domenica 28 ottobre 2007

The pot calls the kettle black

Da che pulpito viene la predica. Un giudice di Los Angeles ha negato all’Italia l’estradizione di un membro della famiglia mafiosa dei Gambino, sostenendo che il regime di detenzione 41bis a cui sarebbe con ogni probabilità destinato equivale a una forma di tortura e viola la convenzione dell’Onu in materia. Rosario Gambino, inseguito da un mandato di cattura italiano e ritenuto un esponente di spicco dell’omonimo clan di Cosa Nostra newyorchese, si trova attualmente in un centro di detenzione per immigrati a San Pedro, in California, dove è stato trasferito in seguito alla richiesta di estradizione. Il giudice federale D.D.Sitgraves però ha bloccato l’estradizione, accogliendo il ricorso del difensore di Gambino, Joseph Sandoval. L'agenzia federale statunitense per l'immigrazione ha presentato appello contro la decisione del giudice Sitgraves e Rosario Gambino resterà detenuto in attesa della revisione del caso.
L'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (legge sull'ordinamento penitenziario) prevede la possibilità per il Ministro della Giustizia di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti previste dalla stessa legge in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza ovvero, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, nei confronti dei detenuti (anche in attesa di giudizio) per reati di criminalità organizzata, terrorismo o eversione. In questo secondo caso la legge specifica le misure applicabili tra cui le principali sono il rafforzamento delle misure di sicurezza con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza, restrizioni nel numero e nella modalità di svolgimento dei colloqui, la limitazione della permanenza all'aperto (cosiddetta "ora d'aria"), la censura della corrispondenza.
Un paese che applica ancora - e con una certa frequenza - la pena di morte, tollera e, anzi, autorizza la tortura di detenuti e ha, con una legislazione pesante, eroso progressivamente la sfera di libertà dei suoi stessi cittadini, viene a dare lezioni di garantismo a noi. E tutto passa nel più sconcertante silenzio della nostra stampa.


sabato 27 ottobre 2007

Abbiano almeno la decenza di pesare le parole che usano

Da diverso tempo si parla dei privilegi di cui gode quella parte del popolo italiano che gestisce la cosa pubblica, tanto che si è coniato un nuovo termine - "antipolitica" - con il quale è designata l'altra parte del popolo - quella che, appunto, si lamenta. I privilegi per la classe politica sono sempre esistiti e sempre esisteranno, anche perché altrimenti farebbero politica solo quei pochi che hanno risorse da investire e non devono, quindi, necessariamente lavorare per vivere. Almeno nei sistemi cosiddetti "democratici", a partire dai greci, è sempre stato così.
Si può, quindi, anche concedere a costoro certi privilegi. Del resto ognuno di noi stipula alla nascita una sorta di patto (contratto, direbbe qualcuno) non scritto con il quale cede l'autorità su sé stesso ad una fantomatica (di questi tempi è proprio il caso di dirlo) e distantissima entità chiamata Stato. Ci si aspetta, in cambio, che sia in grado di fare gli interessi di tutti, ciò che è meglio per l'intero paese. Purtroppo questo in Italia non accade a causa di una classe politica incapace e ormai troppo vecchia, frutto del suo auto-perpetuarsi.
Ora, anche quando la classe politica sia incapace, si suppone che non abbia almeno l'arroganza di usare parole che potrebbero fomentare grosse spaccature tra coloro ai quali devono la propria legittimazione a governare.
Anche questo in Italia non accade. E, allora, il ministro Padoa Schiappa si permette di definire "bamboccioni" coloro che rappresentano il futuro del paese, un futuro che lui e gli altri non vedranno mai. E non subiranno le conseguenze delle loro azioni. Come quella di Mastella che, di fatto, elimina un magistrato a lui scomodo e minaccia la caduta del fragile governo se tutto il calderone scoperchiato non viene al più presto messo a tacere. Ancora una volta.

