mercoledì 28 marzo 2007

Standing on the edge


*si ringrazia il mitico Marco Viviani

martedì 20 marzo 2007

Crimini

Come c'era da aspettarsi, la campagna israeliana di distruzione del Libano, dopo qualche clamore estivo, è finita nel dimenticatoio. Abilmente insabbiata dai media occidentali, la condotta democratica dello stato sionista è ben lungi da essere etichettata per quello che realmente rappresenta: un crimine contro l'umanità. Per fortuna, un rapporto di Amnesty International (“Deliberate destruction or collateral demage? Israeli attacks on civilian infrastructure”) denuncia la deliberata distruzione delle infrastrutture civili libanesi e chiede alle Nazioni Unite l’apertura di un’inchiesta indipendente sulle gravi violazioni del diritto umanitario perpetrate da Israele. Come ha dichiarato, infatti, Kate Gilmor, vicesegretaria generale di Amnesty “L’affermazione che gli attacchi alle infrastrutture civili erano legali è palesemente errata […] molte delle violazioni identificate nel nostro rapporto costituiscono crimini di guerra, tra cui attacchi indiscriminati e sproporzionati […] le prove raccolte lasciano intendere che la massiccia distruzione di impianti idrici ed elettrici, così come quella di infrastrutture vitali per la fornitura di cibo e di altri aiuti umanitari, sia stata parte integrante di una strategia militare […] il modello ricorrente, l’estensione e la scala degli attacchi rende il riferimento ai ‘danni collaterali’ semplicemente non credibile […] la grave natura delle violazione commesse rende, quindi, urgente un’inchiesta sulla condotta di entrambe le parti”.
Senza contare che molte fotografie testimonierebbero il bombardamento israeliano di campi di accoglienza profughi e persino dei mezzi della Croce Rossa Internazionale (CRI). Ma non è tutto: esse testimonierebbero anche l'uso da parte di tsahal di armi vietate dal diritto internazionale. Il dottor Azmi Imad, capo del dipartimento per la Salute Ambientale dell’American University a Beirut, ha spiegato che “solitamente i gas usati nelle armi hanno un effetto simile a quello dei pesticidi”, ma non ha potuto affermare con certezza, basandosi per ora sui pochi dati disponibili, se Israele abbia realmente fatto uso di armi chimiche o biologiche (batteriche o virali) nella guerra contro il Libano.
“Estremità lacerate, odore terrificante, segni di bruciature senza che siano state veramente bruciate, una morte rapida causata da uno spegnimento improvviso del sistema nervoso accompagnato dalla coagulazione del sangue che impedisce le emorragie”. Per queste rilevazioni alcuni osservatori hanno suggerito che Israele potrebbe aver usato un qualche tipo di gas tossico o di munizioni chimiche nelle bombe dirette ai civili, il che consentirebbe di parlare di gravissimi crimini e violazioni del diritto internazionale umanitario.

martedì 13 marzo 2007

La carica dei vecchietti e il miraggio della pensione per la generazione futura: storie di ordinario precariato

