mercoledì 26 marzo 2008

Conversione mediatica e fomentazione dell'odio religioso


Ci sono azioni e comportamenti che contraddistinguono gli uomini (nel senso di esseri umani dignitosi) dalle persone viscide, meschine e immeritevoli della seppur minima considerazione, che distinguono gli esseri raziocinanti e rispettosi dalle bestie che agiscono per senso di sopraffazione.
Tutti sono liberi di cambiare credo quando vogliono, ma è necessario fare delle distinzioni. Non si tratta di una persona qualsiasi...stiamo parlando di un giornalista in vista, conosciuto, seguito e famoso. Di una persona che da tempo scrive articoli infuocati contro i musulmani e il loro credo. Di una persona che afferma che l'Islam è il male assoluto e il cristianesimo il bene assoluto. Di una persona che scrive libri intitolandoli "Viva Israele". La sua conversione è un gettare benzina sul fuoco dello scontro interreligioso. Ed ora si firma anche come Magdi 'Cristiano' Allam.
Se Allam voleva convertirsi al cristianesimo era liberissimo di farlo, ma senza essere così plateale. Se desiderava essere battezzato dal papa in persona, poteva semplicemente richiedergli una funzione privata. Ratziger lo avrebbe sicuramente accontentato. Ma c'è modo e modo di fare le cose. La platealità della conversione (scelta libera e indiscutibile) ha fatto scadere l'intimità della fede a baraccone mediatico-circense. L'unico obiettivo era, è, rimane quello della provocazione.
Il suo scopo, appunto, nn era quello di convertirsi. Del resto aveva già tentato di abbracciare l'ebraismo, ricevendo un netto rifiuto dai vertici di quella religione. No! Il suo unico scopo era quello di rendersi protagonista dell'ennesimo gesto provocatorio. Si diceva all'inizio che ci sono scelte e comportamenti da UOMO, e ce ne sono altri da verme.

domenica 23 marzo 2008

giovedì 20 marzo 2008

I difficili equilibri del Pakistan

cartina di limes on line

Dalle elezioni in Pakistan emergono alcuni chiari dati che è il caso di sottolineare. La bassa affluenza alle urne, leggermente inferiore rispetto a quella del 2002, conferisce al voto una non piena legittimità, anche se le elezioni possono essere giudicate abbastanza libere e trasparenti. Gli episodi di violenza e di intimidazione sono stati limitati, e il fatto è dimostrato anche dai risultati, che danno al Partito Popolare Pachistano (PPP) e alla Lega Musulmana di Sharif (PML-N) una netta vittoria. Pochi, invece, i voti per il partito pro-Musharraf, la Lega Musulmana-Q, con lo stesso presidente della PML-Q, Chadhry Shujat Hussein, sconfitto addirittura da un candidato del PPP. Infine, sembrano significativi l'alto numero di candidati indipendenti eletti - una variabile di cui tenere conto nella formazione del nuovo governo - e l'avanzata dei partiti regionali su base etnica a scapito della coalizione di partiti religiosi (effetto in parte della decisione del jamaat-e- islami, membro influente della coalizione, di boicottare il voto). Si profila quindi una situazione in cui Musharraf, in qualità di presidente, dovrà lavorare con un parlamento ostile.
In generale, pur nel quadro di una tendenziale conferma delle previsioni della vigilia (ovvero l'affermazione dei partiti di opposizione e la sconfitta del PML-Q), nessuno dei partiti maggiori ha riportato una vittoria schiacciante. Ciò costituisce, almeno in parte, una sorpresa date le diffuse aspettative di vittoria del PPP, e la prevista ondata emotiva causata dall'assassinio di Benazir Bhutto. Infatti, i leader del PPP hanno subito accusato il governo di avere in qualche modo limitato il successo del partito, almeno in alcuni collegi, oltre a non aver permesso alcune candidature. Vero è che il panorama successivo al voto, pur nel quadro dell'affermazione del PPP e del PML-N, risulta molto frammentato, e questo costituisce una buona notizia per i militari: l'esercito pachistano – in qualche modo vero detentore del potere - almeno a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, ha puntato esattamente su queste condizioni di frammentazione della politica, sperando di agire da ‘political broker’.
È interessante notare che il PPP è l'unico partito a base realmente nazionale. Si può dire che si sia de-localizzato, ridimensionando il suo carattere regionale sindhi-rurale; mentre, al contrario, il PML-N si è molto regionalizzato, trincerandosi nella sua roccaforte panjabi (ciò benché abbia avuto un buon successo in parte della Frontiera). Si può dire si sia invertita la tendenza delle elezioni del 1997, quando il PPP era diventato in pratica un partito sindhi, mentre la PML di Nawaz aveva vinto in diverse province; il che conferma il carattere fluido della politica pachistana. Interessante è anche la situazione dei partiti religiosi, benché forse maggiori informazioni siano necessarie. Certamente, traspare la perdita di influenza del Muttahida Majlis-i-Amal nelle province di frontiera, anche se le ragioni sono forse più complesse di quanto sembri. Un'ostilità dell'elettorato verso l'influenza degli islamisti nella regione può essere connessa non solo con la questione della lotta al terrorismo, ma anche più semplicemente con una insoddisfazione verso l'amministrazione quotidiana della provincia (spesso molto ideologizzata). In ogni caso, è prematuro concludere che i partiti religiosi siano scomparsi dalla regione, dato che conservano una loro influenza. Probabilmente i partiti religiosi pagano anche una proliferazione di organizzazioni di ispirazione islamista, che ha reso il quadro molto confuso.
In conclusione, si può affermare che le prospettive di ricostruzione del quadro politico siano incerte. Benché sia stato trovato un accordo per formare un governo di coalizione PPP-PML(N), questo si presenta come fragile sia per le distanze (e la reciproca diffidenza) tra le due leadership, sia perchè entrambi i partiti sanno bene che nessun futuro governo pachistano può seriamente pensare di fare a meno dell'appoggio dell'esercito. Ciò può aiutare a spiegare perchè, a dispetto delle forti dichiarazioni pre-elettorali, quasi tutti i leader siano oggi molto cauti nel definire le loro future scelte verso Musharraf e il suo circolo di sostenitori, non dimenticando che il PPP ha oggi una leadership non ancora ben definita. In ogni caso, è facile prevedere che i leader, nei giorni a venire, faranno mostra di notevole pragmatismo nel decidere i futuri scenari. Dunque, non dovrebbe destare sorpresa l'assistere ad alleanze tra ex-acerrimi avversari, come accaduto in passato e come, d'altra parte, avviene in generale nella politica del subcontinente.Del resto, durante il giuramento di oggi del neo Parlamento, i due leader, Asif Ali Zardari per il Ppp e Nawaz Sharif per la Pml-N, hanno dichiarato che si tratta di un evento storico per il Pakistan, e un'occasione unica per reinstaurare finalmente la democrazia nel paese. La prima decisione che il nuovo governo prenderà una volta insediato, infatti, sarà (o dovrebbe essere) quella di rimettere al loro posto i giudici che erano stati destituiti nel novembre scorso, quando Musharraf aveva dichiarato lo stato di emergenza, reprimendo le libertà civili. Ma siamo in presenza di una coalizione che, pur essendo talmente ampia e frastagliata da somigliare più all’armata Brancaleone che a una coalizione politica, non raggiunge tuttavia la famosa maggioranza dei due terzi necessaria a mettere Musharraf in seria difficoltà. Ancora lui…