mercoledì 24 ottobre 2007

domenica 7 ottobre 2007

Se la voglia di verità uccide: un ricordo di Anna Politkovskaja

Il 7 ottobre di un anno fa Anna Politkovskaja, giornalista investigativa russa, veniva trovata morta nell'ascensore di un palazzo di Mosca. Era appena rincasata. La pista immediatamente seguita - e anche l'unica plausibile - è stata quella dell'omicidio su commissione, anche se ancora oggi il mandante è sconosciuto.
Ma a dispetto di quanto sosteneva Orwell, 2+2 fa sempre 4: la Politkovskaja, infatti, era una giornalista vera, una che amava il suo lavoro, lo svolgeva con grande dedizione e aveva una particolare passione per la verità. Per anni si era dedicata a scrivere quello che vedeva e quello che sapeva sugli orrori commessi in Cecenia dall'esercito russo. E aveva indicato a più riprese quali colpevoli di quelle ingiustizie Vladimir Putin e Ramsan Kadyrov.
Era, insomma, un'impicciona, una che chiacchierava troppo, una che poneva interrogativi scomodi (come dimostrano i tentativi di fare da mediatore per i fatti di Beslan - occasione nella quale non potè neanche iniziare a causa di un probabile tentativo di avvelenamento - e del teatro Dubrovka a Mosca) e andava quindi messa a tacere. Perché faceva paura al Cremlino.
Ha lasciato a tutti noi un'eredità enorme, anche se non la riceveremo mai nella sua interezza: un’inchiesta sulle torture in Cecenia non potrà mai essere pubblicata dal suo giornale, la Novaja Gazeta, perché la polizia russa come prima misura dopo la sua morte sequestrò tutti i suoi documenti, archivi, foto, etc. contenuti nel suo pc trovato nel suo modesto appartamento, anche se alcuni appunti sfuggiti al sequestro vennero pubblicati il 9 ottobre 2006.
Anna sapeva benissimo di essere nel mirino di coloro che aveva avuto il coraggio di denunciare all'opinione pubblica russa e mondiale. E lo aveva espressamente dichiarato anche nella sua ultima intervista.
Mi piace allora ricordarla con le sue stesse parole, quelle impresse nell'ultima pagina di un suo libro (Diario russo - 2003/2005) in un capitolo non a caso intitolato "Ho o non ho paura?". Sperando che un giorno anche gli altri 'giornalisti', soprattutto quelli di casa nostra, possano prendere esempio da lei e iniziare a scrivere quello che è realmente importante, a fare domande vere e a far sorgere nei lettori i legittimi dubbi che, invece, vengono oggi celati, nascosti, insabbiati, fatti passare sotto silenzio.
"Mi dicono spesso che sono pessimista, che non credo nella forza della gente, che ce l'ho con Putin e non vedo altro. Vedo tutto, io. E' questo il mio problema. Vedo le cose belle e vedo le brutte. Vedo che le persone vogliono cambiare la loro vita per il meglio, ma che non sono in grado di farlo e che per darsi un contegno continuano a mentire a sé stesse per prime, concentrandosi sulle cose positive e facendo finta che le negative non esistano. Per il mio sistema di valori, è la posizione del fungo che si nasconde sotto la foglia. Lo troveranno comunque, è praticamente certo, lo raccoglieranno e se lo mangeranno. Per questo, se si è nati uomini non bisogna fare i funghi. [...] Per il momento non si vedono cambiamenti. Il potere rimane sordo a ogni 'segnale d'allarme' che viene dall'esterno, dalla gente. Vive solo per sé stesso. Con stampato in faccia il marchio dell'avidità e del fastidio che qualcuno possa ostacolare la sua voglia di arricchirsi. Lo scopo è far sì che nessuno glielo impedisca: la società civile va calpestata e la gente convinta giorno dopo giorno che opposizione e opinione pubblica si nutrono al piatto della Cia, dello spionaggio inglese, israeliano e finanche marziano, oltre che alla ragnatela globale di al-Qaeda. Oggi come oggi il potere è solo un modo per fare soldi. E basta. Del resto non ci si cura. Se qualcuno ha la forza di godersi la previsione 'ottimistica', faccia pure. E' certamente la via più semplice. Ma è anche una condanna a morte per i nostri nipoti".
La sua di condanna a morte, purtroppo per lei e per noi, era già stata scritta.