Da anni si dice che l'Italia è un paese vecchio, il più vecchio d'Europa. I numeri non permettono di confutare: il 5% della popolazione è ultraottantenne, il 19,5% ha più di 65 anni e il rapporto tra essi e gli under 14 è di 138 su 100. Ottimo segno per i progressi della medicina e della qualità della vita, che non basta, però, a spiegare il fenomeno: si invecchia bene, ma si nasce poco. L'aspetto più preoccupante è rappresentato dal fatto che questo consistente estratto della popolazione controlla la vita del paese, relegando i cosiddetti giovani alla stregua di una minoranza da proteggere. Ma mal protetta.
Ciò è evidente un po' in tutti gli ambiti, a cominciare dalla politica. Il premier Prodi ha 67 anni e il capo dell'opposizione Berlusconi lo distanzia per eccesso di 3. In Europa, Blair ha 53 anni - ed è presumibilmente alla fine della sua lunga carriera politica - così come il suo omologo francese, la Merkel ne ha 52, Zapatero 46, mentre tra i più giovani si attestano il primo ministro svedese (41) e il pari grado della Repubblica Ceca (addirittura 35!).
Stesso trend in Parlamento: età anagrafica decisamente matura alla Camera, mentre al Senato, solo per fare un esempio, i responsabili dell' inciampo del governo vanno dai 60 anni per i dissidenti Turigliatto e Rossi - due giovincelli - agli 89 del febbricitante Scalfaro, passando per i 79 del picconatore Cossiga, gli 81 di Pininfarina e gli 88 di Andreotti - presente sotto svariate vesti in tutte le legislature. Quando si dice cristallizzazione del potere. Certo, è normale che i senatori a vita siano avanti con gli anni, ma non credo che il Costituente li abbia posti con l'intenzione di affidargli le sorti e il futuro della Repubblica. Casualità, forse, ma sintomatica.
Le cose non migliorano all'interno della società civile. Sorvolando su avvocati, magistrati e notai (sic!), drammatico è il dato relativo a coloro che dovrebbero preservare la continuità della specie, ossia i professori universitari: tra loro (ordinari, associati o ricercatori che siano) il 42% supera la soglia dei 50, il 22,5% quella dei 60, mentre quasi il 5% sono coloro che ne hanno meno di 35 - ed è anche facile presumere che siano per la maggiorparte ricercatori. A termine di paragone, in Gran Bretagna solo il 9% ha più di 60 anni e il 16% è sotto i 35. Senza contare - e questo lo sa chiunque abbia frequentato un'università - che in molti casi alcuni docenti sono titolari di più cattedre, a volte anche in atenei di città diverse. Stessa linea di continuità se ci si sposta nel settore privato. Secondo uno studio della Banca d'Italia la media dei managers delle imprese italiane è di 61 anni, tenendo conto, quale aggravante, che tra i posti di maggior prestigio e potere il 30% supera tale media e il 22,4% si attesta intorno ai 70.
Insomma, il mondo va avanti sempre più veloce e noi fatichiamo a stargli dietro. Le idee, il modo di pensare, tutto intorno a noi cambia nel giro di pochi anni, ma le persone che decidono le sorti del paese sono sempre quelle di 40 anni fa, con poche eccezioni. Certo, niente garantisce che con i giovani nel ruolo di protagonisti verrebbero risolti i problemi che affliggono la nostra società. Ma - alzate la mano - chi se la sente di dire che l'odierna situazione è rassicurante?
Quello che sembra essere diventato una sorta di scontro generazionale riceve benzina sul fuoco da due temi ultimamente molto dibattuti: da una parte, l'annoso problema del sistema pensionistico italiano di cui Bruxelles richiede aggiustamenti - quello contributivo basato sulla riforma Dini del 1995 - e dall'altro, la piaga (ormai definibile sociale) del precariato, elevato a principio sacro in nome di una flessibilità che trova espressione in un'incompleta legge 30. Intendiamoci: la flessibilità va bene, ma quando prelude a qualcosa di più concreto, non quando costituisce la regola.
I due nodi sono intimamente legati e anche un non esperto - come me del resto - è in grado di capirlo e di chiedersi: se è vero che fra un po' non saremo più in grado di pagare le pensioni, dal momento che sempre meno nascono e, di conseguenza, sempre meno lavorano, che senso ha prevedere contratti di precariato? Non sarebbe più opportuno creare veri ed effettivi nuovi posti di lavoro? E soprattutto, come farà un giovane ad accumulare quei contributi necessari alla sua di pensione se è letteralmente preda di contratti che di fatto lo rendono alla mercè di questa o quella esigenza? Scalone, scalini o coefficienti, il vero problema a mio modo di vedere sta proprio qui...

