giovedì 6 dicembre 2007

Il quinto Zar

1. Anche se in tono minore rispetto a quanto ci si attendeva, le elezioni parlamentari russe hanno definitivamente incoronato Vladimir Vladimirovic Putin quinto Zar di tutte le Russie. Ereditando le rovine dell’impero sovietico, in otto anni ha posto le basi per il nuovo impero russo, il quinto appunto – se si accetta la classificazione dello storico Philip Longworth – dopo quelli di Kiev (850 ca.-1240), di Mosca (1400 ca.-1605), dei Romanov (1613-1917) e dei bolscevichi (1918-1991)[1]. Quando nel 2000 Putin salì al potere la Russia era molto simile ad un immenso buco nero assoggettato all’egemonia americana, divorato da una lunga lista di oligarchi – a cominciare dalla combriccola di Eltsin – e sottoposto a derive indipendentiste di stampo etnico.
Sebbene gli oligarchi siano rimasti, è anche vero che la Russia macina cifre in termini economici impensabili in Europa: negli ultimi 8 anni il Pil è cresciuto ad una media del 6,5%, si è quasi dimezzato il numero di coloro che vive al di sotto della soglia di povertà e il tasso di disoccupazione è passato dal 10% al 7%. Pur non essendo la realtà esattamente così, sono dati che, da soli, basterebbero a spiegare l’enorme consenso di cui Putin gode. In politica estera ha restituito ad una Russia monca per le defezioni della sua periferia il ruolo di primo attore, brandendo sapientemente la più potente delle sue armi atomiche, quella energetica. Lo ha fatto cancellando de facto lo stato di diritto, seppellendo la democrazia. Ma i russi, spinti dal loro grande nazionalismo, amano i personaggi forti e si accontentano di quel po’ di miglioramento nelle condizioni economiche e di vita che effettivamente c’è stato, anche se per lo più concentrato nelle grandi città e per poche fasce sociali. Putin incarna il recupero della sovranità russa, a cominciare da quella parte del corpo imperiale provvisoriamente amputato ma destinato a riallacciarsi alla madrepatria, dove altri pretenderebbero di coltivare il loro orticello (in primis per motivi energetici Ucraina, Bielorussia, Kazakhistan, Armenia e Georgia). Ed arroga a sé, in un modo o nell'altro, una sorta di diritto morale di governare.

2. Con il voto per la Duma, la camera bassa del Parlamento, si è svolto in Russia il primo atto di una lunga marcia elettorale che si concluderà a marzo 2008 con le presidenziali. Costituita da 450 rappresentanti, ha il potere di proporre e approvare le leggi; esprime il consenso in merito alla nomina del Primo ministro da parte del Presidente; può votare la sfiducia al Governo e dare inizio alle procedure d’impeachment (messa in stato d’accusa del Presidente), ma la destituzione definitiva è prerogativa della Camera alta, il Consiglio della Federazione.
Questa è la quinta elezione dell’organo statale dal 1993, quando a guidare il paese c’era Boris Eltsin, l’artefice delle riforme shock nel campo dell’economia (breve rassegna delle precedenti elezioni). Ma con una nuova legge elettorale che - abolito il vecchio sistema metà proporzionale e metà maggioritario per un proporzionale secco - proibisce la formazione di blocchi, elimina dalla scheda l’opzione per votare ‘contro tutti i candidati’ (che aveva registrato un buon consenso 4 anni fa) e alza dal 5 al 7 per cento la soglia di sbarramento utile ad accedere alla Duma. Una vera catastrofe per i partiti di opposizione liberale, destinati a rimanere fuori della porta. I risultati sono stati impietosi.
L’affluenza alle urne è stata del 63%, dato molto importante e positivo per il Cremlino, che temeva una forte astensione la quale avrebbe potuto moralmente inficiare il voto. Ma così non è stato e – scontata vittoria di Putin a parte - sono solo 4 i Partiti che entrano nella Duma: Russia Unita con il 64,1%, Partito Comunista 11,6%, Partito liberal-democratico 8,2% e Russia Giusta 7,8%. Rimangono invece fuori le formazioni cosiddette liberali (filo-occidentali): oltre allo storico Yabloko, l’Unione delle forze di destra (Sps) e il Partito agrario (15 i partiti ammessi a partecipare – panoramica sistema partitico).
Scontati e – peraltro – evidenti, i brogli denunciati da più parti sono stati perentoriamente spediti da Vladimir al rispettivo mittente. Se lo può permettere. E’ lui che muove i fili nella nuova Russia. Alle prossime presidenziali dovrà lasciare l’incarico – come impone il dettato costituzionale – e, come lui stesso ha più volte ampiamente rassicurato, al Cremlino siederà un nuovo capo di stato. Ma ha sempre lasciato intendere di non pensare minimamente ad un futuro da pensionato, anzi di voler mantenere un ruolo di primo piano nella vita politica russa. In attesa, ovviamente, di tornare alle presidenziali successive dopo la pausa necessaria per non violare la Costituzione o, magari, un rientro ad interim in seguito a dimissioni anticipate: Putin ha studiato tutte le alternative e mosso tutte le pedine in quella che è sembrata essere una sua personalissima partita di scacchi. Il vero problema di questa ipotesi è il rischio di vedersi soffiare il posto da un presunto fantoccio che pensava di poter controllare. Le cose – la storia lo insegna - potrebbero andare in maniera diversa.
Altre ipotesi vorrebbero Putin avventurarsi – pur avendo attualmente i numeri - in un rischioso cambio di forma di governo (al fine di succedere a sé stesso diventando, per esempio, primo ministro di una repubblica parlamentare) o creare una figura ad hoc, ritagliata su misura, superiore agli altri organi già esistenti. Ma c’è chi dice che Putin potrebbe rimanere dietro le quinte per un po’ di tempo e piazzare semplicemente alcuni fedelissimi in quei posti chiave che ancora mancano alla sua fitta ragnatela di clientele – la cosiddetta ‘verticale del potere’.
Troppo giovane per andare in pensione, troppo esperto politicamente per ridursi a una carica (per esempio quella di primo ministro) dalla quale potrebbe essere facilmente rimosso dal nuovo Presidente - soprattutto dopo essere stato Presidente per due mandati e godendo tuttora di una popolarità enorme. Cosa succederà? Indicazioni forse decisive a metà dicembre quando vi sarà l’indicazione di Russia Unita per il suo candidato alle presidenziali di marzo.