AGGIORNAMENTO (30 marzo 2008):

Il nuovo parlamento pakistano si è riunito per la prima la scorsa settimana e nei prossimi giorni dovrebbe essere eletto il nuovo Primo Ministro. La scelta spetta al Pakistan People's Party (PPP), il partito della defunta Benazir Bhutto che è ha ottenuto la maggior parte dei consensi alle ultime elezioni. Generalmente in Pakistan è il leader del partito vincente a ricoprire l'incarico di Primo Ministro, ma in questo caso non sarà possibile poiché Asif Ali Zardari, il vedovo di Benazir Bhutto della quale ha raccolto l'eredità politica, non è eleggibile poiché non è un membro del parlamento. L'omicidio della Bhutto è infatti avvenuto a candidature ormai chiuse e prima Zardari non si occupava direttamente di politica. In ogni caso, sebbene la scelta spetti al PPP, il nuovo Primo Ministro dovrà essere una persona gradita anche al secondo partito pakistano, la Pakistan Muslim League – N (Nawaz), formazione con la quale dovrà realizzare la coalizione di governo. Sicuramente non sarà Nawaz Sharif, leader del PML-N, anch'esso non membro del parlamento. Fino a poco tempo fa il favorito era Makhdoom Amin Fahim, il vicepresidente del PPP, ma Zardari si sarebbe opposto alla sua elezione.Per quanto riguarda la formazione del nuovo governo, l'accordo tra Asif Ali Zardari e Nawaz Sharif sarebbe già stato raggiunto. La PML-N ha chiesto alcuni ministeri strategici, come Difesa e Finanza. La distribuzione dei ministeri tra i due principali partiti dovrebbe comunque avvenire in base a un criterio proporzionale concordato tra i due leader. Il PPP avrà il 54% dei seggi nel gabinetto federale, mentre il PML-N ne otterrà il 40%. Almeno in una prima fase il numero dei ministri dovrebbe essere di 15, per poi espandersi successivamente fino a 20. In ogni caso, chiunque sia a guidarlo, il nuovo governo pakistano non darà vita facile al Presidente Mushrraf. Basti pensare che i due partiti di maggioranza hanno già deciso il reinsediamento, entro 30 giorni da oggi, dei giudici della Corte Suprema che Musharraf aveva deposto prima delle elezioni.

