mercoledì 24 giugno 2009

Un'analisi/ testimonianza da Teheran: il colpo di stato della coppia Ahmadinejad-Khamenei

Jafar Naderi, LIMESONLINE

L'ultimo atto della guerra tra le due anime del clero al potere. La campagna elettorale e la svolta dei confronti televisi. La partecipazione al voto. Il ruolo del figlio della guida spirituale. Rafsanjani vuole sostituire Khamenei con una guida collegiale e molti ayatollah lo sostengono. Una possibile soluzione.


“La colpa dello Shah era che dichiarava: Vale solo ciò che dico io e non quello che vuole il popolo. Oggi chiunque si comportasse così, compirebbe un’azione destabilizzante e deprecabile.” (Da un discorso della Guida Suprema Khomeini a Qom nel lontano 21 marzo del 1979)

In questi giorni, qui a Teheran i mezzi di comunicazione sono più che mai scarsi. La tv di stato è al servizio di pochi ed è controllata direttamente dalla guida suprema, l’ayatollah Khamenei. I pochi quotidiani sono sotto il controllo della censura del Ministero delle Informazioni, vale a dire la polizia politica. mentre i giornali indipendenti sono stati chiusi per ordine di giudici compiacenti. A parte qualche tv satellitare, anche quella disturbata (sempre da parte del Ministero) per impedire una ricezione accettabile, per avere informazioni su quello che accade qui e nel mondo l’unico mezzo di comunicazione rimane Internet, più che mai rallentata e con quasi tutti i siti politici oscurati. Le pagine della rete si sfogliano faticosamente solo grazie a programmi che aiutano ad aggirare i filtri realizzati dal Ministero. Riusciamo ad avere notizie anche con i cellulari (quando funzionano) e possiamo avere un’idea di ciò che sta succedendo in questo paese.
Chi, in questi giorni avesse passeggiato per le strade di Teheran avrebbe visto che la folla inferocita, insieme ai cassonetti, a qualche autobus e qualche motocicletta dei poliziotti dei corpi speciali, bruciava anche le foto di Ahmadinejad e della guida suprema con quel suo sorriso gentile e quell’espressione da buon padre di famiglia. La scena rievocava gli avvenimenti di trent’anni fa, quando il regnante di turno era lo Scià.
Oggi, per il mondo intero, gli occhi increduli di una giovane sul punto di morire, simboleggiano un punto di svolta dell’immagine della Repubblica Islamica. Si chiamava Neda Agha Soltan, aveva ventisette anni e studiava filosofia. Era tra i manifestanti scesi in piazza per reclamare il diritto di conoscere quale fine avesse fatto il proprio voto. È stata colpita al cuore da un proiettile sparato da un basiji. Questi occhi simboleggiano l’ultimo capitolo di una lotta tra due anime che si sono affrontate fin dalla nascita della Repubblica Islamica e non si sono mai risparmiate colpi bassi. Le elezioni presidenziali del 12 giugno 2009 sono state il punto di svolta di questa lunga storia.
Con il discorso di Khamenei, alla preghiera di venerdi, è stata messa la parola fine a una convivenza apparentemente pacifica tra le due anime del clero. La storia della lotta tra le due anime, suddivise in varie fazioni, nasceva ai tempi di Khomeini, fondatore e padre spirituale della Repubblica Islamica. I protagonisti attuali di questa vicenda, tranne Ahmadinejad, che, all’epoca, era ventenne, sono quasi tutti i pochi fondatori della Repubblica rimasti.
Queste elezioni sono state molto particolari. La campagna elettorale è iniziata qualche mese fa con toni molto tiepidi e gente molto svogliata. Si poteva solo prevedere un astensionismo da record. La notizia della candidatura dell’ex-presidente Khatami, nello schieramento progressista ha dato però nuova linfa e vitalità alla campagna elettorale. Le cose si sono messe in movimento. Gli altri candidati erano Akbar Aa’lami, ex-parlamentare riformista, Mehdi Karrubi, ex-presidente del Majlis (il parlamento), Mohsen Rezai ex-comandante dei pasdaran e membro del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione e lo stesso presidente uscente, Mahmud Ahmadinejad.
Quando Khatami ha iniziato la sua campagna elettorale, la risposta della popolazione delusa da Ahmadinejad, è stata straordinaria. Ma Khatami, minacciato da coloro che si sentivano in pericolo, con l’arrivo del candidato Mussavi, ex-primo ministro durante la guerra contro l’Iraq, ha deciso di ritirarsi e appoggiare quest’ultimo. I sostenitori di Khatami sono rimasti delusi, ma, con il tempo, è stato chiaro che la strategia dei riformisti era quella giusta.