3. Basta guardare la cartina geografica per capire che la Russia è un protagonista assoluto della geopolitica mondiale. Confina con tutti i principali attori - effettivi (Usa, Cina e Giappone a est) e aspiranti tali (Ue) – e il suo spazio consente di avere una posizione privilegiata nelle prossime partite geopolitiche, l’Artico ed il Caspio. A sud deve fronteggiare il separatismo islamista e nell’Asia centrale è impegnata nel controllo e nello smistamento delle immense risorse energetiche che possiede. Ma è a ridosso dei suoi confini che si addensano le nubi più grigie: dall’Artico al Baltico, dai Balcani al Mar Nero, fino al Caucaso e all’Afghanistan, a tutte le frontiere sensibili del territorio russo campeggia la Nato - ossia l’America con un vestito diverso, quello di chi fomenta e finanzia le rivoluzioni ‘colorate’ per annettere paesi ex-patto di Varsavia all’alleanza atlantica – e la prospettiva di uno scudo spaziale con missili intercettori piazzati davanti alla porta di casa accresce le fobie del Cremino e ne stimola la classica sindrome da accerchiamento. Paradossalmente, la fine della guerra fredda ha rimilitarizzato le relazioni russo-americane.
Bush ha occupato la Casa Bianca quando Putin aveva appena finito di arredare i suoi uffici al Cremlino, in un momento in cui l’élite americana considerava l’ex avversario sconfitto una specie di bacino dal quale attingere, un paese con un regime di affaristi preoccupati solo dei loro conti svizzeri, abitato da un popolo in fervida - quanto vana - attesa dei paradisi evocati dai neoliberisti di mezzo mondo. Otto anni dopo la Russia registra una decisa impennata nel termometro del potere mondiale, proprio mentre gli Usa si scoprono più deboli, non in grado di dettare l’agenda altrui e, anzi, sempre più bisognosi di tutti per rimanere almeno primi inter pares.
Le priorità geopolitiche di Putin partono dal recupero dei tre blocchi persi dopo la dissoluzione dell’Urss (Balcani, Ucraina e Bielorussia ad ovest, Caucaso a sud e Kazakhistan a sud-est), in particolare il Caucaso - il cosiddetto ‘estero interno’ vero e proprio buco nero dell’impero russo. Il secondo passo è quello di tenere agganciata l’Europa grazie alla tenaglia energetica, le cui ganasce si estendono dai rifornimenti che passano per i Balcani (e partono dalle riserve di gas dell’Asia centrale) al nuovo gasdotto del Baltico, il Nord Stream (il cui gas è quello siberiano che, in parte, va anche ad abbeverare il sistema industriale cinese). Infine, di fondamentale importanza sono le relazioni con i cinesi e – cosa che preoccupa non poco Washington – lo sviluppo della rete delle intese energetiche basate su contratti bilaterali a lunga scadenza con Pechino, l’India e le altre economie emergenti, che spazzerebbero via le companies americane e buona parte delle majors occidentali.L’atteggiamento e la strategia americana verso la Russia saranno, ad ogni modo, determinati dalla prossima presidenza Usa e influenzati dalle relazioni con la Cina, soprattutto per il ruolo che ha lo Yuan (o Renminbi cinese) nella copertura del debito a stelle e strisce. Se Washington vedrà in Pechino un rivale, avrà bisogno di Mosca per contenerlo, se, invece, individuerà nell’Impero di Mezzo un valido partner, la Russia scadrà nell’ottica della Casa Bianca a pedina secondaria. Ma in ogni caso, come hanno insegnato Nixon e Kissinger nei primi anni ’70 con la cosiddetta ‘diplomazia triangolare’, per Washington è vitale tenere la Cina ben separata dalle Russia. Solo una cosa è sicura: chiunque tratterà con Mosca avrà a che fare con lo Zar Putin.


NOTE:

[1] Fonte: Eurussia?, editoriale di Limes 6/2006, La Russia in casa.

[*] Per la vignetta - disegnata qualche mese fa in occasione del vertice Putin-Prodi nel quale si sarebbe dovuto trattare il tema dei diritti umani - si ringrazia il solito Marco Viviani.

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