sabato 10 marzo 2007

mercoledì 7 marzo 2007

Occasioni sprecate

Il secondo anniversario dell'uccisione di Calipari (4 marzo 2005) offre l'occasione per alcune riflessioni. Le già tese relazioni con Washington - specchio di una situazione che va avanti da un po' - hanno ricevuto benzina sul fuoco dalla presa di posizione della procura di Roma (8 febbraio) in merito alla vicenda. Per il dipartimento di difesa americano il caso è "chiuso". Per il gup Sante Spinaci, invece, il caso è quantomai aperto: non si limita al rinvio a giudizio e all'indicazione della data di apertura della discussione in Corte d'Assise (17 aprile), ma scrive alcune pagine che smontano la versione Usa e gettano pesanti dubbi sul comportamento dei "nostri alleati".
I toni sono forti: "La condotta di Lozano appare sorretta da dolo diretto, finalizzata a raggiungere l'obiettivo di bloccare l'autovettura anche mediante il ferimento e la morte dei suoi occupanti. Eventi questi certamente previsti e alternativamente voluti [...] l'insussistenza dell'esimente dall'adempimento di un dovere derivante da un ordine" sarebbe provata dalla "macroscopica violazione delle basilari regole d'ingaggio". Pesante anche il commento sui tentativi Usa di ostacolare l'inchiesta italiana, dal momento che "non è stato conservato lo stato dei luoghi, sono stati rimossi i veicoli e distrutti i diari dei servizi di quella sera".Dopo non aver voluto in alcun modo partecipare al processo penale, si tratta di vedere se "i nostri alleati" vorranno almeno accettare quello civile. Processo che quindi si farà, ma solo in contumacia - gli americani non accettano di estradare. Ad ogni modo un segnale di forte dissenso.
Nel giro di pochi mesi concediamo il raddoppio di una base sul nostro territorio, ingoiamo un'interferenza diplomatica quantomeno indebita e arrogante, confermiamo il nostro impegno a favore di una guerra preventiva da loro scatenata e cosa riceviamo? Ma più che altro cosa abbiamo chiesto ai "nostri alleati"? Semplicemente la possibilità di poter processare - perché noi li processiamo, non li impicchiamo - il presunto colpevole, per provare, appunto, se lo è. La vicenda si colloca nell'ambito del problema del mancato riconoscimento reciproco della giurisdizione, nonostante diversi trattati - anche bilaterali - di cooperazione giudiziaria e l'elemento importante è rappresentato dall'aver fatto emergere la sussistenza di un delitto politico: oltre alla morte di un uomo è stato colpito un interesse "supremo" dello Stato.
Da Washington risponderanno sicuramente "picche" e terranno lo stesso comportamento se dovessimo eventualmente richiedere la rogatoria per gli agenti Cia responsabili del rapimento di Abu Omar.
Già...Abu Omar! Proprio in questi giorni la vicenda è tornata alla ribalta, come sempre poco pubblicizzata - perché l'opinione pubblica italiana non deve sapere. Da Washington, per bocca di John Bellinger, consulente legale del segretario di stato Condi Rice, esprimono a chiare lettere il categorico rifiuto ad ogni richiesta di estradizione degli 007 americani, mentre la Farnesina ha scaricato la patata bollente al ministero di Grazia e Giustizia. E così, messo alle strette, il ministro Mastella ha annunciato che, dopo il silenzio in cui si era trincerato per mesi, è pronto ad intervenire in Commissione Giustizia di Palazzo Madama. Ancora una decina di giorni, dunque, e sapremo la decisione sulla richiesta di estradizione presentata dell'autorità giudiziaria milanese.
Ma esiste anche un'altra possibilità: l'intervento della Corte Costituzionale, l'unica in grado di togliere il governo dall'imbarazzo nel gestire la vicenda. Nelle scorse settimane, infatti, l'esecutivo ha presentato un ricorso alla Corte, ipotizzando la presunta violazione del segreto di stato da parte dei magistrati (i pm Spataro e Pomarici) titolari dell'inchiesta sul sequestro dell'ex imam di Milano. Se il ricorso dovesse essere accolto, non solo la questione dell'estradizione riceverebbe un colpo mortale, ma anche il processo che partirà l'8 giugno prossimo - e che vede tra gli imputati l'ex direttore del Sismi, Niccolò Pollari - potrebbe fermarsi. Ciò, nonostante Human Rights Watch abbia denunciato la sparizione di 38 prigionieri e l'Europarlamento abbia approvato (14 febbraio) il rapporto sulle extraordinary rendition e le attività illegali della Cia in Europa.
Silenzio colpevole degli stati europei a parte, quello che preoccupa di più è la chiave di lettura che gli americani danno all'intera vicenda, non solo assolutoria ma anche rivendicativa. Come dire: questo è il modo con cui si combatte il terrorismo. Superando il diritto internazionale, creando un doppio binario per gli imputati di terrorismo, svuotando le procedure giudiziarie, azzerando le garanzie processuali, pretendendo su questo di avere piena copertura dai governi alleati. Non andare contro a questo sistema è un delitto. E queste sono tutte occasioni sprecate.

giovedì 1 marzo 2007

La privatizzazione della Luna

Alcuni giorni fa sono rimasto letteralmente esterrefatto da un servizio al tg1 nel quale si parlava di privatizzare la Luna. In particolare, si vedevano immagini ed interviste di gente che usciva da un ufficio a Gerusalemme con un contratto di compravendita in mano (per saperne di più su questa vicenda e sui trattati internazionali riguardanti il regime giuridico del nostro satellite cliccare qui). Stentavo a credere ai miei occhi e alle mie orecchie. Diversi giovani israeliani, intervistati, dichiaravano di aver comprato alcuni acri del suolo lunare ad un prezzo "decisamente conveniente", se non altro perché "il valore è destinato ad aumentare".
Subito una domanda ha preso strada tra i miei neuroni e le mie sinapsi: perché non se la comprano tutta e ci vanno a vivere restituendo le terre che hanno indebitamente espropriato ai loro legittimi abitanti?

Links (in inglese):
http://www.lunarregistry.com/info/faq.shtml
http://www.geocities.com/moonsayles/