martedì 28 aprile 2009

Speciale Parlamento europeo - PARTE IV

Il rapporto tra Parlamento europeo e partiti politici

Il tema del rapporto tra i partiti politici e il Parlamento europeo costituisce una parte importante delle scommessa sul ruolo futuro dell’ Unione. È innegabile, infatti, che l’esistenza di un solido sistema di partiti a livello europeo sia un elemento cardine del raccordo fra le opinioni pubbliche e le istituzioni europee e dunque che il ruolo da essi effettivamente svolto incida necessariamente sul tasso di democraticità dell’Unione nel suo complesso. Tuttavia, il problema vero è costituito dal fatto che a livello europeo i partiti non ci sono, o,comunque, non possono essere definiti tali. La questione principale si incentra, allora, sul perché, malgrado i molti decenni di esistenza delle Comunità prima, della Comunità europea dopo, dell’Unione infine, e malgrado l’esistenza ormai da molte legislature di un Parlamento europeo eletto direttamente dai cittadini, i partiti europei non abbiano ancora visto la luce.
Alcuni studi recenti [1] offrono molte spiegazioni del fenomeno e contengono anche importanti riflessioni sulle prospettive che l’immediato futuro può presentare. Va detto, tuttavia, che vi è un elemento, nella storia delle forme di organizzazione politica emerse in questi decenni in Europa, che non può non colpire profondamente: mentre nelle tradizioni politiche nazionali i partiti, anche quando nati in Parlamento, diventano rapidamente soggetti politici che operano nella società al fine di promuovere un loro progetto di cambiamento o di conservazione degli equilibri esistenti, a livello europeo i partiti, anche quando sono legati da forti radici ideologiche e politiche comuni, non riescono ad andare oltre la costituzione di forme federative. Non solo: man mano che l’esperienza europea si sviluppa e l’Unione si allarga, queste federazioni sembrano allontanarsi sempre più da un fondamento ideologico comune e tendere, in modo sempre più netto, a fondare la propria coesione sui vantaggi che ne derivano rispetto al funzionamento interno del Parlamento europeo e sulle maggiori opportunità di ricoprire cariche e ruoli di rilievo al suo interno.
Ad ogni modo, le spiegazioni che vengono, usualmente, date alla mancata formazione di veri partiti di livello europeo sono note e poggiano essenzialmente sulle caratteristiche proprie del Parlamento, organo comunitario privo di adeguata centralità nel sistema istituzionale complessivo e, comunque, sprovvisto di quei poteri di indirizzo sull’ esecutivo che caratterizzano, invece, i Parlamenti nazionali. In sostanza, la ragione strutturale di fondo della mancata nascita di partiti europei, e della debolezza stessa delle forme federative finora sviluppatesi nell’ambito del sistema politico europeo, consisterebbe nella debolezza stessa dell’istituzione Parlamento e nella scarsa capacità di quest’organo di incidere effettivamente sull’indirizzo complessivo dell’Unione. Questa spiegazione, che, stante il non sufficientemente modificato ruolo del Parlamento europeo nel quadro istituzionale che scaturisce dal Trattato costituzionale, giustifica anche un giudizio pessimistico circa la possibilità che in un prossimo futuro si sviluppi un forte sistema di partiti europei, è certamente convincente.
Essa, tuttavia, sembra troppo chiusa in un ottica istituzionale, quasi che “la storia politica europea non ci dicesse con chiarezza che i casi in cui i partiti nascono in Parlamento e grazie ad esso, e solo successivamente si radicano nella società, sono assai meno numerosi dei casi in cui, invece, i partiti nascono prima nella società e poi entrano in Parlamento e, attraverso il Parlamento, nelle istituzioni” [2]. La storia europea ha visto partiti nati fuori dalle istituzioni conquistare le istituzioni stesse, al fine di imporre riforme radicali nella società, e partiti nati, invece, per usare le istituzioni al fine di difendere e conservare gli equilibri sociali esistenti. Tutti i partiti che sono nati in Parlamento sono divenuti soggetti e attori della contesa politica all’interno della società stessa e hanno trovato la loro forza non già nel loro radicamento parlamentare, ma nel loro radicamento sociale e nella loro capacità di organizzare la rappresentanza politica e la contesa elettorale. Il che, a sua volta, ha quasi sempre avuto come risultato anche quello di rafforzare la stessa istituzione parlamentare, ampliandone non solo il ruolo, ma anche il significato e il peso politico e sistemico. A livello comunitario, invece, questo non è avvenuto e non sembra neanche probabile possa avvenire in un periodo sufficientemente rapido. Non si è creato, cioè, quel circuito virtuoso che ha condotto i Parlamenti nazionali a stimolare la crescita organizzativa dei partiti e i partiti a ricercare nel rafforzamento del Parlamento l’ opportunità di accrescere il loro ruolo politico.
Va avvertito che, in questo senso, il ragionamento, secondo cui i partiti europei tardano a svilupparsi anche e soprattutto perché il Parlamento europeo è stato, è, e con ogni probabilità continuerà ad essere un’istituzione non sufficientemente forte e determinante negli equilibri dell’Unione, può essere rovesciato. Si può dire, cioè, che il Parlamento è stato, è, e probabilmente continuerà ad essere un’istituzione debole nel contesto del sistema istituzionale comunitario anche perché non si è sviluppato e non si sta sviluppando un forte e coeso sistema di partiti europei. Di qui la perplessità che nasce di fronte a posizioni eccessivamente legate a dati ed aspetti giuridico-istituzionali, comprese quelle che si fondano sul possibile effetto incentivante che potrà avere la nuova normativa in tema di statuto e finanziamento dei partiti europei, la quale, considerata con tutte le sue ombre, costituirà l’argomento dei prossimi capitoli. Di qui, al contrario, l’indubbio interesse che suscitano le posizioni, come quella già citata di Gozi, che appaiono orientate non tanto a riflettere sui dati istituzionali, quanto sui dati politici, e che mirano a ricercare non tanto le innovazioni sul piano istituzionale, quanto piuttosto le evoluzioni politiche necessarie ad innescare un processo finalmente concreto di costruzione di un sistema strutturato di partiti politici europei.
Tuttavia, anche l’approccio per così dire “politico” al problema della costruzione di un sistema di partiti europei appare, in qualche modo, velleitario e riduttivo se ci si limita a ricercare le condizioni metodologiche e le prassi comportamentali più adeguate all’esigenza di mettere insieme, intorno ad un comune e condiviso progetto di Europa, partiti ed esperienze nazionali, i quali hanno, sinora, dato vita tutt’al più a forme organizzative di carattere federativo all’interno del Parlamento europeo. La questione principale che dovrà essere affrontata diviene, allora, la prevedibile e possibile evoluzione dell’Unione europea: se essa si assesterà sugli imperativi del cosiddetto metodo “intergovernativo” o se, invece, si aprirà alle prospettive delineate dal metodo cosiddetto “comunitario”.