APPROFONDIMENTI:
- Vulcano Pakistan, limes on line.
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martedì 18 marzo 2008

La Spagna di Zapatero

Il Partito socialista spagnolo (Psoe) del primo ministro José Luis Rodriguez Zapatero, ha vinto le elezioni politiche, superando per la seconda volta consecutiva il Partito popolare (Pp), il cui candidato alla presidenza del governo era Mariano Rajoy. Sia i socialisti sia i popolari hanno guadagnato voti e seggi in parlamento rispetto alle elezioni di quattro anni fa: il Psoe passa da 164 a 169 deputati, il Pp da 148 a 153. Questo dato testimonia il rafforzamento del bipolarismo in Spagna, confermato dal fatto che i partiti minori, come Izquierda unita (Iu), hanno perso molti consensi. L'altra chiave delle elezioni di domenica è stata la sconfitta dei partiti nazionalisti - soprattutto quelli dei Paesi Baschi (Pnv) e della Catalogna (Erc) - a vantaggio dei socialisti.
"Come gli altri paesi d'Europa", scrive Joëlle Kuntz su Le Temps, "anche la Spagna s'inserisce dopo queste elezioni nella cornice politica del bipartitismo. Accordando la vittoria al Psoe di José Luis Zapatero, gli elettori hanno riconosciuto ai socialisti quella legittimità politica che i popolari gli negavano ormai da quattro anni, come se il premier avesse rubato la vittoria del 2004 successiva agli attentati di Madrid". Ma la vittoria di Zapatero significa anche altro. "Sancisce la legittimazione del bipartitismo", continua la Kuntz, "la lotta a tutte le logiche indipendentiste, il rifiuto delle avventure nazionaliste, del revanscismo storico di centro e del radicalismo basco violento. E restituisce l'immagine di un popolo che sceglie il partito interessato a rendere la vita più vivibile, la televisione più guardabile, la paella più mangiabile, gli uomini e le donne più amabili in una Spagna desiderabile e rispettata".
A me sembra che il risultato maggiore ottenuto da Zapatero sia quello di aver estromesso il volere della chiesa spagnola, che aveva fatto di tutto per screditarlo e per indurre i cittadini a decretare la sua definitiva uscita di scena. Mi domando quando in Italia sarà possibile una cosa del genere…

mercoledì 12 marzo 2008

Democrazia alla russa

L’attesa vittoria del successore designato da Vladimir Putin alla presidenza della Russia, Dmitrij Medvedev, che ha raccolto il 70,2% delle preferenze, conferma l’andamento elettorale emerso nelle elezioni regionali svoltesi quasi un anno fa (11 marzo 2007), quando il partito di Putin, Russia Unita, conquistò 13 delle 14 regioni in cui si era votato, e di quelle parlamentari dello scorso dicembre. Con Putin capolista, infatti Russia Unita ha trionfato (64% delle preferenze), guadagnando rispetto alle elezioni del 2003 un 27% in più di voti e assicurandosi così una maggioranza parlamentare tale da poter modificare addirittura la Costituzione.
"Ora che abbiamo esaurito le speculazioni sul nuovo presidente russo Dmitrij Medvedev è tempo di porsi un’altra domanda: i russi sono davvero capaci di democrazia? Sono in molti, sia ad ovest che ad est, a sostenere che la Russia non abbia una vera e propria tradizione democratica, che i russi preferiscano il pugno duro e che la Russia sia un paese troppo grande ed eterogeneo per essere governato democraticamente", scrive sul Financial Times l'ex ambasciatore britannico a Mosca Rodric Braithwaite. Il quale riprende il pensiero di George Kennan, grande esperto di Unione Sovietica, che nel 1951 scrisse: "Date tempo ai russi di risolvere le loro faccende a modo loro. Le vie che troveranno forgeranno la loro storia nazionale". "È il consiglio più saggio", conclude l’ex diplomatico, "e quello più ignorato dai nostri politici che, come novelli missionari cristiani, vorrebbero imporre sempre, dappertutto e comunque il loro credo".
In seguito alle restrizioni imposte dal governo russo agli osservatori internazionali, l’Osce ha rinunciato a monitorare le elezioni mentre la missione del Consiglio d’Europa ha dichiarato che si è trattato di un “plebiscito” piuttosto che di una libera competizione elettorale soprattutto per le gravi lacune riscontrate nella registrazione dei candidati. E gli sconfitti - Zyuganov (Partito comunista) con il 17,8% e Zhirinovskij (Partito liberal-democratico) con il 9,4% - hanno annunciato l’intenzione di intraprendere un'azione legale, contro le violazioni che avrebbero caratterizzato queste elezioni.
Ma come spesso affermava la Politkovskaja – anticipando così il pensiero di Braithwaite – ai russi piace essere governati da un uomo forte. Putin, dopo gli anni di Eltsin, ha dato alla Russia una svolta, ha risvegliato nel paese quel senso di grandeur che sembra avere innato nello spirito dei suoi cittadini, ha fatto in modo che essi – o meglio solo una sua parte – traessero vantaggio da un’economia forte, basata sulla nazionalizzazione delle sue immense riserve energetiche. Al contrario degli oligarchi di Boris, pronti a svendere il paese alle esigenze di Washington. Medvedev sarà chiamato a continuare su questo tracciato. A scapito – purtroppo – dello stato di diritto. Appunto, una democrazia alla russa…

APPROFONDIMENTI:
- Speciale elezioni russe, limes on line;
- Dossier "continente" Russia, La storia siamo noi.

