lunedì 30 marzo 2009

Speciale Parlamento europeo - PARTE II

Correttezza della comparazione tra “parlamentarismo” europeo e Parlamenti nazionali

A causa della sua specificità, sui cui motivi storici, sociali e politici, per altro noti, non è il caso di soffermarsi in questa sede, il sistema istituzionale dell’Unione rappresenta un modello unico, che non trova riscontri in nessun altro tipo di esperienza né a livello statale, né a livello di organizzazioni internazionali. Ai fini della presente trattazione, in particolare per quanto attiene al ruolo che partiti politici di livello europeo potrebbero giocare nel processo di riduzione del deficit democratico, può, quindi, risultare utile una comparazione tra alcuni aspetti del funzionamento del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, limitatamente al caso italiano. Tanto più che già dal regolamento del 1981 [1] traspariva una connotazione del Parlamento europeo quale organo ancor più marcatamente “di gruppi e non di delegazioni nazionali o di individui”. In altre parole, veniva ulteriormente sottolineata la sua diversità rispetto alle altre Istituzioni comunitarie e, conseguentemente, si profilava il suo avvicinamento ai modelli parlamentari statali: da alcune soluzioni regolamentari assunte dal Parlamento europeo si avvertiva, del resto, che la derivazione di alcune disposizioni non era tanto di origine interna quanto, piuttosto, il risultato della trasposizione di esperienze nazionali in ambito comunitario.
Su questo punto è stato anche sostenuto [2] che l’effettiva influenza dei gruppi, la loro essenza e quella della loro funzione dipendono direttamente dai poteri concreti del parlamento in cui operano, fermo restando che i gruppi europei svolgono funzioni ben diverse rispetto ai gruppi nazionali, tali, però, da non escludere la stringente analogia strutturale e, per alcuni aspetti, anche funzionale dei due fenomeni. L’indagine comparatistica è, in definitiva, per gli autori, compatibile e necessaria dal momento che il Parlamento europeo ha sempre attinto dalle esperienze maturate negli ordinamenti nazionali. È importante sottolineare, però, al di là delle singole opinioni, come già pochi anni dopo la prima elezione diretta dell’assemblea di Strasburgo si avvertisse che, in mancanza di reali partiti di dimensione europea, non fosse possibile per i gruppi europei esplicare integralmente quella che per i gruppi nazionali è la funzione preminente: la rappresentanza dei corrispondenti partiti. I successivi passi, tuttavia, tra i quali l’adozione progressiva di sistemi elettorali (quasi) uniformi, il consolidarsi del fenomeno di formazione delle federazioni partitiche transnazionali e, recentemente, il Regolamento n. 2004/2003 hanno aperto, in questo senso, nuove prospettive.
Il tentativo di comparazione può certamente sollevare alcune perplessità sulla correttezza metodologica del confronto, trattandosi di comparare, da un lato, organi di natura statale e, dall’altro, organi internazionali. Se è vero, infatti, che sotto il profilo strutturale esiste un’indubbia somiglianza tra i due tipi di assemblea, soprattutto a seguito dell’elezione diretta del Parlamento europeo, tuttavia, sotto il profilo funzionale, le assemblee legislative degli Stati membri hanno ben poco in comune con quella europea, non dotata né di poteri legislativi, né di alcun autentico potere di controllo sull’esecutivo. Di questo avviso non è Prélot, il quale sostiene [3] che ci sarà diritto parlamentare ovunque esistono delle Camere deliberanti, anche in assenza della responsabilità politica dei ministri davanti ad esse. In particolare, per l’autore, la comparazione tra il livello parlamentare comunitario e i vari livelli nazionali deve ritenersi possibile e necessaria, dal momento che sono certamente confrontabili i diversi modi in cui vengono organizzati “i dibattiti di un gran numero di uomini riuniti in assemblea”.
Altre posizioni della dottrina [4] hanno sottolineato, per il caso italiano, come alcuni istituti regolamentari del Parlamento europeo presentassero analogie di fondo con i regolamenti delle Camere del 1971, dal momento che, per motivazioni diverse, le assemblee propendevano al coinvolgimento delle “opposizioni” nella programmazione e nell’espletamento dell’attività parlamentare. Più correttamente, mentre il Parlamento europeo tendeva, e tende tutt’ora, ad esprimersi nella sua interezza quale organo di opposizione al sistema, nelle Camere italiane, pur conservandosi la sostanziale diversità di ruoli tra maggioranza e opposizione, si propendeva, per le ragioni storiche del momento, al raggiungimento di frequenti compromessi con le opposizioni più significative, al fine di ottenerne la compartecipazione alla gestione più spedita e coordinata delle assemblee. Va, comunque, notato che sotto il profilo rappresentativo il Parlamento europeo si caratterizza solo parzialmente in forme simili alle assemblee nazionali: se riunisce, infatti, secondo le previsioni dei Trattati i rappresentanti dei popoli degli Stati comunitari, esiste, tuttavia, una rilevante particolarità, consistente nel fatto per cui, in presenza di un sistema di elezione delimitato dai confini nazionali, viene a mancare l’elemento soggettivo primario costitutivo di un “popolo europeo” unitariamente inteso, che è, invece, presupposto indefettibile dell’ordinamento statuale.