Bibliografia (edizioni italiane):
- Cecenia, il disonore russo, Fandango, Roma, 2003 (un estratto: "Russia's secret Heroes")
- La Russia di Putin, Adelphi, Milano, 2005
- Proibito parlare, Mondadori, Milano, 2007
- Diario russo 2003-2005, Adelphi, Milano, 2007

Altre letture:
- "Ti chiamano terrorista" (l'ultimo articolo di Anna Politkovskaja)
- "Il mio lavoro a ogni costo" (saggio rimasto a lungo inedito)

giovedì 4 ottobre 2007

Sputnik, il giorno che le potenze iniziarono a mettere le mani sullo spazio

Il 4 ottobre 1957 l'allora Unione Sovietica, per la prima volta nella storia, lanciava nello spazio un satellite artificiale - lo Sputnik, in russo 'compagno di viaggio' - ponendo il problema delle norme applicabili alla navigazione cosmica. Capostipite di un più vasto programma di missioni spaziali, lo Sputnik 1 prese in contropiede gli Stati uniti, che solo il 31 gennaio 1958 sarebbero stati in grado di mandare in orbita il loro primo satellite: l'Explorer 1. In piena guerra fredda ciò significò la fine del cosiddetto mito dell'invulnerabilità Usa. Lo Sputnik, partito dalle steppe del Kazakistan, rimase in orbita per 57 giorni (di cui 21 con gli strumenti perfettamente funzionanti) fino a bruciare durante il rientro in atmosfera il 3 gennaio 1958 dopo circa 1.400 orbite e 70.000.000 km.
Se nei primi anni '50 si erano regolamentate le "zone di identificazione aerea" in deroga al principio consuetudinario della libera utilizzazione dello spazio aereo internazionale, con la corsa allo spazio - e dal momento che nessuno Stato sollevò proteste al lancio dei russi - si venne a formare in pochi anni una consuetudine istantanea (instant custom), ossia una norma internazionale consuetudinaria che prevede la libertà di utilizzazione dello spazio cosmico sovrastante i territori sottoposti alla giurisdizione degli Stati. Resta ancora poco chiaro in merito al dibattito all'interno delle Nazioni Unite (COPUOS - Comitato delle Nazioni Unite per le utilizzazioni pacifiche dello spazio cosmico) il problema della delimitazione dello spazio cosmico dallo spazio aereo. Tra i vari criteri proposti figurano il limite dell'atmosfera, il limite della massima altitudine raggiungibile da un aereo, il limite dell'attrazione gravitazionale, il limite del più basso perigeo di un satellite artificiale e il limite di una distanza prestabilita dalla superficie terrestre.
Sta di fatto che il Trattato sui principi che regolano le attività degli Stati nell'esplorazione e utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, inclusa la luna e gli altri corpi celesti, è stato concluso il 27 gennaio 1967 ed è entrato in vigore il 10 ottobre dello stesso anno. In esso si stabilisce che lo spazio cosmico non possa " formare oggetto di appropriazione nazionale attraverso proclamazioni di sovranità o atti di utilizzazione o occupazione" (art. 2), né essere utilizzato per fini militari e in particolare con armi nucleari (art. 4); definisce gli astronauti "inviati dell'umanità" nei cui confronti gli Stati contraenti si impegnano a fornire "tutta l'assistenza possibile in caso di incidente, avaria o atterraggio forzato sul territorio di un altro Stato contraente o di ammaraggio in alto mare" (art. 5), sancisce la responsabilità dello Stato di lancio per i danni causati da attività cosmiche svolte sia da Stati che da organizzazioni internazionali (con corresponsabilità dei loro Stati membri) e da enti privati sotto la "continua sorveglianza" dello Stato "appropriato" (artt. 6 e 7) e sottopone gli oggetti spaziali e il relativo equipaggio alla giurisdizione e al controllo dello Stato presso cui l'oggetto è registrato (art. 8).
In seguito sono stati conclusi numerosi altri accordi internazionali che completano e specificano il trattato del 27 gennaio 1967, ma la linea di continuità mostra una tendenza a rimanere sul vago e ad addossare agli Stati il minimo dei doveri possibili. Per esempio, l'Accordo regolante le attività degli Stati sulla luna e gli altri corpi celesti - firmato a New York il 5 dicembre 1979 - che definisce (art. 11, par. 1) il nostro satellite come "patrimonio comune dell'umanità", è stato ratificato da pochissimi Stati, fra i quali non figurano le maggiori Potenze spaziali: il timore era quello che il principio richiamato - che all'epoca stava per essere accolto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare con riguardo alle risorse dei fondali oceanici - obbligasse gli Stati dotati della necessaria tecnologia per raggiungere la luna e sfruttarne le eventuali risorse naturali a ripartire i proventi dello sfruttamento con gli altri Stati.

martedì 2 ottobre 2007

Birmania, la scoperta dell'acqua calda

Nell'ultima settimana la cosiddetta "comunità internazionale" si è improvvisamente accorta che qua e là per il mondo esistono dittature che opprimono il popolo dello Stato sotto il loro controllo. Hanno, insomma, scoperto l'acqua calda.

