adottate ex art. 41 della Carta]. Non era più al potere dal 1979, ma aveva conservato - lottando per mantenere il potere in mano ai bianchi - un posto al nuovo parlamento fino al 1987. Non concependo l'idea che un giorno la maggioranza nera avrebbe preso il potere, non ha mai abbandonato le sue posizioni e amava spesso dire che "nessun nero governerà mai la Rhodesia, neanche tra mille anni". Chissà se pensava di governare lui in questi mille anni...
Attualmente il paese è in una crisi economica, sociale, politica e umanitaria senza precedenti. L'attuale presidente pratica politiche dittatoriali che hanno portato ad una forte repressione dell'opposizione interna, e a gravissime violazioni dei diritti umani: ai danni dei dissidenti il governo ha fatto spesso ricorso a violenze sistematiche e ad altre durissime misure. L'economia, prima una delle più forti dell'Africa, è adesso al collasso, anche per le molte sanzioni economiche applicate dalla comunità internazionale, mentre il malcontento e la disapprovazione interni ed esterni crescono.

martedì 8 gennaio 2008

Con le mani sporche di sangue



Immagine tratta dal blog LA VOCE DEL GONGORO in cui si commenta l'ultimo articolo ("Evidence of Israeli 'Cowardly Blending' Comes to Light") del giornalista britannico free-lance Jonathan Cook. In esso espone le sue critiche al rapporto di Human Rights Watch sulla guerra di aggressione al Libano dell'estate 2006 da parte di Israele e porta a conoscenza l'opinione pubblica di un nuovo rapporto dell'Associazione Araba per i Diritti Umani.