Un ulteriore elemento di differenziazione tra i due livelli può essere individuato nel rifiuto, all’interno dell’ordinamento comunitario, del principio della divisione dei poteri, idoneo ad allontanarlo dai tradizionali schemi del parlamentarismo nazionale.
A parziale spiegazione di ciò, è stato sostenuto [5] che la divisione dei poteri non si è imposta nelle organizzazioni internazionali per l’assenza delle ragioni storiche, più che strutturali, che ne hanno determinato la nascita: la tutela di taluni fondamentali diritti della persona nei confronti del potere dello Stato. Per questi motivi, di fronte all’originalità di un’Assemblea priva di poteri deliberanti di un certo rilievo e di fronte ad un esecutivo bicefalo, emanazione dei governi nazionali, sembra corretto accogliere con estrema cautela ogni caratterizzazione degli organi comunitari a partire dagli schemi statuali. In realtà, se si confronta la collocazione del Parlamento europeo nell’impianto comunitario con il ruolo centrale esercitato, per esempio, dal Parlamento italiano, si deve ammettere una notevolissima distanza tra i due organi. Il carattere centrale del Parlamento italiano raggiunge i più unanimi riconoscimenti nel corso della VII legislatura, con l’avvio del governo “delle astensioni” e della “non sfiducia”: in questa fase il centro di gravità del sistema politico si sposta verso tale direzione [6].
Se si paragona, invece, il Parlamento europeo con il parlamento britannico, dominato ed orientato in gran parte dal Gabinetto, vero centro del sistema costituzionale, la distanza tra gli organi, almeno sotto questo profilo, si riduce visibilmente. Né avrebbe senso tentare di paragonare il sistema costituzionale europeo a quello statunitense, del quale si accennerà brevemente in seguito, per la profonda diversità dei presupposti sui quali si fondano. In tutti i casi, si deve constatare che, eccezion fatta per l’originalissimo caso italiano [7] , comune a tutti i Parlamenti statali è il crescente fenomeno della perdita di prerogative a favore degli esecutivi, in conseguenza della crisi di legittimazione degli organi parlamentari [8] e per effetto delle maggiori garanzie offerte alla stabilità dei governi.
Uno squilibrio funzionale tra organi, a tutto vantaggio del Consiglio, si è sempre registrato anche nell’ordinamento comunitario; in questo caso, però, il fenomeno si deve soprattutto a consapevoli e calibrate scelte costituenti degli estensori dei Trattati, che hanno inteso privilegiare, accanto ad entità di carattere sovranazionale, innanzitutto gli organismi rappresentativi di interessi nazionali.
È, tuttavia interessante notare che, sia pur partendo da assetti estremamente differenziati e da presupposti assolutamente non confrontabili, le divergenti linee evolutive del sistema comunitario e dei sistemi nazionali, limitatamente a questo tema, rafforzano di fatto il medesimo disegno istituzionale in cui le funzioni decisionali si concentrano sugli esecutivi, mentre le funzioni di rappresentanza e di controllo sono svolte dai parlamenti [9].
Infine, è appena il caso di avanzare alcune considerazioni su un altro aspetto della possibile analisi comparata dei due sistemi, quale quello della cosiddetta “unitarietà” dell’ Assemblea europea dovuta, in linea di massima, all’inesistenza di precostituite maggioranze ed opposizioni parlamentari. Infatti, nelle forme di governo parlamentari, caratterizzate da uno stretto collegamento tra potere esecutivo e potere legislativo, il Parlamento non si mostra quale organo omogeneo e unitario, bensì si scompone in maggioranze che sostengono il governo e opposizioni che lavorano per la sua alternativa. Al contrario nella forma di governo degli Stati Uniti d’America, il Congresso è in un rapporto di netta separazione con il Presidente, tanto che, pur in presenza di maggioranze e minoranze parlamentare, si esprime spesso unitariamente, tendendo a contrapporsi in toto nella difesa delle proprie prerogative. Anche nel sistema comunitario il rapporto tra Consiglio e Parlamento è di totale separazione, anzi spesso di assoluto contrasto, per cui l’organo parlamentare tende ad esprimersi all’unanimità o a grandissima maggioranza, caratterizzandosi prevalentemente quale organo di opposizione, secondo le tradizionali teorie per le quali il contrappeso tra i poteri si realizza tramite l’esercizio del ruolo di opposizione da parte dell’intero parlamento.
Come si è visto, quindi, la possibilità di comparazione tra i due diversi sistemi risulta più o meno idonea a seconda degli aspetti dei quali si effettua il confronto. Anche per questi motivi, con le dovute cautele, alcune ulteriori considerazioni di carattere comparato sul Parlamento europeo e sui Parlamenti nazionali appaiono utili e possibili. Esse investono necessariamente alcuni aspetti di un fattore che più di altri ha la necessaria forza per influenzare il sistema costituzionale e politico di uno stato, sia esso nazionale che di carattere sopranazionale: il sistema elettorale, con particolare attenzione alla scelta, nell’ambito comunitario, del sistema proporzionale.