I soliti 'ignoti'




martedì 11 marzo 2008

La coscienza dell'odio

Conferenza di Parigi. Lavori in corso: "Progetto Crea la Palestina"
"Partners del progetto:________________________________________"

In Medio Oriente i pessimisti hanno quasi sempre ragione. L'ultimo orrendo attentato a Gerusalemme conferma lo scetticismo di quanti hanno sempre pensato che il "processo di Annapolis" fosse fumo. L' ennesimo esercizio diplomatico-mediatico totalmente estraneo alla realtà del terreno. E la realtà è che Israele si appresta a celebrare il sessantesimo anniversario della fondazione sotto il fuoco degli attentati nel cuore della sua capitale, dei razzi lanciati da Gaza verso Ashkelon e dintorni, delle incursioni terrestri contro la Striscia appena abbandonata e subito conquistata da Hamas. Se non è guerra aperta, poco ci manca.
Il Muro non basta a fermare il terrorismo palestinese. Non vi sono misure di sicurezza che possano garantire l' impenetrabilità di Israele. Né d' altra parte si può immaginare che Gerusalemme accetti di convivere con l' Hamastan alle sue porte. I leader israeliani sono alle prese con l' incompatibilità dei loro due obiettivi strategici: consolidare Israele come Stato degli ebrei e mantenere il controllo dei Territori palestinesi. Il primo precetto nasce dal vincolo demografico: nel giro di pochi anni la somma dei palestinesi abitanti a Gaza e in Cisgiordania, più gli arabi israeliani, sarà nettamente superiore al totale degli ebrei. Se manterrà la presa su Giudea e Samaria, Israele rischierà di scivolare verso lo Stato binazionale. Un' improbabile macedonia arabo-ebraica che annienterebbe l' opera di generazioni di sionisti. Il Grande Israele è la morte di Israele. Lo sanno bene anche gli ultranazionalisti, per i quali occorre costringere i palestinesi ad arrendersi all'idea che il loro Stato si farà, semmai, oltre il Giordano. Ipotesi piuttosto avventurosa, quanto meno perché prevede un biblico trasferimento di popolazioni, oltre al crollo del regime di Amman.
La seconda necessità deriva dalla coscienza dell' odio accumulato nei palestinesi, non importa di quale colore politico o religioso, dopo le umiliazioni e le vessazioni subìte dal 1948 a oggi. Una rabbiosa disperazione che induce i propositi più efferati, e sta radicando l'antiebraismo in modo indelebile nella popolazione araba della regione. Ma nessun esercito - tanto meno lo Tsahal attuale, assai meno motivato e ardimentoso di quello dei pionieri - può tenere in eterno sotto il proprio assoluto dominio una popolazione nemica. Più passano gli anni, più traspare la demoralizzazione di ufficiali e soldati costretti a fare i secondini di un popolo che non li tollera, anche se li teme. Sicché i leader israeliani inclinano periodicamente verso l' una o l' altra priorità, senza potersi o volersi decidere. In più, oggi tutti sentono odore di elezioni e si profilano di conseguenza. A cominciare da Barak, che tiene molto a conquistarsi sul terreno di Gaza la fama di neo-falco. Per finire con Olmert, il più impopolare premier della storia dello Stato ebraico, che non vorrebbe essere ricordato dai posteri per tale primato, dopo aver già perso l' ultima campagna di Libano.
Sul fronte palestinese il quadro è ancora più sconfortante. Un popolo senza capo. Allo sbando. Abu Mazen è figura patetica, incapace di affermare una parvenza di autorità oltre il perimetro del suo quartier generale (anzi nemmeno in quello). I leader di Hamas - un' organizzazione sempre meno coesa, attraversata da lotte di clan e segnata dalle influenze esterne - sono asserragliati nella gabbia di Gaza e non riescono a uscirne. L' unico leader carismatico che potrebbe forse riunificare il campo palestinese, Marwan Barghuti, è ristretto nelle carceri israeliane, dove peraltro riceve un trattamento di riguardo: gli israeliani si riservano di giocare la carta Barghuti all' ultimo momento, se mai decideranno di aprire un serio negoziato di pace con il nemico. Per ora, non pare. Comunque, senza un interlocutore non si può trattare. E la furbizia di Sharon, che voleva negoziare con se stesso, non funziona più.
In un altro momento, gli Stati Uniti avrebbero potuto esercitare una certa pressione su entrambi i contendenti, soprattutto sui loro amici israeliani. Ma oggi Bush non ha l' autorità per dirimere la disputa. E l' opinione pubblica americana è concentrata sulle elezioni di novembre. Bisognerà probabilmente attendere il verdetto di quel voto per sperare che da Washington un nuovo, autorevole e coraggioso presidente si decida a smentire i pessimisti, imponendo quella pace che i belligeranti, oggi, non riescono nemmeno a immaginare.

FONTE: LIMESONLINE, Vignettista: Khalil Abu 'Arafa; Fonte: al-Quds, Palestina

venerdì 7 marzo 2008

Buco nero Kosovo

L’indipendenza del Kosovo apre un periodo difficile nelle relazioni internazionali. Nove anni dopo la guerra targata Nato è chiaro il disastro provocato da politiche unilaterali. Nel mezzo, la spinosa questione del riconoscimento del nuovo stato e la ridefinizione dei rapporti di forza in quella che è già stata definita la ‘2nda guerra fredda’. Ma oltre allo scenario globale, preoccupa la situazione nella regione balcanica, ormai inevitabilmente divisa su basi etniche.