NOTE:
[1] Sandro Gozi – Le elezioni europee del 2004, Il Mulino, Bologna, 2003.
[2] idem
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venerdì 10 aprile 2009

Speciale Parlamento europeo - PARTE III

Il sistema elettorale dell’ Unione europea: il problema dell’ uniformità e l’ adozione del sistema proporzionale.

Nell’ ambito di una procedura elettorale uniforme si devono senz’altro ricomprendere: il sistema elettorale, le norme sull’ elettorato attivo e passivo, le condizioni di ineleggibilità e di incompatibilità, la data delle elezioni, l’assegnazione dei seggi vacanti, le disposizioni relative alla campagna elettorale, la verifica dei poteri. Ai fini del presente lavoro verrà analizzato, a grandi linee, solo il sistema elettorale, con l’esclusivo riferimento al problema dell’ uniformità della procedura, nonostante il metodo dell’attuazione “a tappe”, e alla scelta, ad esclusione del caso inglese, del sistema proporzionale.
In riferimento alla prima questione, la ricerca di un quid di uniformità dovrebbe escludere, ovviamente, che il Parlamento europeo possa essere formato secondo le “procedure elettorali fissate da ogni Stato membro”. Tuttavia, uniforme non significa identico, anche se non si può escludere a priori che il grado di uniformità raggiungibile possa produrre effetti di sostanziale identità [1]. Le opinioni su questo punto non sono univoche e c’è chi sostiene che una procedura elettorale uniforme non possa, in alcun caso, apparire differenziata, mostrando delle falle nei punti di scelta fondamentali che vanno ad incidere sulla composizione dell’Assemblea [2]. In ogni caso, non si potrà mai parlare di uniformità in presenza di convenzioni che non abbiano unanime consenso sul tipo di sistema elettorale.
È il caso di sottolineare, però, che, al fine di non appesantire troppo il progetto, si è assunto il metodo di attuazione per tappe: una procedura elettorale, com’è ovvio, è costituita da un numero troppo elevato di elementi per i quali si potrebbe progettare un’armonizzazione [3]. Che la realtà comunitaria globalmente considerata costituisca un processo in corso di attuazione è un dato non contestabile: essa è stata concepita dai membri fondatori come un ente ad attuazione progressiva, precisamente come organismo comune di carattere specificatamente economico, che, partendo dalla base dell’unione doganale, fosse in grado di realizzare successivamente una effettiva e più stretta unione tra i popoli europei, assicurandone il progresso non soltanto economico, ma anche sociale e politico. È altrettanto indubbio, però, che una procedura elettorale debba essere il più possibile uniforme, al fine di preservare la rappresentatività del Parlamento dai calcoli politici all’ interno di esso. Al di là dei successivi interventi la situazione è rimasta invariata nella sostanza: il sistema elettorale è regolato da norme dell’ Unione, che contengono i principi validi per tutti, e da norme statali, che contengono disposizioni con validità territoriale limitata a ciascuno Stato. Tra gli scopi che la procedura uniforme si proponeva di realizzare vi erano la necessità di assicurare la rappresentanza delle principali forze politiche e di conferire un peso sensibilmente uguale ai voti, permettendo, al contempo, di considerare le particolarità nazionali [4].
