martedì 10 giugno 2008

Il Libano tra Damasco e Tel Aviv

Il conflitto tra Hizbullah e Israele dell’estate 2006 ha riportato a galla una verità ignorata solo dalla retorica politica: in Libano, lo stato come viene concepito in Europa non esiste. Dietro la facciata delle istituzioni, il potere è gestito da diversi centri di interesse, alternativi e paralleli a quelli ufficiali, solo apparentemente periferici, ma in realtà espressione delle esigenze delle differenti comunità del paese. Questo dato fa del Libano un paese estremamente debole, vittima di ricorrenti fasi di instabilità cronica determinate da tensioni sociali interne e da continui tentativi esterni di influenzare la sua vita politica. Dopo 18 mesi di paralisi politico-istituzionale e di opposizione nelle piazze per l’elezione del Presidente della Repubblica, la crisi politica libanese ha assunto un’accelerazione improvvisa a causa dello scontro militare tra le milizie filo-governative e quelle dell’opposizione. La firma dell’accordo di Doha e l’elezione di Suleiman alla presidenza chiudono la prima fase di riassestamento del Libano post-siriano.

CONFESSIONALISMO POLITICO: GARANZIA DI STABILITA' O 'PECCATO ORIGINALE'? - Il Libano moderno, con i suoi confini attuali, nasce nel 1920. Fino ad allora esistevano vari territori uniti sotto l’autorità formale ottomana e gestiti da rappresentanti locali dell’impero o da diversi capiclan. La Repubblica libanese vede, invece, la luce tre anni più tardi e a carta costituzionale, che ribadisce il principio secondo il quale il potere deve essere diviso in base alla consistenza di ciascuna comunità confessionale, è del 1926. Da allora, ogni incarico di governo è assegnato secondo la divisione proporzionale. Il Capo di Stato - la figura istituzionale più importante del nuovo Libano - fu per la prima volta un greco-ortodosso (Charles Dabbas), ma successivamente tale carica fu sempre scelta tra i rappresentanti dei clan maroniti. E così, senza un accordo scritto, agli sciiti fu assegnato l’incarico di presiedere il Parlamento, mentre ai sunniti fu riservata la guida dell’esecutivo. Dai vertici dello stato fino alle cariche minori questo principio fu rispettato in seguito in maniera capillare, anche se la preminenza maronita era evidente: provenivano da famiglie maronite anche i vertici dell’esercito, il capo delle due agenzie dei servizi di sicurezza, il direttore generale del ministero degli affari esteri, il governatore della banca centrale e il rettore dell’università pubblica. Questo squilibrio nella ripartizione dei poteri ha finito per riflettersi profondamente sul diverso sviluppo sociale delle varie regioni del nuovo Libano, segnando la vita politica dei decenni successivi. “La prima ragione dell’attuale fragilità libanese va ricercata proprio nella struttura di uno stato pluricomunitario costruito dalla Francia attorno ai cristiani, o più esattamente attorno ai maroniti, e per loro” [1].
Tra il 1943 - anno in cui le diverse comunità si univano in un Patto nazionale (non scritto) che gettava le basi per uno stato diviso tra cristiani e musulmani – e l’indipendenza del 1946, il progetto libanese rimaneva ancorato al principio del confessionalismo, percepito ancora come fattore di stabilità e garanzia di rappresentanza per i diversi gruppi, piuttosto che come elemento di debolezza o di ostacolo allo sviluppo politico e sociale. Ma le contraddizioni erano destinate a riemergere e le tensioni insite nella natura dello stato. La rappresentanza politica basata sulla divisione confessionale generava inevitabilmente una serie di pratiche clientelari che assicuravano lo strapotere dei clan dell’entroterra o dei notabili urbani, sfavorendo la gran parte della popolazione. Questi meccanismi venivano riproposti nelle lotte politiche della capitale, dove ciascun leader cercava di volta in volta l’appoggio di un altro leader in funzione di un terzo che, in quel momento, era valutato più pericoloso. Un altro elemento contribuisce a spiegare lo strapotere di cui godevano – e godono tutt’ora – i clan: la capacità di questi ultimi ad attrarre e tenere unito il consenso. Il fattore confessionale non basta, infatti, a spiegare la complessità della politica libanese. Esso giocava – e gioca – un ruolo ad intensità variabile, smentendo le analisi di chi vorrebbe leggere la storia libanese solo in termini di scontri religiosi: è molto difficile per i partiti non legati all’autorità che i capiclan esercitano di fatto sui singoli territori, riuscire a formare una propria base di elettori.