1. A distanza di 9 anni è ora estremamente chiara la ratio che spinse la 'comunità internazionale' ad intervenire nell'ex-Jugoslavia, in quell’operazione che Inacio Ramonet definì ‘Lo scempio’ [Le Monde dimplomatique, 5/99]. Ci dissero - fino a creare una nuova figura giuridica di casus belli - che quella guerra era giustificata da motivi umanitari. Adesso è chiaro che gli Usa spinsero per quella soluzione con l'evidente scopo di allargare la propria sfera d’influenza, fino ad insidiare i confini russi (episodio ripetutosi con la ‘rivoluzione arancione’ in Ucraina, quella ‘delle rose’ in Georgia, e con una serie di avvenimenti controversi in paesi come Polonia e Repubblica Ceca ed altri territori dell'ex-blocco sovietico). La dimostrazione prende il nome di Camp Bondsteel, gigantesca base di 9000 uomini costruita dopo, appunto, il 1999 in Kosovo. Quella guerra segnò, per la prima volta, la rottura della legalità internazionale così come concepita all’indomani della 2nda GM: la Nato assumeva il carattere di alleanza non più solo difensiva (art. 5 del trattato) e sostituiva di fatto l’Onu nel ruolo di decisore mondiale [Noam Chomsky, Le Monde diplomatique, 5/99]. Il tutto in una scandalosa campagna di disinformazione, una sorta di ‘guerra delle emozioni’ [Serge Salimi, Le Monde diplomatique, 5/99] che ha omesso molti particolari come, ad esempio, la possibilità di evitare quella guerra puntando tutto su una soluzione diplomatica sulla base degli ‘sconosciuti’ negoziati di Rambouillet [Paul-Marie de la Gorce, Le Monde diplomatique, 5/99].
Ultima delle
tappe di una vicenda già scritta, l’autoproclamazione dell’indipendenza del Kosovo del 17 febbraio scorso ha aperto una fase complessa e delicata nei rapporti internazionali. Molti degli elementi di questo intricato scenario sono ancora in movimento e le conseguenze imprevedibili. Oltre alle dinamiche interne in Serbia e in Kosovo, determinante è il grado di coinvolgimento dei diversi attori internazionali come Onu, Ue, Usa, Russia e Cina, senza dimenticare l’apertura di una complicata partita su scala regionale.