NOTE:
[1] Approvato nella seduta del 26 marzo.
[2] Sull’argomento si veda: Chiti-Battelli – I “Poteri” del Parlamento europeo, Milano, 1981.
[3] M.Prélot – Le droit des Assemblées internationales, Accadémie de Droit International, 1981.
[4] Beccaccini – Sistema politico e regolamenti parlamentari, Milano, 1980.
[5] Miglizza – Il fenomeno dell’organizzazione internazionale e la comunità internazionale, Milano, 1988.
[6] In tal senso: Rodotà – La Costituzione materiale ai tempi dell’unità nazionale, in Laboratorio politico, marzo-giugno 1982, p. 64. “La funzione nuova del Parlamento viene individuata nella creazione di una sede in cui si realizza una certa partecipazione al potere di partiti che restano peraltro esclusi dalla partecipazione diretta agli organi di governo”.
[7] In particolare Bognetti – Il modello economico della democrazia sociale e la costituzione della Repubblica italiana, in Verso una nuova costituzione, Tomo I, Milano, 1983 fa risalire le principali anomalie del caso italiano al legame esistente tra strutture economico-sociali e strutture politiche. Esse sarebbero ampiamente caratterizzate e influenzate, oltre che dall’intrinseca debolezza dell’ esecutivo, soprattutto dall’esistenza di un eccesso quantitativo di rendite politiche all’interno del sistema rispetto a quelle generalmente presenti negli altri ordinamenti occidentali contemporanei, incorporanti il medesimo modello di Stato.
[8] Sulla crisi del parlamentarismo si veda, del tutto indicativamente, H.Kelsen – Il problema del parlamentarismo, in Il primato del Parlamento, Milano, 1982.[9] In vero, nel sistema comunitario tale funzione non è mai stata svolta integralmente dal Parlamento a causa delle lacune sul piano dei poteri di decisione. Ad ogni modo, come si cerca di dimostrare in questo lavoro, in più di venti anni sono stati compiuti diversi passi in questo senso, nel tentativo di ampliare e rafforzare i poteri dell’ Assemblea comunitaria. La tesi che si sostiene è che solo lo sviluppo di europartiti capaci di assolvere a tali funzioni di rappresentanza può consentire al Parlamento di esprimere tutto il suo potenziale.

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domenica 22 marzo 2009

Una mano tesa al pragmatismo

Il messaggio di Obama al popolo iraniano è stato enfatizzato dai media come una vera e propria svolta. Se è indubbio che la politica Usa verso Teheran stia cambiando, ciò non è dovuto a spontanea generosità ma ad un calcolato pragmatismo. Come prevedibile, infatti, il regime degli Ayatollah ha risposto subito picche: prima vediamo i fatti.


