Da anni si dice che l'Italia è un paese vecchio, il più vecchio d'Europa. I numeri non permettono di confutare: il 5% della popolazione è ultraottantenne, il 19,5% ha più di 65 anni e il rapporto tra essi e gli under 14 è di 138 su 100. Ottimo segno per i progressi della medicina e della qualità della vita, che non basta, però, a spiegare il fenomeno: si invecchia bene, ma si nasce poco. L'aspetto più preoccupante è rappresentato dal fatto che questo consistente estratto della popolazione controlla la vita del paese, relegando i cosiddetti giovani alla stregua di una minoranza da proteggere. Ma mal protetta.
Ciò è evidente un po' in tutti gli ambiti, a cominciare dalla politica. Il premier Prodi ha 67 anni e il capo dell'opposizione Berlusconi lo distanzia per eccesso di 3. In Europa, Blair ha 53 anni - ed è presumibilmente alla fine della sua lunga carriera politica - così come il suo omologo francese, la Merkel ne ha 52, Zapatero 46, mentre tra i più giovani si attestano il primo ministro svedese (41) e il pari grado della Repubblica Ceca (addirittura 35!).
Stesso trend in Parlamento: età anagrafica decisamente matura alla Camera, mentre al Senato, solo per fare un esempio, i responsabili dell' inciampo del governo vanno dai 60 anni per i dissidenti Turigliatto e Rossi - due giovincelli - agli 89 del febbricitante Scalfaro, passando per i 79 del picconatore Cossiga, gli 81 di Pininfarina e gli 88 di Andreotti - presente sotto svariate vesti in tutte le legislature. Quando si dice cristallizzazione del potere. Certo, è normale che i senatori a vita siano avanti con gli anni, ma non credo che il Costituente li abbia posti con l'intenzione di affidargli le sorti e il futuro della Repubblica. Casualità, forse, ma sintomatica.
Le cose non migliorano all'interno della società civile. Sorvolando su avvocati, magistrati e notai (sic!), drammatico è il dato relativo a coloro che dovrebbero preservare la continuità della specie, ossia i professori universitari: tra loro (ordinari, associati o ricercatori che siano) il 42% supera la soglia dei 50, il 22,5% quella dei 60, mentre quasi il 5% sono coloro che ne hanno meno di 35 - ed è anche facile presumere che siano per la maggiorparte ricercatori. A termine di paragone, in Gran Bretagna solo il 9% ha più di 60 anni e il 16% è sotto i 35. Senza contare - e questo lo sa chiunque abbia frequentato un'università - che in molti casi alcuni docenti sono titolari di più cattedre, a volte anche in atenei di città diverse. Stessa linea di continuità se ci si sposta nel settore privato. Secondo uno studio della Banca d'Italia la media dei managers delle imprese italiane è di 61 anni, tenendo conto, quale aggravante, che tra i posti di maggior prestigio e potere il 30% supera tale media e il 22,4% si attesta intorno ai 70.
Insomma, il mondo va avanti sempre più veloce e noi fatichiamo a stargli dietro. Le idee, il modo di pensare, tutto intorno a noi cambia nel giro di pochi anni, ma le persone che decidono le sorti del paese sono sempre quelle di 40 anni fa, con poche eccezioni. Certo, niente garantisce che con i giovani nel ruolo di protagonisti verrebbero risolti i problemi che affliggono la nostra società. Ma - alzate la mano - chi se la sente di dire che l'odierna situazione è rassicurante?
Quello che sembra essere diventato una sorta di scontro generazionale riceve benzina sul fuoco da due temi ultimamente molto dibattuti: da una parte, l'annoso problema del sistema pensionistico italiano di cui Bruxelles richiede aggiustamenti - quello contributivo basato sulla riforma Dini del 1995 - e dall'altro, la piaga (ormai definibile sociale) del precariato, elevato a principio sacro in nome di una flessibilità che trova espressione in un'incompleta legge 30. Intendiamoci: la flessibilità va bene, ma quando prelude a qualcosa di più concreto, non quando costituisce la regola.
I due nodi sono intimamente legati e anche un non esperto - come me del resto - è in grado di capirlo e di chiedersi: se è vero che fra un po' non saremo più in grado di pagare le pensioni, dal momento che sempre meno nascono e, di conseguenza, sempre meno lavorano, che senso ha prevedere contratti di precariato? Non sarebbe più opportuno creare veri ed effettivi nuovi posti di lavoro? E soprattutto, come farà un giovane ad accumulare quei contributi necessari alla sua di pensione se è letteralmente preda di contratti che di fatto lo rendono alla mercè di questa o quella esigenza? Scalone, scalini o coefficienti, il vero problema a mio modo di vedere sta proprio qui...