2. Secondo il diritto internazionale uno Stato, per essere considerato tale, deve possedere 3 caratteristiche sostanziali: un popolo (stanziato in un dato territorio e con una propria coscienza politica senza la necessità che risulti omogeneo in aspetti quali la cultura, la religione, etc, su cui esercitare il controllo), un territorio (il controllo va esercitato su di uno specifico territorio, pur non essendo importante che i suoi confini siano esattamente delineati) e una sovranità reale sul territorio e sul popolo (tanto interna - la capacità di uno stato di esercitare il proprio imperio all'interno del proprio territorio – quanto esterna - la capacità di esercitare il governo di una regione e di un popolo indipendentemente da ingerenze di altri stati). Da ciò deriva che i requisiti della soggettività internazionale dello Stato sono rintracciabili nella sua effettività, ossia nel controllo effettivo di una comunità territoriale (dal momento che la nascita di uno Stato è un processo ‘di fatto’ o politico o storico, e non giuridico, almeno secondo la communis opinio) e nella sua indipendenza, ossia nel fatto che l’organizzazione di governo non dipenda da un altro Stato (la cosiddetta indipendenza dello Stato-organizzazione).
In particolare, il requisito dell’indipendenza va inteso cum grano salis. Se lo si volesse intendere come assoluta possibilità di determinarsi da sé, si giungerebbe alla conclusione che nessuno Stato (e forse nemmeno le grandi Potenze) sia soggetto di diritto internazionale, essendo l’interdipendenza una delle caratteristiche oggigiorno sempre più marcate delle relazioni internazionali. Che dire poi degli ‘Stati satelliti’, della sovranità limitata, della presenza di basi e truppe straniere, e di tutti gli altri condizionamenti messi in atto dagli Stati più forti nei confronti dei più deboli? Dove porre allora il limite oltre il quale non c’è indipendenza e, quindi, non c’è soggettività internazionale? Nella dottrina prevalente (cfr. per esempio CONFORTI) si ritiene che non possa che farsi leva su di un dato formale: è indipendente e sovrano lo Stato il cui ordinamento sia originario, tragga la sua legittimità e forza giuridica da una propria Costituzione e non da quella (a volte anche imposta) di un altro Stato [1]. Il che permette di spiegare – tra l’altro – perché normalmente si ritenga che non influiscano sulla soggettività la dimensione dello Stato, la sua pacificità e democraticità, nonché l’estensione materiale delle sue risorse economiche (si pensi, tra tutti, a San Marino e al Lichtenstein). Una sola eccezione può forse ammettersi (CRAWFORD): il dato formale non può più invocarsi – e deve cedere di fronte al dato reale – quando l’ingerenza da parte di un altro Stato nell’esercizio del potere di governo è totale, quando cioè il Governo indigeno è di fatto un ‘Governo fantoccio’ [2].
L’organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente il proprio potere su di una comunità territoriale diviene soggetto internazionale in modo automatico. Non è infatti necessario che essa sia riconosciuta dagli altri Stati. Solo per fare qualche esempio, si sa che l’Italia riconobbe la Repubblica democratica tedesca (e viceversa) solo nel 1973; che gli Usa e la Cina si riconobbero reciprocamente solo nel 1978-79, epoca in cui cessarono i rapporti diplomatici tra i primi e Taiwan; che la maggior parte degli Stati arabi non riconosce Israele; che l’Italia ed altri paesi hanno riconosciuto Croazia e Slovenia – proclamatesi indipendenti per scissione dall’ex-Jugoslavia – nel 1992. Orbene, tutto ciò ha scarsa rilevanza giuridica, dal momento che per il diritto internazionale – almeno secondo l’opinione che meglio corrisponde alla prassi seguita dagli Stati – il riconoscimento è un atto meramente lecito, così come è meramente lecito il non-riconoscimento: entrambi non producono conseguenze giuridiche [3]. Il riconoscimento appartiene, insomma, alla sfera squisitamente politica (QUADRI) e rivela null’altro che l’intenzione di stringere rapporti, scambiare rappresentanze diplomatiche e avviare forme di collaborazione che, a seconda del loro grado di intensità, viene solitamente sottolineata dalla formula del riconoscimento de jure o de facto [4]. Quando si nega valore giuridico al riconoscimento – atto in ordine al quale le più varie teorie sono state sostenute – si viene a respingere soprattutto la tesi che esso sia costitutivo [5] della personalità internazionale. Si viene cioè a respingere la tesi secondo cui, affermandosi una nuova organizzazione di governo con i caratteri dell’effettività e dell’indipendenza, gli Stati pre-esistenti possano esercitare nei suoi confronti (appunto mediante il riconoscimento) una sorta di potere di ammissione nella comunità internazionale [6]. Bisogna però ammettere che tale tesi ha il merito di cogliere una tendenza che è stata sempre presente nella prassi internazionale, anche se non è mai riuscita a tradursi in precise norme giuridiche. Gli Stati pre-esistenti tendono, infatti, a giudicare se il nuovo Stato meriti o meno la soggettività, ancorando il loro giudizio ad un certo valore o ad una certa ideologia (come del resto ha fatto Bush nel caso del Kosovo): se in passato si usava non riconoscere uno Stato che non fosse monarchico o non fosse cristiano, in epoca attuale si tende a sostenere che non siano da riconoscere come soggetti internazionali i Governi affermatisi con la forza, gli Stati ‘non democratici’, quelli ‘non amanti della pace’ o che violano i diritti umani, etc. L’unica verità in tutto ciò è che questa tendenza non si è mai tradotta in norme internazionali per il semplice fatto che gli Stati, anche quando si trovano d’accordo sul valore da porre a base del riconoscimento, divergono poi (il più delle volte per ragioni politiche) sulla sua riscontrabilità in ciascun caso concreto.
Se, quindi, i requisiti necessari affinché lo Stato acquisti (automaticamente) la personalità internazionale sono quelli dell’effettività e dell’indipendenza, resta da chiedersi se essi siano anche sufficienti o se ne occorrano altri. Tralasciando le evidenti esagerazioni delle già citate Dichiarazioni di Bruxelles (che contengono una lunga lista di requisiti che non trova precedenti nella prassi), sarà sufficiente in questa sede limitarsi ai requisiti che oggi più frequentemente ricorrono, e cioè che lo Stato nuovo non costituisca una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, goda del consenso del popolo – espresso tramite libere elezioni – e non violi i diritti umani. Può effettivamente dirsi che non siano da considerare come soggetti internazionali gli Stati che tengano comportamenti del genere? La risposta è da ritenersi negativa. In realtà, tali requisiti, se considerati non come requisiti ai quali uno Stato pre-esistente subordina l’instaurazione di rapporti di amicizia con uno Stato nuovo, ma come presupposti della personalità internazionale – e quindi come presupposti che devono sussistere non solo affinché la personalità si acquisti, ma affinché essa non si perda – non trovano alcun riscontro nella realtà. Stati che, permanentemente o temporaneamente, minacciano la pace o sono autoritari o violano i diritti umani non mancano nella comunità internazionale. E non sono neppure pochi. Anzi, a ben guardare, costituiscono larga maggioranza. Ma non è tutto: se è sicuramente vero che, secondo sicuri principi del diritto internazionale contemporaneo, uno Stato è obbligato a non minacciare la pace e a rispettare i diritti umani, è altrettanto vero che simili obblighi, in quanto tali, non condizionano ma, anzi, presuppongono e, in ultima analisi, contribuiscono a definire la personalità giuridica dello Stato medesimo.