Era chiaro ed evidente che Ahmadinejad non sarebbe riuscito a contrastare l’offensiva dei riformatori, che, contro i conservatori, oltre a Mussavi, avevano schierato anche Karrubi, che insieme ai voti delle minoranze etniche, essendo un clericale, poteva raccogliere anche quelli di una parte del clero. Il terzo candidato, Aa’lami, più estremista, avrebbe potuto prendere voti dai dissidenti e nella regione dell’Azerbaijan, in quanto azero ed ex-rappresentante di Tabriz in parlamento. Come era prevedibile, Aa’lami non è riuscito però a passare il setaccio rigido delle selezioni governative sui candidati e, per i riformisti, sono rimasti in campo solo Mussavi e Karrubi. Nello schieramento opposto, per affrontare il pericolo di crollo e per raccogliere i voti del malcontento dell’area dei conservatori, è sceso in campo in campo Rezaei, molto critico delle posizioni di Ahmadinejad, particolarmente sul piano economico.
I canditati che si opponevano al presidente uscente, nonostante non avessero accesso ai mezzi di comunicazione e si trovassero senza l’appoggio dei giornali, hanno iniziato, dunque, alla luce dei risultati deludenti del precedente governo, un lavoro capillare di propaganda grazie a Internet e hanno trovato terreno fertile per raccogliere il consenso popolare. Le due più importanti strutture militari, l’esercito dei pasdaran e i basiji, nonostante la legge vieti loro di interferire nella politica, si sono schierate apertamente con il presidente uscente. I generali dei pasdaran hanno rilasciato molte dichiarazioni che accusavano i riformatori di essere al servizio dell’imperialismo, del sionismo e di voler organizzare una sorta di rivoluzione di velluto. Hanno dichiarato inoltre che per difendere i valori della Rivoluzione non avrebbero esitato a usare la forza. La Guida – molto attenta a non schierarsi apertamente con il suo candidato prediletto – invitava tutti a essere moderati nei toni per non dare una mano ai nemici dell’islam, che non aspettavano altro per mettere sotto accusa le conquiste della Repubblica Islamica.
Per dare una parvenza di democrazia sono stati organizzati anche sei confronti televisivi tra i candidati. Durante questi confronti televisivi le cose hanno preso una nuova piega. La tattica di Ahmadinejad era la stessa che lo aveva portato al potere nelle precedenti elezioni: fare la vittima, attaccare tutti con il suo linguaggio populista, sostenere che i suoi avversari erano al servizio del diabolico e corrotto Rafsanjani, arricchitosi alle spalle dei diseredati.
Un attacco così evidente e violento alla terza carica istituzionale dello Stato era una cosa senza precedenti. Era chiaro che non avrebbe osato usare questo linguaggio contro uno dei pilastri della Repubblica Islamica senza il placet della Guida. Ovviamente, Rafsanjani ha protestato, ha chiesto di poter replicare alle accuse in tv, ma è stato inutile. Per tutta la campagna, Ahmadinejad ha continuato a usare questa tattica, mentre i suoi avversari lo accusavano di aver distrutto l’economia, portato il paese con il suo linguaggio rude e populista all’isolamento internazionale e rovinato l’immagine della nazione e della Repubblica Islamica. E’ stato anche accusato di malversazione e di allegra gestione dei fondi governativi provenienti dalla vendita del petrolio, per un ammanco di un miliardo di dollari, accertato dalla Corte dei Conti. A causa di una cattiva gestione ha sperperato decine di miliardi di dollari, i proventi del petrolio, riuscendo ad aumentare la povertà, la disoccupazione e l’inflazione in un periodo in cui il prezzo del petrolio era salito a 150 dollari al barile. E’ stato premiato con tempi supplementari di apparizione e di propaganda dalla tv di Stato, senza che i suoi avversari godessero della stessa opportunità.
Questo atteggiamento si è rivelato controproducente e i suoi avversari politici ne hanno beneficiato. Molti che avevano dichiarato di non voler andare a votare, di fronte alla prospettiva di una sua rielezione, hanno deciso di turarsi il naso e hanno scelto il male minore. Così il 12 di giugno c’è stata una partecipazione senza precedenti che ha superato anche lo storico risultato delle presidenziali in cui fu eletto Khatami. Il giorno delle elezioni la partecipazione è stata straordinaria. Per raggiungere l’urna erano necessarie mediamente tre ore. Ma tutti lo hanno fatto volentieri. Nel pomeriggio alcuni seggi hanno iniziato a chiudere le porte, con la motivazione che le schede elettorali erano esaurite. In alcuni seggi la gente ha rotto le porte per entrare. Sono quindi iniziate a circolare voci su brogli elettorali.