Obama non ha teso la mano all'Iran, Obama ha semplicemente un disperato bisogno dell'Iran. L'America è impantanata in Iraq e Afghanistan e gli unici che possono fare qualcosa per agevolare la ritirata dei militari sono gli iraniani. La maggioranza della popolazione in Iraq (60%) e una grossa minoranza negli stati sunniti del golfo (20% solo in Arabia Saudita) è sciita e guarda a Teheran. Una grossa fetta dell'Afghanistan occidentale è impregnato di cultura persiana, tanto che nella provincia di Herat si parla il Farsi.
Bush credeva in una guerra lampo che gli avrebbe permesso di accerchiare e poi sferrare l'attacco all'Iran; ora Obama e l'America ne pagano le conseguenze.Risultato: gli Ayatollah per la prima volta dall'interruzione delle relazioni diplomatiche con il 'Grande Satana' hanno il coltello dalla parte del manico e non mancheranno di utilizzarlo come deterrente nel gioco della diplomazia internazionale. Gli iraniani del resto sono abili tessitori, non solo di tappeti. Il 'Piccolo Satana' è avvisato: nei prossimi anni il suo migliore e incondizionato alleato potrebbe giocoforza sacrificarlo sull'altare del pragmatismo...
"La ragione fondamentale che ha spinto Obama alla svolta è che la posizione ereditata da Bush in Medio Oriente è insostenibile. Strategicamente ed economicamente, l’America deve voltare pagina, favorire la stabilizzazione (molto relativa) di Iraq e Afghanistan, riportare a casa il grosso dei soldati ancora schierati su quei fronti. La sua missione iniziale, com’era stata concepita da Bush, è fallita. Ora l’America ha bisogno di tutte le potenze regionali, fra cui l’Iran, per salvare la faccia e ristabilire la sua influenza nella regione. Siamo per ora alle parole. Vedremo quali fatti seguiranno. Soprattutto, vedremo fino a che punto l’Iran sarà disposto a rispondere all’offerta americana. E come reagiranno gli israeliani e gli arabi sunniti, che avevano scommesso sull’accerchiamento e sul soffocamento della potenza iraniana sotto la leadership americana. In ogni caso, il mazzo delle carte mediorientali è completamente rimescolato. Stanno per iniziare nuove partite, di cui l’Iran sarà comunque protagonista" (limes on line da cui è ripresa anche a mappa geopolitica).

domenica 15 marzo 2009

Un grande welfare contro la grande crisi

Il nostro sistema di ammortizzatori sociali è del tutto inadeguato. Ed è oggi, in tempo di crisi, che va radicalmente e urgentemente rivisto, stanziando tutte le risorse necessarie. Senza subordinare l'intervento ai tagli alla previdenza pubblica.