3. Il Consiglio di Sicurezza si è diviso sulla richiesta urgente da parte della Russia di annullare l’autoproclamazione di indipendenza. Mentre Usa, Gran Bretagna e Francia hanno riconosciuto il Kosovo indipendente, Russia e Cina considerano la proclamazione illegale, chiedendo che si continui a procedere in base a quanto previsto dalla risoluzione 1244 (10 giugno 1999), con cui si concluse la campagna aerea della Nato contro la Jugoslavia (Serbia e Montenegro). Un ulteriore elemento sta nel fatto che in base alla Costituzione serba, il Kosovo è parte integrante dello Stato serbo, in quanto erede internazionalmente riconosciuto della Federazione jugoslava. La stessa risoluzione prevedeva che lo status finale della provincia, temporaneamente affidato ad un protettorato internazionale, sarebbe stato deciso da un’ulteriore risoluzione dello stesso Consiglio di Sicurezza. Una volta di più una vicenda balcanica indebolisce gravemente le Nazioni Unite. Da parte sua, il Segretario generale Ban Ki-moon, rifiutandosi di entrare nel merito sulla legalità o meno della secessione unilaterale, ha dichiarato che per l’Onu l’unico documento valido continua ad essere la risoluzione del 1999, e che le Nazioni Unite continueranno a mantenere la loro presenza, civile in Kosovo (Unmik).
Se per Washington la questione si traduce in un più generale tentativo di avanzamento ad est della Nato (l’America travestita da Occidente), a Mosca l’interesse più rilevante è quello delle pipelines che dovranno trasportare il gas direttamente all’Unione Europea. Ma non sono da trascurare anche altri elementi: in primo luogo un Kosovo indipendente e alleato americano eccita le crescenti fobie del Cremino per tutte le basi Usa ormai a ridosso dei suoi confini e, inoltre, la dichiarazione unilaterale di indipendenza rischia di stimolare alcune aree ad un identico processo, per sottrarsi alla più o meno diretta influenza russa.
Dal canto suo, l’impotente Unione Europea deve fare i conti con una labile comunità di intenti e i
ripetuti errori in politica estera, per cui ogni stato membro ha esercitato il proprio diritto al riconoscimento. E il fallimento sembra sostanziarsi, appunto, in un'umiliazione per tutti coloro che sostengono che la grande forza dell'Europa sta precisamente nel suo cosiddetto ‘potere morbido’, ossia la capacità di influenzare i suoi vicini tramite promesse di accordi commerciali, aiuti finanziari ed eventualmente l'ingresso nell'Unione. E, invece, tutto quello che si è riuscito a fare è stata l’approvazione di una missione di state-building (Eulex). Certo risulta davvero penalizzante l’orientamento maggioritario, dimostratosi poco indipendente e, di conseguenza, appiattitosi sulla visione americana. Desta sorpresa, infatti, l’atteggiamento ostile verso la Serbia che dal 2006 partecipa al PfP della Nato e ha mostrato un’innata vocazione all’integrazione euro-atlantica, seppur permangano forti legami politico-economici con la Russia (è del gennaio 2008 l'accordo per il gasdotto 'South Stream' con il quale Gazprom acqisisce il controllo della compagnia petrolifera statale serba). Inoltre, in una prospettiva medio-lunga Belgrado dovrebbe riacquistare una posizione strategica nell’area per servizi e attività economiche. La crescente fiducia internazionale nell’economia del paese si spiega con una crescita del PIL del 7.1% (1° semestre 2007) e con il dato della Banca Mondiale secondo cui la Serbia è al primo posto nella classifica delle riforme economiche atte ad attrarre investimenti stranieri, anche se l’instabilità politica ha rallentato le riforme strutturali e il processo di privatizzazione (Categoria OCSE 7/7, rating S&P BB). Altrettanto non si può dire per il Kosovo, additato da molti come stato delle mafie, anche se altri lo giudicano meno peggio di quel che appare (vedere anche il Progress Report 2007 della Commissione Europea).
Ancora più imbarazzante è sembrato l’atteggiamento italiano che, invece di perseguire l’interesse della propria politica estera, ha immediatamente avallato il riconoscimento del nuovo stato in omaggio al diktat dell’alleato d’oltreoceano. In particolare, dato il forte interesse per le relazioni con la Serbia (nel 1° semestre 2007 l’Italia risulta essere il 2° partner commerciale di Belgrado, 1° acquirente, 3° fornitore – dopo Russia e Germania – e 5° paese investitore) si sarebbe potuto puntare su un riconoscimento più ragionato (cfr nota 6), e non così impulsivo (Belgrado ha anche ritirato la propria rappresentanza a Roma).

4. L'indipendenza del Kosovo è, quindi, destinata a produrre effetti sia in ambito locale che in ambito internazionale. Su scala locale assisteremo a continue tensioni (ma non è una novità) tra serbi e albanesi, mentre su scala più ampia ci avviamo ad una nuova guerra fredda (sebbene non nei termini che già conosciamo: non esistono più solo 2 blocchi) che è già, da più parti, aperta - si pensi all'Artico, al
Caspio, all'entrata dell'Ucraina nella Nato e nel Wto, allo scudo spaziale e alle minacce di Putin. Senza contare l'effetto domino che la dichiarazione d'indipendenza potrebbe produrre.Infine, è assolutamente deprecabile che l’indipendenza di alcune aree debba avvenire in questo modo. La frammentazione (o ‘balcanizzazione’) della ex-Jugoslavia è avvenuta su basi etniche (la Bosnia per es. è divisa in una ‘Repubblica serba di Bosnia’ e in una ‘Federazione croato-musulmana’) e ciò porterà solo ad un acuirsi delle divisioni. L’Europa non nasceva forse come casa comune del popolo europeo? Accentuare le divisioni etniche è forse coerente con gli scopi della Ue? La guerra del ’99 è stata un’imposizione della Nato, altro che scelte condivise, cosa giusta e motivi umanitari. Insomma, ogni situazione ha ovviamente una sua particolarità, ma il calderone Balcani ha già infiammato e insanguinato l’Europa abbastanza.