MANOVRE STRANIERE, GUERRA CIVILE E CONFLITTO REGIONALE: LE MACERIE DEL LIBANO - Intanto il Libano continuava ad essere terreno di scontro delle potenze regionali e mondiali. Se la prima guerra arabo-israeliana coinvolse solo marginalmente il paese dei cedri, le ripercussioni internazionali non mancarono di manifestarsi già con la crisi di Suez del 1956, quando il presidente filoamericano Camille Chamoun si rifiutò di scendere in campo a fianco a Nasser contro Israele, Francia e Gran Bretagna. Forti proteste attraversarono il paese e fu proclamato lo stato d’emergenza. Washington interveniva assicurando un lauto pacchetto di aiuti economici (15 milioni di dollari) e militari (invio di marines a Beirut, circa 10 mila) contro chi vedeva con favore il panarabismo di Egitto e Siria sotto egida sovietica. La costituzione della RAU (1958-61) tra i due paesi suscitò in Libano ampi scontri tra chi ne chiedeva l’ingresso e chi rivendicava l’indipendenza nazionale. Un fatto era ormai chiaro: ciascun attore internazionale attivava le proprie alleanze interne al Libano dividendo il paese tramite promesse ad ogni singolo leader politico di Beirut. Come se non bastasse, si aggiungeva il problema dei profughi della nakba palestinese, stanziati nei campi del sud. L’afflusso si fece ancora maggiore in seguito alla guerra del 1967 e agli eventi del settembre nero del 1970, allorquando la dirigenza di Fatah ed un numero imprecisato di palestinesi vennero cacciati dalla Giordania di re Hussein: ha inizio la cosiddetta ‘palestinizzazione’ del Libano con il crescente controllo del territorio da parte dei combattenti di Arafat (quello che fu per anni chiamato Fatahland in seguito agli accordi del Cairo del novembre 1969 che formalizzarono di fatto la presenza armata palestinese nel paese). Così, ancora una volta, il paese è scosso da tensioni sociali interne e antiche rivalità claniche, sottostanti a logiche e interessi di attori esterni contrapposti su scala regionale o globale. In questo quadro, lo scoppio della guerra civile nell’aprile 1975 è un evento ineluttabile.
Ancora oggi si discute in Libano e all’estero se si sia trattato davvero di una guerra civile oppure di una guerra combattuta per procura sul suo territorio. Secondo alcuni [2] alla luce dei fattori che hanno scatenato le violenze (protrattesi fino al 1991 con più di 150 mila vittime) sarebbe possibile affermare che si sia trattato di entrambe le cose: le fazioni locali hanno preso le armi contro loro concittadini, agendo per interessi propri e per quelli di attori esterni come Siria, Iran, Urss da una parte e Israele, Francia, Stati Uniti dall’altra. Nel giugno 1976, preoccupato che la guerra civile potesse recare danno al suo regime e sostenuto da Mosca, il presidente siriano Hafiz al-Assad decise di installare le sue truppe sul territorio del fragile vicino e nel 1979 l’influenza della rivoluzione islamica iraniana contribuiva a segnare lo sviluppo del nuovo scenario libanese. Ma l’evento principale fu probabilmente l’invasione israeliana del paese (in cui già dal 1978 erano presenti nel sud) con la scusa di annientare le milizie palestinesi. Una forza multinazionale (Usa, Francia e Italia) fu dispiegata a Beirut, ma il contingente fu costretto a sloggiare già a partire dal 1983 a causa dei sempre più frequenti attacchi: il Libano era di fatto lasciato al suo destino, spaccato in due zone di influenza che vedevano la Siria installarsi al nord e Israele controllare il sud. Sul terreno, a combattere ci sono la destra maronita, prima sostenuta da Damasco e poi abbandonata a favore delle sinistre filo-palestinesi, le quali erano appoggiate da Amal (sciiti guidati dall’attuale presidente del Parlamento, Nabih Birri) salvo poi diventarene, su richiesta siriana, uno dei principali obiettivi. Da parte sua Israele non resta certo a guardare: con un amano addestra i falangisti maroniti sul proprio territorio e li manda a combattere in Libano contro i palestinesi (massacro di Sabra e Chatila del settembre 1982), con l’altra si appoggia ai collaborazionisti, tanto cristiani quanto sciiti, per la lotta contro Hizbullah. Il partito di dio nasce nel 1982 proprio dal vuoto venutosi a creare con l’invasione israeliana e dalla spinta della rivoluzione iraniana, soprattutto in un paese in cui la maggioranza degli sciiti costituiva la parte più povera ed emarginata. La fine della guerra civile si ha nel 1991 con la definitiva installazione dei siriani nel paese, in un momento in cui Damasco era utile a Washington in funzione anti-irachena: il Libano, ancora una volta, era merce di scambio di accordi tra soggetti esterni.