I primi risultati parziali del conteggio non quadravano e, il mattino dopo, quando sono stati dichiarati i risultati ufficiali, si è compreso che era in atto un vero colpo di mano. I brogli erano troppo grossolani. In centinaia di seggi avevano votato fino al 140% degli aventi diritto. Karrubi aveva ottenuto meno voti del numero dei militanti del suo partito. Un numero risibile con l’intento solo di umiliarlo. Nel frattempo, prima che si rendessero pubblici i risultati definitivi, il responsabile dell’ufficio informatico delle elaborazioni dei dati del Ministero dell’Interno, mandava i risultati al candidato Mussavi. I risultati erano diversi. Risultava che Mussavi aveva superato i 19 milioni di voti e il funzionario consigliava al presidente neo-eletto di preparare i festeggiamenti e il discorso alla nazione. Ma come sappiamo, le cose sono andate diversamente. Qualche giorno dopo, quello stesso funzionario, Mohammad Asghari, moriva in un incidente stradale.
Mussavi ha dichiarato subito di essere lui il presidente eletto: ma l’annuncio contrario della guida suprema, l’ayatollah Khamenei, ancor prima che l’organo preposto, il Consiglio dei Guardiani, ratificasse la regolarità delle elezioni, ha gelato tutti. Questo fu il momento della vera e profonda spaccatura delle anime della Repubblica Islamica. Khamenei aveva scelto di percorrere una strada senza ritorno. E aveva le sue ragioni. Innanzitutto voleva sbarazzarsi della vecchia guardia, di quelli che non gli davano molto credito. In primis il suo vecchio e fidato amico Rafsanjani, colui che aveva caldeggiato la sua candidatura nel 1988 e si era adoperato per innalzarlo al ruolo che tuttora ricopre.
Dopo la morte di Khomeini, il triangolo formato da Khamenei, Rafsanjani e il figlio maggiore di Khomeini, Ahmad, era riuscito in questo intento. I patti non furono rispettati da Khamenei. Ahamad Khomeini moriva in circostanze poco chiare, quasi subito, e la presenza di Rafsanjani restava una spina nel fianco. Inoltre gli altri grandi ayatollah non lo hanno mai accettato. Khamenei non era un ayatollah e per occupare questo ruolo era stata promulgata una legge ad personam che cambiava la Costituzione. Khamenei, che ha vissuto per anni nell’ombra di Khomeini, è malato e vecchio e vorrebbe vedere sul suo trono Mojtaba, suo figlio maggiore ed eminenza grigia della corte. Quest’ultimo sta ultimando i suoi studi di teologia con l’ayatollah Mojtahedi, con lezioni a domicilio. Mojtaba ha raggiunto il grado di mojtahed (giureconsulto) Tra qualche anno potrebbe essere nominato ayatollah e diventare il successore del padre.
Ahmadinejad è l’alleato giusto: per tutti gli anni della sua presidenza ha dimostrato una cieca obbedienza. Insieme ai pasdaran, che in questi anni hanno visto accrescere il loro potere economico e politico, formano un triangolo perfetto. Sono indispensabili l’uno all’altro. Sono consapevoli che la sconfitta di uno significherebbe la sconfitta di tutti. I pasdaran in questi anni hanno fatto passi da giganti. Nel governo di Ahmadinejad hanno avuto un ruolo chiave. Quasi il 30% dei posti di comando è nelle loro mani. Hanno ottenuto gli appalti più grossi, senza concorrenti e con gare a trattative dirette. Hanno rinforzato il loro indiscusso ruolo primario nel traffico di contrabbando delle merci e il loro fatturato in questo settore supera i 12 miliardi di dollari. Hanno il controllo di tutte le industrie militari ad alta tecnologia e dei contratti per costruire gasdotti, piattaforme petrolifere, grandi dighe, autostrade e ferrovie. Senza avere concorrenti. Con questo sistema gestiscono una holding che manipola interessi per decine di miliardi di dollari e senza l’appoggio di un eventuale governo poco compiacente, avrebbero molto da perdere.
La situazione internazionale richiede un atteggiamento fermo. Vogliono essere loro a gestire le trattative con gli Stati Uniti. Sono consapevoli dell’importanza del ruolo geopolitico dell’Iran e con gli Stati Uniti in difficoltà hanno deciso che è il momento di trattare con Washington e ottenere in cambio garanzie per mantenersi al potere.