Le posizioni emerse nel dibattito sulla proposta di aumentare gli assegni ai disoccupati sono sintomatiche dell’estemporaneità con la quale ancora si affronta il tema degli ammortizzatori sociali e, più in generale, dell’inadeguatezza delle politiche sociali correnti rispetto alle esigenze anche economiche accentuate drammaticamente dalla crisi in atto. Quella che oramai senza enfasi può essere chiamata “la grande crisi del 2008” rende incontestabilmente più urgente il potenziamento degli ammortizzatori sociali, cosicché oggi appaiono particolarmente ingiustificate le contrarietà ad attuarlo o a subordinarlo alla riduzione delle prestazioni pensionistiche. Va tuttavia sottolineato che le carenze delle misure di sostegno al reddito del nostro sistema di welfare sono da anni sotto gli occhi di chi vuol vedere (vedere per esempio l'ultima edizione del “Rapporto sullo stato sociale” elaborato annualmente presso il Dipartimento di Economia Pubblica della “Sapienza”).
Fatta pari a 100 la spesa sociale procapite della media dell’Unione Europea a 15, il dato italiano, dopo una riduzione di 7 punti negli ultimi dieci anni, è arrivato a 75. Se si fanno confronti omogenei, il divario è sensibilmente superiore a quello che emerge dai dati ufficiali. Infatti nelle statistiche Eurostat le prestazioni previdenziali includono quelle di fine rapporto (pari all’1,5% del Pil, che non sono affatto prestazioni pubbliche) e le ritenute fiscali (pari al 2,5% del Pil, che negli altri paesi sono assenti o comunque inferiori). Dall’uso di dati omogenei emerge anche che la nostra spesa pensionistica non è affatto anomala; non solo, ma le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali sono inferiori alle entrate contributive per un ammontare pari allo 0,8% del Pil, cosicché il bilancio pubblico è alimentato (non appesantito) dal sistema pensionistico. Oltre all’inferiorità della spesa, la vera anomalia strutturale del nostro stato sociale è (da tempo) la grande insufficienza degli ammortizzatori sociali; per essi la spesa è pari a circa un terzo della media europea e, per di più, lascia scoperti proprio le categorie di lavoratori più precarie. Inoltre, mentre nell’ultimo secolo quasi tutti i sistemi di welfare si sono dotati di misure di sostegno al reddito minimo, in Europa solo Italia e Grecia non garantiscono questo livello di protezione sociale.
Dunque la netta inadeguatezza dei nostri ammortizzatori sociali non è affatto una novità. In più, dovremmo tutti esserci resi conto che non siamo in tempi normali, ma che stiamo attraversando la crisi economica più grave dai passati anni ’30 (per ora, poiché non sappiamo quanto ancora si aggraverà e come e quando ne usciremo). La coscienza della natura della crisi dovrebbe dunque spingere ad affrettare, non a frenare, l’adeguamento dei nostri ammortizzatori sociali. Certo, abbiamo un elevato debito pubblico e un suo aggravamento potrebbe penalizzarci nell’opinione dei mercati; ma una politica di bilancio che - come sta accadendo - facesse poco o nulla per frenare il calo particolarmente accentuato del nostro reddito nazionale (-1% nel 2008 - mentre negli altri paesi europei il dato è stato positivo - e per il 2009 è previsto il -2,6%) produrrebbe comunque effetti negativi già nell’immediato sul bilancio (ad esempio per la riduzione delle entrate fiscali). L’aspetto “nuovo” da considerare è che le preoccupazioni dei mercati - come dimostrano le loro reazioni al mancato salvataggio pubblico della Lehman Brothers e agli interventi a sostegno dei settori reali e finanziari dell’economia ritenuti tardivi e insufficienti - sono legate più all’aggravamento degli indicatori connessi alla crescita (i bilanci aziendali, i livelli dei consumi e degli ordinativi, le aspettative per il futuro) che non al peggioramento dei bilanci pubblici. Negli Usa, patria del neoliberismo, il deficit di bilancio ha raggiunto il 12% del Pil, cioè quattro volte il limite imposto dai criteri di Maastricht, ma i mercati reputano ancora insufficiente l’intervento pubblico. Gli effetti della crisi non riguardano solo gli equilibri del sistema economico, ma anche la teoria economica e la percezione che di essa hanno gli operatori e l’opinione pubblica.
Questa crisi e le modalità con le quali si sta manifestando offrono un insegnamento significativo: ripropongono all’attenzione generale l’incertezza che è cosa diversa e più inafferrabile rispetto al rischio probabilisticamente prevedibile; essa è una caratteristica qualificante dell’economia di mercato capitalistica, anzi è una delle sue contraddizioni principali: più il mercato si intensifica (mercati derivati, finanziarizzazione dell’economia, ecc) e si estende territorialmente (globalizzazione), più genera risultati fragili ed equilibri instabili. L’incertezza è accresciuta dal mercato ma ne mina sempre più il funzionamento, e gli strumenti per compensarne gli effetti vanno necessariamente cercati al suo esterno, cioè in un ambito decisionale che non sia regolato dal profitto e dagli interessi individuali, ma dalle istituzioni collettive. Lo stato sociale - che da sempre ha tra le sue funzioni quella di sopperire ai fallimenti del mercato, e di fatto ne costituisce un superamento, – è l’istituzione che, debitamente usata, si presta particolarmente ad affrontare e compensare l’incertezza. La crisi dunque, sia per i suoi effetti destabilizzanti che creano problemi economici e sociali da fronteggiare immediatamente sia perché ripropone nei suoi termini strutturali la questione dell’incertezza congenita del mercato che le analisi economiche e le politiche neoliberiste si erano illuse di aver sostanzialmente rimosso derubricandola a rischio probabilisticamente prevedibile, accresce l’esigenza anche economica della sicurezza sociale la quale può essere favorita, tra l’altro, dalle misure di sostegno ai redditi presenti (in particolare dei disoccupati) e futuri (come le prestazioni pensionistiche attese). Sia sul piano sociale sia su quello economico, si manifesta dunque come del tutto controproducente la posizione di non adeguare gli ammortizzatori sociali per salvaguardare il bilancio pubblico che, invece, mai come in questa fase critica deve svolgere una funzione anticiclica richiesta a gran voce dagli stessi mercati. Proporre poi una nuova riduzione delle prestazioni pensionistiche equivale a gettare acqua bollente su un corpo (il sistema economico e sociale) già drammaticamente ustionato da una crisi al cui fondo c’è sfiducia e incertezza per il futuro.
Ci si può chiedere, infine, come mai, in un contesto internazionale nel quale anche la “rigorosa” Germania ha dovuto superare le proprie idiosincrasie storiche per le politiche di bilancio espansive, proprio il nostro governo sia diventato “più realista del re” in materia di attenzione ai vincoli del bilancio pubblico. A questo riguardo vengono in mente due considerazioni. La prima è che Tremonti, pur dichiarandosi molto critico verso il ”mercatismo” (ma non verso il mercato), considera questa crisi essenzialmente di natura finanziaria e imputabile al comportamento dei banchieri; cosicché sarebbe sufficiente sperare che il nostro settore finanziario non manifesti le stesse criticità di quelli “dove si parla inglese”. Il nostro ministro dell’economia non considera invece che quelle in crisi sono le modalità assunte dal processo di accumulazione negli ultimi tre decenni; la stessa finanziarizzazione dell’economia e la conseguenza fragilità del sistema esplosa con la crisi attuale sono stati stimolati anche dall’esigenza di compensare le difficoltà di realizzare profitti nel settore reale dell’economia. E’ qui, dunque, che sta il nodo principale del problema e per affrontarlo occorrerà migliorare sia le condizioni della domanda (mediante un aumento dei salari e delle prestazioni sociali) sia quelle dell’offerta (favorite anche dalla capacità dello stato sociale di stimolare l’innovazione aumentando il capitale umano e offrendo reti di sicurezza) sia la distribuzione del reddito (uno dei compiti primari del welfare state).
La seconda considerazione riguarda un problema di reputazione che i rappresentanti di questo governo sono intimamente consapevoli di avere a livello internazionale e che potrebbe pregiudicare l’efficacia di una pur corretta impostazione anticiclica della politica di bilancio. La gravità di questa crisi e l’analisi delle sue cause indicano che per uscirne bene e in fretta occorrerà liberarsi al più presto delle visioni economiche e politiche dominanti negli ultimi decenni e che si dovranno costituire nuovi e più efficaci equilibri tra i mercati e le istituzioni pubbliche, nazionali e sovranazionali; ma in entrambi gli ambiti si avverte anche la forte esigenza di nuove classi dirigenti.