LA STABILIZZAZIONE IMPOSSIBILE - Gli eventi sono, però, destinati a susseguirsi senza sosta e senza che venga raggiunta una soluzione stabile: nella primavera del 2000, sotto la pressione di un’opinione pubblica insofferente, il premier israeliano Ehud Barak annuncia il ritiro delle truppe, anche se Tsahal rimane in alcune zone strategiche lungo il confine come le fattorie di Shiba e tre villaggi poco distanti (Kfar Shuba, Kfar Kila e Giagiar). Poche settimane dopo muore a Damasco Hafiz al-Assad che lascia il potere al figlio 34enne Basshar, già incaricato del dossier libanese, il quale si rivelerà troppo inesperto e delapiderà in poco tempo il capitale politico e strategico costruito per anni dal padre. Intanto Hizbullah riesce a guadagnare consensi sul terreno strategico e politico. Mantiene inalterato –anzi potenzia – il proprio arsenale militare con la giustificazione della lotta ad Israele che occupa ancora il suolo libanese e ne viola la sovranità (dal 2000 ad oggi sarebbero più di 12 mila le violazioni israeliane dello spazio aereo e marittimo libanese), ottenedo, sul piano politico, ottimi risultati alle elezioni legislative del 1992 (12 parlamentari) e alle consultazioni del 2000 per la Camera nazionale (16 seggi). Dal 2000 in poi la politica libanese si caratterizza per lo scontro tra il capo di stato Emile Lahoud (appoggiato da Hizbullah) e il premier antisiriano Rafiq Hariri. Invece di concludersi nel 2004, il mandato di Lahoud viene prolungato con l’interferenza di Damasco, provocando nuove tensioni e ulteriori divisioni, questa volta tra filo siriani e antisiriani. Il primo fronte (fedele a Lahoud e sostenuto da Iran e Siria) è costituito dal duo sciita Hizbullah e Amal, dal partito del generale cristiano Michael Aoun (rientrato poi nel maggio 2005 dopo anni di esilio) e da una serie di piccole formazioni tradizionalmente fedeli a Damasco. Il secondo fronte (quello di Hariri, sponsorizzato da Usa e Francia, ma anche da lobbies economiche occidentali) si compone del partito ‘personale’ della sua famiglia, la Corrente del futuro (Tayyal al-Mustaqbal, sunnita), dal clan druso di Walid Giumblatt (un partito socialista progressista), dai due partiti ultracristiani delle Falangi (clan Giumayyil) e dalle Forze libanesi di Samir Giagia, oltre a vari politici per lo più cristiani considerati indipendenti. Lo scontro si fa drammatico in seguito all’attentato del 14 febbraio 2005 nel centro di Beirut in cui muoiono Hariri e altre 22 persone (la ‘strage di san Valentino’) e per effetto della protesta del 14 marzo (1 milione di libanesi in piazza) contro l’occupazione siriana. Nell’aprile seguente Damasco annuncia il ritiro dal Libano, ma come al solito la situazione è destinata a precipitare. Il paese dei cedri è momentaneamente libero dalla morsa siriana, ma la questione di Hizbullah rimane insoluta. Usa e Israele, impegnate nel confronto con l’Iran, continuano a vedere nell’ala armata del partito di dio la principale minaccia alla sicurezza dello stato ebraico, mentre per i vertici sciiti, per Teheran e per Damasco, la resistenza islamica deve continuare fino a quando esisterà il pericolo strategico sionista. Già a fine dicembre 2005 si accendono pesanti scontri lungo la linea blu, anche se le prove generali hanno luogo solo nel maggio 2006 con un botta e risposta di 16 ore tra Tsahal e Hizbullah. La notizia il 12 luglio dello scoppio della guerra – che meriterà uno spazio a sé in un’altra occasione - è una sorpresa per molti, ma non per tutti: iraniani e siriani, americani e israeliani erano senza dubbio già pronti ad una nuova guerra a spese del Libano. Dopo 33 giorni di bombardamenti, il cessate il fuoco investe l’Unifil di nuovi compiti e lascia il paese in balia delle tensioni.