Sabato mattina, la gente si è resa conto che era in atto un colpo di Stato. Il servizio di trasmissione degli sms era fuori uso da qualche giorno. Alle 17.00 le forze anti-sommossa si sono schierate nelle strade e alle 19.000 sono state messo fuori uso le comunicazioni con i telefonini. Le operazioni sono state dirette da Mojtaba, figlio maggiore di Khamenei, in stretti rapporti di affari con i pasdaran. Domenica alla manifestazione di protesta hanno partecipato tre milioni di persone. La polizia è intervenuta e molte persone sono rimaste ferite. Lunedì la polizia ha avuto l’ordine di sparare. Il resto è cronaca. Gli arresti dei capi carismatici dell’opposizione sono iniziati sabato sera, poi è stata la volta dei quadri intermedi e di tutti coloro che avevano un ruolo organizzativo. Il movimento è stato decapitato ma ha continuato ad operare. Le manifestazioni di protesta, anche senza capi, si sono succedute. Il colore verde, che è il colore dei sostenitori di Mussavi, è diventato il colore di tutta l’opposizione. Sono stati arrestati a centinaia tra manifestanti, sindacalisti e studenti. Khamenei ha deciso di scendere in campo direttamente. Per la preghiera del venerdì ha scoccato la sua ultima freccia contro i vecchi alleati, che, durante la cerimonia, hanno schierato in prima fila il peso della loro assenza. Ha dichiarato che Ahmadinejad era il suo prescelto e ha invitato tutti a comportarsi saggiamente e ad accettare il dato di fatto. Ha tolto ogni dubbio circa le sue intenzioni.
La cosa non è piaciuta a nessuno. Rafsanjani ha scritto una lettera a Khamenei e si è attivato per portare avanti con Khatami il suo vecchio progetto: sostituire la guida con un comitato di reggenza. E’ andato a Qom e ha contattato i grandi dignitari e i grandi ayatollah. Sembra che sia riuscito ad avere il consenso di almeno cinquanta personaggi importanti. Intanto, l’ayatollah Montazeri, critico da sempre nei riguardi di Khamenei, da questi estromesso e segregato agli arresti domiciliari, ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale. Rafsanjani, nelle sua lettera, ha scritto che sono stati messi in discussione i principi fondamentali della Repubblica ed è la fine per tutti, innanzitutto per Khamenei, che, in qualsiasi caso, è perdente. Se annulla le elezioni perderebbe la faccia, ma se continua a sostenere Ahmadinejad si mette contro milioni di iraniani che reclamano il loro voto. Khamenei sembra deciso a portare avanti la sua linea fino in fondo. Non pare che abbia altra scelta. Ha tentato di fermare Rafsanjani, perfino arrestando nel corso di una manifestazione la figlia, il nipote e altri due parenti, con l’accusa di fomentare la gente alla rivolta, ma ha dovuto rilasciarli due giorni dopo.
Intanto i rapporti diplomatici con la Gran Bretagna, accusata di fomentare i disordini, sono precipitati. Il presidente Obama dichiara, molto cautamente di essere umanamente dalla parte dei contestatori. Dopo che il Consiglio dei Guardiani ha dichiarato che c’è stato un errore di conteggio di solo 3 milioni di voti, certamente non sufficiente per annullare le elezioni, Khamenei ha concesso altri cinque giorni di tempo per approfondire le ragioni dei non eletti, forse per prendere tempo, forse per una sorta di arretramento dalle precedenti posizioni. Rezai, in un comunicato, ha dichiarato la sua fedeltà alla Guida Suprema e, nell’interesse della nazione e dell’islam in un momento cosi critico. ha ritrattato le sue rimostranze e rinunciato a contendere. Ma si prospetta un’altra soluzione: un presidente convinto o costretto a dare le dimissioni per il bene della patria, per amore verso la guida spirituale e per salvare l’islam.
Oggi, ci troviamo di fronte a un movimento trasversale di milioni di individui, tanto anomalo quanto straordinario. Un movimento senza capi carismatici e senza una precisa e definita connotazione ideologica. Per la prima volta nella storia iraniana dell’ultimo secolo assistiamo a un movimento non diretto da capi religiosi ma che ha, al suo interno, molti religiosi. Giungono notizie che alcuni generali dei pasdaran siano stati arrestati per essersi rifiutati di prendere parte alla repressione. Forse, dopo tanti tentativi, è la volta buona per gli iraniani per sperimentare la vera democrazia? I giochi sono ancora aperti.

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