UN PO' DI STORIA - Indipendente dalla Gran Bretagna dal 1948, la Birmania è stata governata per oltre un quarto di secolo (1962-1988) dalla dittatura militare di stampo socialista del generale Ne Win. La "Via Birmana al Socialismo" di Ne Win passa attraverso l'accentramento del potere in un partito unico, la nazionalizzazione delle imprese e la soppressione della stampa indipendente. Il Paese sprofonda in una drammatica crisi economica e sociale e iniziano le rivolte delle guerriglie indipendentiste ai confini orientali.
Nel 1988 scoppiano le prime proteste popolari delle opposizioni e delle minoranze vittime della politica razzista del regime (dominato dalla popolazione maggioritaria birmana). La nuova giunta militare al potere, Consiglio per il Ripristino della Legge e dell'Ordine dello Stato (Slorc), reagisce uccidendo e arrestando migliaia di persone e ricorrendo sistematicamente alla tortura. Aung San Suu Kyi, leader del principale partito d'opposizione, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) - e premio Nobel per la Pace nel 1991 - viene messa agli arresti domiciliari (vi resterà fino al 1995). Nell'89 i generali cambiano il nome della Birmania in Myanmar e della sua capitale Rangoon in Yangon. In seguito a una crescente pressione internazionale, i militari al potere consentono libere elezioni multipartitiche nel 1990. L'opposizione del Ndl ottiene una vittoria schiacciante, ma la giunta decide di annullare il voto e riprendere il potere.
Lo Slorc, capeggiato dal generale Saw Maung, impone la legge marziale, incarcera tutti gli oppositori politici e intensifica la persecuzione delle popolazioni karen e shan. Per combattere i loro movimenti indipendentisti che contendono a Yangon il controllo del Triangolo d'oro (le regioni di frontiera con Thailandia, Laos e Cina ricche di piantagioni d'oppio e crocevia del narcotraffico internazionale) la giunta scatena un vero e proprio genocidio, con massacri di civili e deportazioni di massa. Gli eserciti di Myanmar e Thailandia si scontrano sulle frontiere: Yangon accusa Bangkok di appoggiare le milizie secessioniste, e Bangkok rimprovera a Yangon di essere direttamente responsabile del massiccio traffico di droga verso il proprio territorio.
Nel 1997 la rinnovata pressione della comunità internazionale costringe la giunta militare ad alcune concessioni. Ma i cambiamenti promossi dal generale Than Shwe, succeduto nel '92 a Saw Maung, sono solo di facciata. Il Myanmar esce in parte dal suo isolamento internazionale entrando nell'Asean (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) e lo Slorc si rinomina Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (Spdc). L'obiettivo è quello di ottenere la fine delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti con le accuse al governo birmano di violazione dei diritti umani (molto interessante è una scheda di Amnesty international). La giunta continua di fatto a impedire l'attività politica dell'opposizione e San Suu Kyi, liberata nel '95, torna agli arresti domiciliari nel 2000.
All'inizio del nuovo millennio Myanmar sfiora la guerra con Thailandia e Bangladesh e perde il sostegno incondizionato della Cina. Bangkok e Pechino non vedono più di buon occhio le attività del Triangolo d'oro controllato da potenti signori della guerra e della droga e in cui si incrociano gli interessi dei governi e delle milizie di confine. La diplomazia prova a risolvere le controversie con una serie di visite illustri: a Yangon arrivano il primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra e il presidente cinese Jiang Zemin. Nel 2002 Myanmar ufficializza i rapporti con la Russia avviando un progetto comune di ricerca nucleare.
Nel giugno 2002 Suu Kyi, appena liberata, compie il suo primo viaggio in provincia. Ma dopo aver tentato invano d'instaurare un dialogo tra Nld e giunta, nel maggio 2003 viene nuovamente arrestata. Nel 2003 il presidente degli Stati Uniti George Bush rinnova le sanzioni economiche, i rapporti con la Thailandia restano tesi e l'Unione Europea non include il Myanmar tra i paesi a emergenza umanitaria.