BLOCCO POLITICO ED ELEZIONE DI SULEIMAN - L’impasse politica domina il Libano dopo l'estate 2006 e caratterizza pesantemente la sua vita politica con lo scontro tra la maggioranza sunnita filo-occidentale (che appoggia Siniora) e opposizione cristiano-sciita che, sotto la guida di Hizbullah, sponsorizza l'alleanza con la Siria e l'Iran. Il nodo centrale del contendere si riflette nella politica interna e turba la promulgazione di un governo di unità nazionale, oltre ad impedire per ben 18 mesi - ed in seguito a 19 falliti tentativi - l’elezione del nuovo capo dello stato alla fine del mandato di Lahoud. La situazione si fa davvero pesante, rischiando di far precipitare il Libano in una nuova guerra civile, ai primi di maggio. L'8 e 9 maggio, Hizbullah e gli alleati di Amal occupano, in una sorta di azione dimostrativa, tutte le aree strategiche di Beirut, rimarcando - se ce ne fosse bisogno - la propria potenza militare e strategica. In segno di moderazione, Nasrallah riconsegnerà tutte le zone occupate all'esercito, ma non mancherà di accentuare, con aspre parole, come il gesto sia da attribuire al rispetto che Hizbullah nutre per le istituzioni libanesi. La recente elezione di Suleiman quale Presidente della Repubblica è storia dei nostri ultimi giorni. La tensione sembra per il momento essersi allentata, ma sono sempre carichi di sciagure i venti che spirano da una parte all’altra del paese dei cedri. La via che va da Tel Aviv a Damasco passa sempre per Beirut.

NOTE:
[1] Samir Kassir (storico libanese assassinato il 2 giugno 2005), La guerre du Liban - De la dissension nazionale au conflit régional, Parigi, 1994.
[2] G. Tueni, Une guerre pour les autres, Parigi, 1985.

APPROFONDIMENTI :
Il futuro del Libano – Internazionale (commenti della stampa araba sugli accordi di Doha)
Il Libano di Suleiman – limes on line (sito nuovo), 09/06/2008
Il Libano tra spinte conservatrici e nuovi rapporti di forza – affari internazionali, 09/06/2008
Il vento del Libano - Internazionale 746, 29/05/2008
Siria, Israele e Libano: verso una ricomposizione regionale? – affari internazionali, 26/05/2008
Libano: trincea per una nuova guerra fredda – altrenotizie, 21/05/2008
Rubrica Damasco-Beirut – limes on line (sito nuovo, dopo 1 maggio 2008)
Rubrica Damasco-Beirut – limes on line (sito vecchio, fino al 30 aprile 2008)
Libano: archivio articoli - osservatorio iraq
Libano-Israele: scheda conflitto – peacereporter
Lebanon under siege - The Guardian

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