FONTE: Felice Roberto Pizzuti, www.sbilanciamoci.info

mercoledì 4 marzo 2009

Speciale Parlamento europeo - PARTE I

Il sistema partitico del Parlamento Europeo

Nel porre il tema dei partiti politici europei e delle prospettive che si aprirebbero per l’ evoluzione istituzionale dell’ Unione, si avanza solitamente l’opportunità di giungere ad una riduzione del deficit democratico, quale condizione per l’effettiva creazione di un’entità sovranazionale indipendente dai governi dei singoli Stati membri, mediante un più stretto collegamento con la società civile. Dalle prime elezioni dirette del Parlamento europeo fino al progetto Costituzionale, sono state molte le opinioni secondo le quali per alzare il tasso di democraticità dell’ Unione fosse necessario, in via preliminare, revisionare i Trattati istitutivi, quale condizione essenziale per il ridimensionamento dei poteri del Consiglio e per il potenziamento del ruolo del Parlamento. Esso, infatti, si caratterizza per la composizione e l’ organizzazione in forme marcatamente sovranazionali, ma non è stato in grado, almeno fino all’ introduzione della procedura di cui all’ articolo 251, di porsi quale organo di radicale opposizione nei confronti del Consiglio e della Commissione.
Purtroppo, però, neanche il Trattato Costituzionale (in attesa di ratifica) è riuscito a rafforzare in modo significativo il suo ruolo: sul piano delle riforme istituzionali, infatti, l’attenzione maggiore della Convenzione si è incentrata sugli aggiustamenti che si sono resi necessari per effetto dell’ allargamento, senza, però, che esse riguardassero anche il Parlamento. In particolare, sia la razionalizzazione della Commissione sia la riforma della Presidenza del Consiglio e del meccanismo di voto al suo interno hanno preso spunto dalla necessità di limitare un già elevato numero di commissari, dall’ inefficienza di una rotazione che avrebbe portato ciascun Stato membro a presiedere l’Unione una sola volta ogni dodici anni e mezzo e dai mutati equilibri demografici. È indubbio, infatti, che sia il Consiglio, attraverso una presidenza durevole e presumibilmente più autorevole, sia la Commissione, per mezzo di un ridimensionamento generale capace di migliorarne il funzionamento e la potenziale acquisizione di influenza in politica estera [1], escono notevolmente rafforzati. Lo stesso non si può dire del Parlamento, dal momento che non acquisisce nessun potere rilevante, fatta eccezione per l’estensione ad ulteriori materie della procedura di codecisione: le necessità dettate dall’allargamento hanno prevalso sul processo di democratizzazione dell’Unione. Non può, infatti, essere considerato rilevante neanche il potere di eleggere il presidente della Commissione, in quanto la procedura di elezione non differisce sostanzialmente da quella che nei precedenti Trattati veniva definita approvazione; al massimo la nuova dizione può indicare l’intenzione della Convenzione di sottolineare, in senso simbolico, l’importanza del Parlamento nel quadro democratico dell’Unione.
Alla luce di ciò, molte delle speranze sul futuro della “casa comune europea” sono riposte sulla nascita di partiti, operanti esclusivamente a livello europeo, capaci di coinvolgere ampi strati della popolazione nel dibattito politico e di sopperire alle lacune del Parlamento. Non a caso, infatti, parte della dottrina ha insistito, fin dai primi anni di nascita della Comunità economica europea, sul fatto che lo sviluppo degli europartiti costituisse un punto analitico rilevante per la valutazione del sistema politico dell’Unione [2]. I partiti politici sono presenti nell’architettura istituzionale europea attraverso tre tipi di strutture: i gruppi parlamentari, le federazioni transnazionali, anche se poco sviluppate e di tipo embrionale e i partiti nazionali. I gruppi parlamentari, che comprendono gli eletti di vari paesi appartenenti alle stesse famiglie partitiche o, comunque, a partiti nazionali ideologicamente compatibili, hanno svolto fino ad ora un ruolo assolutamente primario; funzione tra le più significative di quelle ad essi assegnate è stata di agevolare, tramite gli opportuni collegamenti con il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali, la caratterizzazione del primo come il “Parlamento d’ Europa”, alle cui deliberazioni si raccorda l’azione di quelli statali. È stato, inoltre, sostenuto dalla dottrina che la presenza dei gruppi nel Parlamento europeo riveste un’importanza, allo stesso tempo, formale e sostanziale [3].
Dal punto di vista formale essi sono le formazioni collettive con le quali si organizzano i lavori parlamentari: si distribuiscono i tempi di dibattito e di interrogazione, i posti nelle commissioni, le precedenze negli interventi e nelle dichiarazioni di voto, nonché le cariche dell’organizzazione parlamentare; dal punto di vista sostanziale, contemporaneamente, i gruppi svolgono la funzione di negoziare la formazione delle maggioranze parlamentari, compito che diviene fondamentale quando si tratti di deliberare su questioni controverse sulle quali è necessario che il Parlamento esprima tempestivamente la propria, al fine di completare l’iter decisionale comune: è questo il caso, ad esempio, delle procedure di bilancio, di codecisione e, per lo più nel passato, di quelle di cooperazione e di parere conforme.
Le organizzazioni extraparlamentari hanno, invece, la forma di federazioni transnazionali, nel caso delle famiglie politiche più importanti e consolidate come il Partito popolare europeo (Ppe), il Partito dei socialisti europei (Pse) e la Federazione dei Partiti liberali, democratici e riformisti europei (Ldre). Un caso particolare è rappresentato dalla Federazione dei Partiti Verdi (Fepv), che ha compiuto progressi notevoli nel cammino verso la sua transnazionalizzazione, iniziata nei primi anni novanta. Oltre a questi due tipi di strutture, a livello europeo sono rilevanti anche i partiti nazionali, in quanto sono attivi direttamente e in maniera più efficace nella politica dell’ Unione, ma soprattutto perché forniscono ancora l’unico canale di collegamento tra essa e la società civile.