In ottemperanza a tali principi si è escluso ogni approdo di tipo maggioritario, cosicché, constatata anche l’impraticabilità dell’ adozione di sistemi elettorali misti, assieme all’inammissibilità della contemporanea presenza, nei diversi Stati, di procedure maggioritarie e di procedure proporzionali, si è optato per il sistema proporzionale. In realtà, le considerazioni solitamente addotte a favore del sistema maggioritario, sintetizzabili in una più diretta responsabilità degli eletti nei confronti degli elettori [5] e nella maggiore facilità di formazione delle maggioranze di governo, data la particolare natura del Parlamento europeo, non sono ad esso estensibili. Tali vantaggi sono, infatti, reali negli ordinamenti in cui il potere esecutivo è diretta emanazione dei parlamenti, ma sono irrilevanti nell’ambito del sistema comunitario, ove il Parlamento europeo riveste soltanto un ruolo di legittimazione, di rappresentanza, di controllo e di sintesi politica delle istanze statali. Nell’ ambito del sistema politico dell’Unione non esiste un governo che sia responsabile di fronte al Parlamento e che debba quindi essere sostenuto da consistenti e valide maggioranze.
Va, quindi, scartata, almeno nel breve periodo, l’obiezione che viene solitamente mossa contro la proporzionalità, che sarebbe causa di frammentazione delle forze politiche e di debolezza degli esecutivi, almeno fino a che non vengano assegnati al Parlamento europeo i poteri necessari a configurarlo quale principale organo decisionale dell’ Unione. Tali motivazioni inducono certamente a riflettere sul fatto che qualsiasi legge elettorale dovrebbe essere stabilita in funzione dell’ obbiettivo prefisso, non esistendo una verità a priori, ma solo leggi elettorali che devono essere adattate in funzione del risultato da raggiungere. Non dovrebbe, quindi, esserci contraddizione nel fatto che in uno Stato esista un tipo di legge elettorale per il Parlamento nazionale e una legge diversa per l’elezione europea. Tanto più che in uno Stato si tratta di esprimere una maggioranza governativa, di far sì che il governo rappresentante tale maggioranza possa governare, mentre nell’ ambito del Parlamento europeo si tratta, più semplicemente, di raggruppare le varie correnti dell’ opinione pubblica presenti nell’ Unione. La scelta del sistema proporzionale, fondato su circoscrizioni plurinominali, assegna un ruolo preponderante, attivo e di collegamento ai partiti politici, agevolando, per tal via, l’instaurazione di legami extrastatuali tra le correnti politiche omogenee presenti in Europa. Anche per questi motivi appare fondata l’opinione dello Zagrebelsky, secondo cui le leggi elettorali hanno la capacità di condizionare la stessa configurazione istituzionale e la sostanza politica dei Parlamenti [6].
In conclusione, la riduzione della differenziazione e l’aumento dell’uniformità sono certamente il risultato di un processo negoziale, ancora in corso, tipicamente comunitario, a cui contribuiscono diversi soggetti istituzionali e politici, statali e comunitari. L’uniformità del sistema elettorale, insomma, non può essere immaginata che come un’armonizzazione degli elementi essenziali del sistema, raggiunta per tappe e lasciando ai singoli Stati la facoltà di adeguarsi per fasi successive al modello comune che viene, di volta in volta, indicato dal Parlamento dell’Unione. Il problema dell’uniformità non è, quindi, così drammatico ed è necessario ricordare che ogni Stato ha le sue tradizioni e le sue particolarità in campo elettorale.
Per quanto riguarda la scelta del sistema proporzionale, invece, non c’è dubbio che esso, in mancanza di un rapporto di responsabilità tra il Consiglio e un Parlamento fornito dei necessari poteri decisionali, sia l’unico sistema elettorale praticabile. In questo modo, privilegiando il profilo della rappresentatività, si permette, perlomeno, l’entrata di più soggetti nell’arena politica con il preciso intento di coinvolgere tutti gli strati dell’elettorato e creare, così, una comune coscienza politica. Solo a seguito di un ruolo centrale del Parlamento europeo, con poteri di indirizzo sul Consiglio e di iniziativa, unitamente alla nascita di un ordinamento strutturato e coeso, capace di sviluppare forme forti di identificazione collettiva, avrà senso l’adozione di un sistema maggioritario che privilegi il profilo della governabilità.