giovedì 3 gennaio 2008

Anno nuovo, vecchia storia

Il 2008 è appena cominciato e, come ogni inizio di nuovo anno, ci si aspettano novità e si guarda ai prossimi 12 mesi con curiosità. Ma, come sempre, c'è chi rilancia le sue crociate in difesa di non meglio specificati valori con il tentativo di indirizzare ed influire sulla politica del paese. Insomma, la solita storia.
E da chi poteva giungere l'ultimo attacco se non da quella spregievole persona rappresentata dall'ineffabile cardinal Ruini? Il cui obiettivo non è certo quello della salvaguardia della vita umana - altrimenti si dedicherebbe in altro modo, e non solo a parole, a questi temi - ma quello dell'ingerenza a tutti i costi nella vita politica italiana, al fine di imporre uno stato confessionale. Una sorta di estremismo-fanatismo cattolico che, avendo ben altri mezzi a disposizione, cerca di dettare la propria visione come il tanto deprecato (e sicuramente deprecabile) fanatismo islamico. E' l'ennesimo attacco della Chiesa alla legge sull'aborto, un modo per ribadire anche alla fine dell'anno uno dei temi - come la famiglia, la procreazione e l'eutanasia - sui quali la Santa Sede non accetta dialogo e non lascia certo libertà di coscienza ai fedeli.
L'attacco riguarda la legge 194 - quella sull'aborto - emanata dal nostro Parlamento 30 anni fa e fortemente voluta dal popolo italiano che aveva espresso la propria volontà tramite un referendum. Ora la chiesa vorrebbe scavalcare la volontà popolare ed abrogare - o volgere al proprio diktat - questa legge che ha rappresentato per vari motivi un grosso passo avanti verso un senso di enorme civiltà. E a dar man forte a 'Mr. Richelieu' ci sono il mancato monsignor Bondi, la teodem (ma guarda tu cosa mi tocca sentire) Binetti e il direttore (???) del Foglio Giuliano Ferrara - che ritiene di dover intervenire forse perché 194 è il peso della sua enorme mole. "Si può sperare - ha infatti spiegato Ruini nell'intervista al Tg5 - che da questa moratoria venga anche uno stimolo per l'Italia, quantomeno per applicare integralmente la legge sull'aborto che dice di essere legge che intende difendere la vita, quindi applicare questa legge in quelle parti che davvero possono essere di difesa della vita".
A chiudere la porta a una revisione della 194 è appunto la ministra Turco, in un intervento che ho finalmente apprezzato dopo varie pazzie che le ho sentito dire - come ad esempio i test anti-droga nelle scuole. "La legge è inapplicata? No, è applicatissima. Ridiscutere dell'aborto? Un dibattito pubblico è possibile, ma non lo è una modifica della 194". Le fa eco la ministra delle pari opportunità Barbara Pollastrini che giudica "irricevibile l'utilizzo di questi temi con finalità ideologiche che, in realtà, mirano a una modifica radicale della legge". Ferrara è immediatamente tornato alla carica contro quella che lui chiama "la pena di morte legale". La pratica dell'aborto terapeutico sarebbe un "incentivo a pratiche eugenetiche" e, dunque, andrebbe perlomeno bloccato l'aborto "selettivo per sesso o disabilità". La legge 194, però, non parla mai di aborto "per sesso o disabilità", ma sancisce che, superato il limite dei 90 giorni di gravidanza, entro i quali è consentita l'interruzione volontaria, si può ricorrere all'aborto solo quando sia a rischio la salute della madre. L'articolo 6 elenca i casi in cui effettuare l'aborto terapeutico, da praticarsi appunto "quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna" oppure nel caso "siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna". Non esistono limiti temporali, ma nella media l'intervento viene praticato entro le prime 24 settimane. Ovviamente occorre precisare che l'articolo 7 impone che la presenza delle condizioni di pericolo sia certificata.
Perché, allora, quest'ennesima intromissione? Pensano veramente che le donne rinuncino alla loro maternità in maniera così leggera? Non si rendono conto che la quasi totalità delle volte sono costrette a questa scelta dal fatto che con le precarissime condizioni di vita che regnano oggigiorno non sono in grado di allevare il figlio che portano in grembo in condizioni umane? Ma poi, che ne sanno di figli le porporate eminenze se loro non possono averne? Ne hanno mai avuto uno? Possono, forse, partorire figli? Non farebbero meglio a rinunciare ad una minima parte delle loro ricchezze per metterle a disposizione di donne disperate che altrimenti non abortirebbero mai? Non sarebbe, semmai, il caso di favorire politiche di aiuto a tali indigenti situazioni, invece di farneticare su principi che loro per primi calpestano ogni giorno? Perché cercano di forzare l'abrogazione di questa legge giustificandola con il fatto che la scienza negli ultimi 30 anni (quelli che ha la 194, appunto) ha compiuto enormi progressi? Non sono forse loro ad aver sempre criticato la scienza ed esaltato invece la 'verità di dio'? L'ultima volta che è successo non è forse stato in occasione del viaggio del papa in Austria nel settembre 2007 [1]?
A tutte queste domande mi sembra che risponda benissimo Filippo Gentiloni in un editoriale [2] in cui esamina il continuo contenzioso tra Stato e chiesa. "Un contenzioso antico che si ripresenta continuamente, con le sponde del Tevere che si allargano e si restringono di volta in volta, come amava dire Spadolini. La sistemazione data dalla Costituzione e poi dal Concordato craxiano non ha rappresentato una soluzione né perfetta né definitiva. Le discussioni recenti hanno confermato l'incertezza e la precarietà di una controversia che è ben lontana dall'essere esaurita. A riaprire il contenzioso - che, d'altronde, in realtà non era stato mai risolto del tutto - alcuni fatti ben precisi, da una parte e dall'altra. Da parte vaticana, una nuova «preoccupazione»: un nuovo timore della perdita di visibilità e quindi di presenza nell'attuale società italiana. La paura che la presenza cattolica si dovesse ridurre, per così dire, alla sacrestia e alla camera da letto: che scomparisse, cioè, dalla vita pubblica, come, d'altronde, è già accaduto in molti altri paesi anche a maggioranza cattolica. Quindi una nuova presenza, più «aggressiva». Tipica, d'altronde, anche del nuovo pontificato. Dall'altra parte, alcuni fatti nuovi, sotto gli occhi tutti. Ieri, la fine di quella Democrazia Cristiana alla quale stato e chiesa avevano delegato il compito di stabilire limiti, patti e funzioni. Oggi, poi, un fatto nuovo: la nascita di quel Partito Democratico che dovrebbe essere erede sia della Democrazia Cristiana che delle sinistre, con il relativo problema della laicità".

NOTE:
[1] Claudio Flamigni, "La scienza non ha bisogno di nessun dio", Il Manifesto, 11 settembre 2007.
[2] Filippo Gentiloni, "L'urgenza del laico", Il Manifesto, 3 gennaio 2008.