NOTE:
[1] Tale concezione solleva diversi dubbi, per esempio, sulla classificazione giuridica dell’Iraq, la cui Costituzione è stata de facto imposta dall’occupante statunitense e, addirittura, scritta in inglese per poi essere tradotta in arabo, con tutte le difficoltà e le incongruenze della traduzione.
[2] Governi fantoccio, come tali privi di soggettività internazionale, si ebbero ad esempio durante la 2nda GM nei territori occupati dai Nazisti (Governo Quisling in Norvegia, Repubblica sociale italiana, etc.). Un esempio attuale di Governo fantoccio è da molti considerato quello della Repubblica turco-cipriota, insediata dalle forze militari turche nella parte settentrionale di Cipro e controllata dalla stessa Turchia. Di questo avviso è in particolare la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. del 18/12/1996 nel caso Loizidou c. Turchia) che ritiene responsabile la Turchia per la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo perpetrate in quel territorio. Nello specifico, secondo la Corte, “Non occorre accertare se…la Turchia eserciti nel dettaglio un controllo sulla politica e sulle azioni delle autorità della Repubblica turca di Cipro del Nord. Il gran numero di soldati [turchi] che partecipano a missioni attive nel Nord di Cipro…attesta che l’esercito turco ha in pratica un controllo globale di questa parte dell’isola…Tale controllo implica la responsabilità della Turchia in ragione della politica e delle azioni della Repubblica” (par.44).
[3] L’irrilevanza del riconoscimento (e del non-riconoscimento) sull’esistenza dello Stato è efficacemente messa in luce in una sentenza della Corte d’appello degli Stati Uniti (2° circuito, 24/01/1992, New York Chinese TV Programs Inc. v. UE Enterprises Inc., ILR, vol.96, 81ss., partic.88). La Corte si rifiuta di considerare come estinto – per estinzione di uno dei soggetti contraenti – un trattato tra Usa e Taiwan, Stato non più riconosciuto dai primi dopo il 1979 ma, a giudizio della Corte, ancora dotato degli attributi statali. La sentenza contiene anche un riferimento ai trattati tra Usa e altri Stati, come Iran e Cuba, da essi non riconosciuti.
[4] Più approfonditamente, il riconoscimento può essere espresso (dichiarato formalmente), tacito (ricavabile da fatti concludenti, come l’instaurazione di relazioni diplomatiche), de facto (provvisorio e limitato ad alcuni rapporti giuridici, come in caso di instabilità del nuovo Stato), de jure (definitivo e pieno), di Stati (relativo ad un nuovo Stato) o di Governi (relativo ad un Governo rivoluzionario di uno Stato pre-esistente).
[5] Un’importante distinzione si ha, a tal proposito, tra teoria del valore costitutivo (bilaterale o unilaterale) e teoria del valore dichiarativo. Fonti del primo caso sono: Trattato di pace di Parigi del 30/03/1856 (art.7); Dichiarazioni di Bruxelles del 16/12/1991 (cfr. nota 7). Fonti del secondo caso sono invece: risoluzione dell’Institut de droit international del 23/04/1936 sul riconoscimento degli Stati e dei Governi; sentenza della Corte di Cassazione italiana del 25/06/1985 n.1981 sul caso Yesser Arafat; parere n.10 del 04/07/1992 della Commissione arbitrale mista istituita dalla Conferenza di pace sulla Jugoslavia.
[6] Ciò è particolarmente vero per i cd. riconoscimento di Stati e di Governi: se si ritiene che lo Stato quale soggetto internazionale si identifichi con lo Stato-organizzazione (il complesso degli organi statali) ne consegue che il riconoscimento di Stati e quello di governi rivoluzionari coincidono (se cambia radicalmente il governo di uno Stato, cambia anche lo Stato stesso come soggetto internazionale, e il riconoscimento del nuovo governo equivale allora al riconoscimento del nuovo Stato); se invece si accoglie una diversa nozione di Stato quale soggetto internazionale (come ad esempio quella tridimensionalistica che lo configura come ‘ente ternario’ o insieme di 3 elementi – popolo, territorio e sovranità su di essi) si accetta la distinzione tra riconoscimento di Stati e riconoscimento di Governi, ossia la possibilità che l’uno non implichi necessariamente l’altro.

APPROFONDIMENTI:
- Archivio Balcani, Affari Internazionali;
-
Speciale Kosovo indipendente, Limes online;
- Kosovo's independence - key issues, international crisis group;
- Kosovo: The US and the EU support a Political Process linked to Organized Crime, Michel Chussudovsky, Globalresearch;
-
Vreme (Serbia) 29 ottobre 2007;
- CARTOLINE (Kosovo), Internazionale.

domenica 2 marzo 2008

Campagna (elettorale)

vignetta di Marco Viviani