GLI ULTIMI SVILUPPI - La cronaca di questi giorni è sotto gli occhi di tutti e, anche per questo motivo non è mia intenzione stare qui a ripercorrerla. Del resto ci sono siti come peacereporter che offrono informazioni in materia molto più dettagliate di quelle che posso fornire io.
Quello che, invece, mi interessa è cercare di convincere chi legge di queste cose che la giunta militare non ha certo fatto tutto da sola. Non dovrebbe, infatti, essere un mistero che la Birmania dopo la sua indipendenza si ritrova stretta in una morsa tra due giganti regionali come India e Cina. Se la protesta dell'88 soffocata in un immenso lago di sangue non fece e non ha fatto più notizia è perché ha fatto comodo così. Cina e India hanno, infatti, potuto fare il loro comodo acquistando oro, rubini, zaffiri, petrolio, sfruttando le immense foreste di tek (o teak) e circa 60 tipi di raccolti tra cui riso, grano e the: il Myanmar è uno scrigno di risorse con una popolazione rurale tra le più povere al mondo (cliccare sulla cartina - anche se un po' datata - per ingrandirla e vedere nel dettaglio le maggiori risorse presenti). Oggi, invece, i cinesi non sono affatto contenti e hanno fatto pressione sulla giunta affinché, per lo meno, non si vengano a sapere notizie certe sul bilancio e sulla fine dei morti. Motivo: alla vigilia delle olimpiadi Pechino non vuole di certo rovinare il clima dell'evento che porterà la Cina nell'ambito del palcoscenico globale.

IPOCRISIA - Anche dalla stampa occidentale non c'è poi da aspettarsi molto: ora che la notizia è 'calda' tutti ne parlano, ma fra qualche tempo è certo che non se ne saprà più niente, almeno per il grande pubblico e per chi non continuerà ad informarsi. Spuntano, così, sui giornali italiani articoli a dir poco ipocriti che, in un certo senso, sembrano semplicisticamente addossare un po' della colpa di quello che succede ai turisti che, viaggiando in Birmania, finanzierebbero di fatto la dittatura.
Personalmente, non credo che non andare in Birmania abbia molto senso. Certo gli introiti vanno alla giunta, ma sarebbe come far scendere quella povera gente nel dimenticatoio, dove tra l'altro si trovava anche prima dell' attuale e improvvisa scoperta del mondo di una situazione insostenibile. Credo, nonostante tutto, che il turismo (almeno un certo tipo di turismo) possa contribuire a fornire un minimo reddito anche a quella povera gente. Che, oltretutto, venendo a contatto con persone che vivono al di fuori della loro realtà, possono rendersi conto di come si vive in altre parti del mondo e, tramite questa via, acquisire maggiore consapevolezza sulla loro orribile condizione.
Io punterei piuttosto il dito contro i cinesi e gli indiani, contro multinazionali come Total e Unocal, su paesi come la Thailandia, Israele e la stessa Italia che rimpinguano la giunta di armi (alla faccia delle sanzioni), sugli affaristi della catena di gioielli Tiffany (che si sono subito preoccupati di far sapere al mondo che loro non comprano pietre preziose dalla Birmania - si certo...come in Angola, Namibia o Ruanda, ma chi ci crede?) o sui soliti stupidi presidenti Usa che comminano sanzioni economiche (Clinton '97 e Bush '03) credendo di mettere i militari in difficoltà. E, invece, contribuiscono soltanto ad uccidere quella povera gente. Certo, è apprezzabile sapere che ci sono visitatori scrupolosi che si informano su come evitare di dare i loro soldi ai dittatori, ma non siamo ipocriti: questi signori possono fare i loro interessi perché ci sono i furfanti su citati (qui una lista di ditte che fa affari con il regime) che traggono da loro immensi profitti. E permettono, di converso, anche al regime di farne. Molto più consistenti di quelli che la giunta riesce a realizzare con il turismo.