giovedì 4 ottobre 2007

Sputnik, il giorno che le potenze iniziarono a mettere le mani sullo spazio

Il 4 ottobre 1957 l'allora Unione Sovietica, per la prima volta nella storia, lanciava nello spazio un satellite artificiale - lo Sputnik, in russo 'compagno di viaggio' - ponendo il problema delle norme applicabili alla navigazione cosmica. Capostipite di un più vasto programma di missioni spaziali, lo Sputnik 1 prese in contropiede gli Stati uniti, che solo il 31 gennaio 1958 sarebbero stati in grado di mandare in orbita il loro primo satellite: l'Explorer 1. In piena guerra fredda ciò significò la fine del cosiddetto mito dell'invulnerabilità Usa. Lo Sputnik, partito dalle steppe del Kazakistan, rimase in orbita per 57 giorni (di cui 21 con gli strumenti perfettamente funzionanti) fino a bruciare durante il rientro in atmosfera il 3 gennaio 1958 dopo circa 1.400 orbite e 70.000.000 km.
Se nei primi anni '50 si erano regolamentate le "zone di identificazione aerea" in deroga al principio consuetudinario della libera utilizzazione dello spazio aereo internazionale, con la corsa allo spazio - e dal momento che nessuno Stato sollevò proteste al lancio dei russi - si venne a formare in pochi anni una consuetudine istantanea (instant custom), ossia una norma internazionale consuetudinaria che prevede la libertà di utilizzazione dello spazio cosmico sovrastante i territori sottoposti alla giurisdizione degli Stati. Resta ancora poco chiaro in merito al dibattito all'interno delle Nazioni Unite (COPUOS - Comitato delle Nazioni Unite per le utilizzazioni pacifiche dello spazio cosmico) il problema della delimitazione dello spazio cosmico dallo spazio aereo. Tra i vari criteri proposti figurano il limite dell'atmosfera, il limite della massima altitudine raggiungibile da un aereo, il limite dell'attrazione gravitazionale, il limite del più basso perigeo di un satellite artificiale e il limite di una distanza prestabilita dalla superficie terrestre.
Sta di fatto che il Trattato sui principi che regolano le attività degli Stati nell'esplorazione e utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, inclusa la luna e gli altri corpi celesti, è stato concluso il 27 gennaio 1967 ed è entrato in vigore il 10 ottobre dello stesso anno. In esso si stabilisce che lo spazio cosmico non possa " formare oggetto di appropriazione nazionale attraverso proclamazioni di sovranità o atti di utilizzazione o occupazione" (art. 2), né essere utilizzato per fini militari e in particolare con armi nucleari (art. 4); definisce gli astronauti "inviati dell'umanità" nei cui confronti gli Stati contraenti si impegnano a fornire "tutta l'assistenza possibile in caso di incidente, avaria o atterraggio forzato sul territorio di un altro Stato contraente o di ammaraggio in alto mare" (art. 5), sancisce la responsabilità dello Stato di lancio per i danni causati da attività cosmiche svolte sia da Stati che da organizzazioni internazionali (con corresponsabilità dei loro Stati membri) e da enti privati sotto la "continua sorveglianza" dello Stato "appropriato" (artt. 6 e 7) e sottopone gli oggetti spaziali e il relativo equipaggio alla giurisdizione e al controllo dello Stato presso cui l'oggetto è registrato (art. 8).
In seguito sono stati conclusi numerosi altri accordi internazionali che completano e specificano il trattato del 27 gennaio 1967, ma la linea di continuità mostra una tendenza a rimanere sul vago e ad addossare agli Stati il minimo dei doveri possibili. Per esempio, l'Accordo regolante le attività degli Stati sulla luna e gli altri corpi celesti - firmato a New York il 5 dicembre 1979 - che definisce (art. 11, par. 1) il nostro satellite come "patrimonio comune dell'umanità", è stato ratificato da pochissimi Stati, fra i quali non figurano le maggiori Potenze spaziali: il timore era quello che il principio richiamato - che all'epoca stava per essere accolto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare con riguardo alle risorse dei fondali oceanici - obbligasse gli Stati dotati della necessaria tecnologia per raggiungere la luna e sfruttarne le eventuali risorse naturali a ripartire i proventi dello sfruttamento con gli altri Stati.

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