Caucaso: vicende storiche e problemi presenti
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La transizione venne condotta all’insegna di una democrazia poco più che di facciata – sotto la quale permaneva, anzi, la vecchia nomenclatura politica – e di una privatizzazione dell’economia che ha de facto sostituito all’oligarchia comunista potenti e incontrollati gruppi di potere, spesso derivati direttamente dai ranghi della prima.
In questa fascia di collegamento geografico tra Mediterraneo e Asia, posta tra il Caspio e il Mar Nero, culturalmente più vicina alle propaggini occidentali dell’Europa ma altrettanto prossima alle zone ad altissima conflittualità del Medio Oriente, il cambiamento ha assunto un ritmo decisamente sostenuto a partire dagli anni Novanta del secolo scorso.
Sul versante politico, si è assistito al netto declino d’influenza politica e di presenza territoriale della potenza russa, parallelamente – e in maniera inversamente proporzionale – alla crescita militare degli Usa nella zona. Ciò non toglie che negli anni recenti, e dopo aver risolto una serie di problemi prevalentemente di natura economica, si sia manifestato sotto la presidenza Putin il tentativo di tornare a recuperare quello status di ‘madrepatria’ perduto nel 1991 dopo la fine dell’Urss. Nel momento in cui venne meno la struttura sovietica, infatti, lo spazio transcontinentale che l’Urss aveva ereditato dall’impero zarista dovette fare i conti con la propria storia, così da ricollocare le tante tessere di un mosaico fitto di nazionalità diverse - anche di piccola e piccolissima dimensione geografica e demografica – entro una nuova cornice politica il cui futuro poteva, forse, essere progettato a partire dal passato.

In seguito, venute meno le strutture economiche socialiste che assicuravano comunque una limitata stabilità sociale, la Caucasia fu investita da una serie impressionante di conflitti a sfondo separatista, religioso o etnico, che esplosero inizialmente nel Caucaso meridionale. Nell’ultimo decennio del 900, infatti, a causa della contesa tra Armenia e Azerbaigian per il controllo del Nagorno-Karabakh e di quella nei territori autonomi georgiani dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud, si accesero violenti scontri armati che provocarono migliaia di vittime e costrinsero un numero enorme di persone all’esodo forzato.
In verità, già negli anni '40 Stalin, in una disastrosa ottica di precaria stabilizzazione delle nazionalità, aveva ordinato in tutta l'area massicce deportazioni che colpirono in particolare le popolazioni cecene, tatare, calmucche e meskete. Milioni di persone, con l'accusa di aver collaborato con gli occupanti tedeschi, furono trasferite nelle cosiddette 'zone speciali di popolamento' in Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Intere nazionalità, difficilmente assimilabili nelle strutture dello stato centralizzatore, scomparvero dalla carta politica, disseminate in luoghi distanti da quelli d'origine, nell'illusione di annullare popoli che avevano mantenuto consuetudini di resistenza (per esempio contro l'obbligo di uso del cirilico) e di insubordinazione contro il potere del regime di Mosca, sulla scia di una tradizione di ribellismo presente fin dai tempi degli Zar [1].
In alcune aree vicine, furono le stesse autorità politiche ad espellere con la forza popolazioni giudicate pericolose o comunque non omogenee alla nazionalità dominante: è il caso degli Ingusci, cacciati nel 1992 dall’Ossezia del nord e deportati in massa verso la confinante Inguscezia o dei Ceceni tra il 1994-95 e, una seconda volta, a partire dal 1999 (questione ancora aperta e sanguinosamente affrontata da Putin anche grazie alla scusa della lotta al terrorismo internazionale). Ma, un destino analogo toccò anche agli abitanti di nazionalità russa che, a seguito dei caotici rivolgimenti politici, vennero a trovarsi fuori dalla Federazione nella condizione di stranieri non graditi in quanto incarnazione di un dominio politico da cui, appunto, le nuove repubbliche caucasiche intendevano liberarsi.
3. Nei ultimi anni si è assistito alla penetrazione politica americana che ha ulteriormente peggiorato le cose. Un po' come in tutti i territori periferici ex-Urss o del Patto di Varsavia (Ucraina, Polonia, Balcani, Repubbliche centroasiatiche) anche nel Caucaso sono state sponsorizzate da Washington quelle rivoluzioni 'colorate' che avrebbero dovuto portare ad un nuovo corso. Tutto ciò non è avvenuto e, interessi delle compagnie petrolifere a parte - chi ne ha fatto le spese è stata la popolazione sottoposta alle rappresaglie russe, giustificate dopo il 2001 dalla lotta al terrorismo. La verità è che così come le altre aree citate, il Caucaso riveste un'importanza fondamentale nello smistamento delle risorse energetiche, in particolare quelle provenienti dall'Asia centrale e dal Caspio (grosso punto a sfavore per gli Usa) e diretti verso l'Europa. Gli Stati uniti sponsorizzano la cosiddetta “Baku-Ceyhan pipeline” (un gasdotto che partendo dalla capitale dell’Azerbaigian arriverebbe al porto turco di Ceyhan nel Mediterraneo passando per Tiblisi in Georgia ed evitando l’Armenia – ancora restia ad assoggettersi al volere di Washington) in antitesi al progetto russo del “Caspian consortium pipeline” (che invece partirebbe da Atyrau – porto kazako sul Caspio – per finire a Novorossisk sul Mar Nero – vicino la Crimea) che costringerebbe l’Ue a dipendere ancora di più dalla tenaglia energetica russa ed escluderebbe definitivamente gli Usa e le loro companies da ingenti guadagni. Senza contare la possibilità di far passare tutti i rifornimenti energetici dell’Iraq (ed eventualmente dell’Iran) tramite pipelines da costruire sul territorio turco – una volta portata all’interno del mercato comune europeo. Quegli stessi che, ad oggi, arrivano in Europa via mare, dallo stretto di Hormuz e poi dal canale di Suez – con costi decisamente più alti. A giudicare dal costante comportamento nei due mandati presidenziali, c'è da scommettere che Vladimir Putin non starà certo a guardare gli americani che fanno il bello e il cattivo tempo proprio sotto il suo naso.
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