Il compito di educazione politica dei cittadini dovrebbe, invece, essere prerogativa fondante degli europartiti, i quali hanno, purtroppo, visto il loro sviluppo fortemente rallentato a causa del monopolio che i partiti nazionali sono riusciti nel tempo a mantenere relativamente a tali funzioni. Questi ultimi, infatti, operano in entrambi i circuiti istituzionali dell’ Unione: il circuito intergovernativo, basato sul Consiglio dei ministri e sul Consiglio europeo, e quello sovranazionale, fondato sul Parlamento europeo e sulla Commissione. Le dinamiche esistenti tra i due circuiti costituiscono certamente uno degli aspetti principali dello sviluppo dell’ Unione, anche se, fino ad ora, l’intergovernativismo ha nettamente prevalso sul sovranazionalismo. A questo non si sottraggono i partiti politici, le cui azioni in qualità di attori nazionali in aree decisionali intergovernative sono state molto più efficaci di quelle intraprese a livello sovranazionale dai gruppi parlamentari o dalle federazioni transnazionali nella preparazione delle piattaforme comuni e delle campagne elettorali.
Non si è, quindi, sentita la necessità di potenziare quelle strutture (le federazioni transnazionali, appunto) che dovrebbero costituire un collegamento tra il Parlamento europeo e la società civile; esse rimangono indubbiamente delle istituzioni molto deboli dal punto di vista della visibilità, della forza degli iscritti, della professionalizzazione e della capacità finanziaria. Al tempo stesso, i gruppi parlamentari si sono dimostrati capaci di grandi progressi, grazie agli importanti incentivi (risorse materiali, nonché migliori posizioni nelle commissioni parlamentari e nelle cariche dirigenziali del Parlamento europeo) che vengono puntualmente stanziati per la loro formazione e il loro funzionamento [4].
Anche se le federazioni transnazionali che si sono effettivamente costituite, seppur a diversi livelli di complessità, sono solo quattro, esse hanno sofferto, ancor più dei gruppi parlamentari, della necessità di rispettare le particolarità e gli obiettivi delle loro componenti nazionali, le quali, soprattutto all’interno delle due federazioni maggiori (Ppe e Pse), appaiono spesso preoccupate di dover giustificare a livello nazionale le proprie azioni, limitandone, così, l’incisività a livello europeo. Ma c’è un altro dato che merita particolare attenzione: il ruolo di primo piano assunto da entrambe le federazioni, soprattutto nella preparazione delle posizioni comuni in occasione delle conferenze intergovernative, ha fatto passare in secondo piano la loro crescente disomogeneità interna. Questa minore compattezza, dovuta sia all’aumento del numero delle delegazioni nazionali che le compongono, provocato dai successivi ampliamenti dell’ Unione, sia all’estensione della propria membership a partiti provenienti da tradizioni diverse, vale in particolar modo per il Ppe, all’interno del quale all’originario nucleo democristiano si è prepotentemente affiancata la componente conservatrice. La Federazione dei liberali, democratici e riformatori, a sua volta, ha avuto sempre problemi di coesione come conseguenza di orientamenti ideologici assai variegati e di una generalizzata debolezza delle sue componenti nazionali. Per i Verdi, invece, il diffuso atteggiamento anti-burocratico e la chiara preferenza delle sue componenti nazionali verso sistemi decisionali decentrati e vicini alla base si sono finora tradotti in una evidente riluttanza nel creare un’organizzazione partitica compiutamente transnazionale.
Come già detto, più positivo è stato lo sviluppo di gruppi parlamentari; oltre ai motivi già esposti, ciò è dimostrato anche dalla loro inclusività e dalla loro coesione [5]: l’inclusività è osservabile attraverso le modifiche nelle appartenenze ai gruppi e, più precisamente, a seconda della loro consistenza numerica e della presenza di più delegazioni nazionali, mentre la coesione è data dal grado di accordo espresso nelle votazioni da parte dei parlamentari che li compongono. Nel corso degli oltre venti anni dalle prime elezioni dirette del Parlamento europeo, il sistema europartitico ha subito molti cambiamenti importanti e solo tre dei suoi componenti originari (Ppe, Pse e Ldre) sopravvivono. Ciò si spiega per il fatto che in parte l’evoluzione del sistema partitico parlamentare europeo è stata condizionata dai criteri numerici per la formazione dei gruppi, criteri che sono divenuti nel tempo progressivamente più restrittivi, favorendone il grado di inclusività. In passato, infatti, è stato possibile formare gruppi parlamentari composti da rappresentanti provenienti anche da un unico Stato membro, cosa che aveva consentito la formazione dell’effimero gruppo di Forza Europa, incarnazione europea di Forza Italia. Attualmente, invece, per formare un gruppo politico è necessario riunire almeno sedici deputati eletti in almeno un quinto degli Stati membri. Per quanto riguarda la loro coesione, invece, il trend si è mantenuto costante, mostrando un’invidiabile compattezza dei due gruppi maggiori (Ppe e Pse), anche se, sorprendentemente, sono i Verdi ad essere i più disciplinati [6]. Questo particolare offre una precisa e preziosa indicazione circa la difficoltà dei Popolari a mantenere serrate le proprie fila: la loro strategia di inclusività è stata pagata con una minore affidabilità dei comportamenti di voto da parte dei loro parlamentari.
Ad ogni modo, tutto il potenziale dei gruppi parlamentari, qui sinteticamente esposto, è rimasto, come già si è avuto modo di accennare, in larga misura inespresso a causa della debolezza del loro rapporto con la società civile, filtrato dai partiti nazionali e non stabilito saldamente da organizzazioni autonome come potrebbero essere le federazioni transnazionali. Tutto ciò ha avuto effetti negativi sullo sviluppo di veri e propri europartiti, sull’efficacia del Parlamento e sulla democraticità del sistema dell’Unione.