NOTE:
[1] Nell’ opuscolo Verso l’elezione diretta dell’ Assemblea parlamentare europea, ottobre 1980, edito dal PE si sostiene, appunto, che uniformità non è sinonimo di identità e che per procedura uniforme debba intendersi una legge elettorale che sia fondamentalmente la stessa in tutti gli Stati membri.
[2] Di questo avviso era anche l’on. D’Angelosante, nel parere redatto a nome della commissione giuridica (P.E. , Doc. 1-988/81/B-C, p.31), per cui “…deve affermarsi il principio essenziale secondo il quale non sono più ammissibili norme elettorali le quali, mentre favoriscono interessi di questo o di quello Stato, o addirittura di questo o di quel partito nazionale, danneggiano e indeboliscono il Parlamento, in quanto artificiosamente ne modificano la rappresentatività”.
[3] Su questo punto si era ancora espresso l’on. D’Angelosante (P.E. , Doc. supra cit. , p.40) secondo il quale “…l’opinione che alla procedura elettorale uniforme si possa dare attuazione per tappe va considerata errata, in quanto priva di base giuridica, ed anzi, contraddetta dalla normativa che regola la materia”.
[4] Nell’ambito dei “criteri” di scelta del sistema elettorale il relatore on. Seitlinger, della commissione politica, sosteneva che “il sistema elettorale deve avvicinarsi il più possibile ai modelli collaudati e familiari ai cittadini dei diversi Stati e non trascurare i valori essenziali della vita politica degli Stati membri”, in P.E., Doc. 1-988/81/B-C, p.4, lett b.
[5] L’on. Lomas, deputato laburista britannico, nel motivare il suo voto contrario alla proposta della commissione politica, ribadiva che “nel nostro paese preferiamo decisamente il sistema uninominale[…] in esso la responsabilità è diretta[…] noi rispondiamo ai nostri elettori, siamo sul posto quando vengono a dirci: vogliamo questo o non vogliamo quello[…] noi siamo responsabili”, in Discussioni del P.E., Seduta del 10 marzo 1982, allegato alla GuCe, p.103.
[6] Zagrebelsky – I meccanismi elettorali per l’elezione del Parlamento europeo e le loro implicazioni politiche, in Parlamento europeo – Forze politiche.

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giovedì 2 aprile 2009

L'annessione

Dopo la sinistra scompare anche la destra. L'iter tutto italiano da un sistema proporzionale ad uno maggioritario ha non solo depauperato il livello morale ed intellettuale del Parlamento, ma anche creato dal lato politico due partiti contenitore, due scatole vuote. Come un grosso biscione che tutto fagocita, il nuovo soggetto politico è ora sul campo. Il terreno dal quale dovrebbe nascere il presidenzialismo tanto agognato dal Cavaliere è stato concimato. Aspettiamo che dia i suoi frutti.



*vignetta di Marco Viviani