NOTE:
[1] Questa possibilità dipenderà molto dall’interpretazione che il Ministro degli Affari esteri farà del proprio mandato e da come vorrà conciliarlo con quello di vice-presidente della Commissione. Se è vero, infatti, che nella prima veste sarà cntrollato dal mandato attribuitogli dal Consiglio è vero anche che nella seconda sarà condizionato dal metodo collegiale della Commissione.
[2] Ernst B. Haas, The Uniting of Europe: Political, Social and Economical Forces 1950-1957, London, Stevens & Sons, 1958.
[3] Luciano Bardi – Partiti e sistema partitico nell’Unione europea, in K.R.Luther e F.Mueller-Rommel (a cura di) Political Parties in a changing Europe : political and analytical challenger, Oxford University Press.
[4] Per analisi più approfondite si vedano: Luciano Bardi – I partiti e il sistema partitico dell’Unione, in Sergio Fabbrini (a cura di) L’Unione europea.Le istituzioni e gli attori di un sistema sopranazionale, Laterza Roma-Bari,2002.
[5] F.Attinà – Il comportamento di voto dei membri del Parlamento europeo e il problema degli europartiti, in European journal of political research, 1994.
[6] F. Jacobs, R.Corbett e M.Shackleton – The European Parliament, fifth edition, London: Cartermill, 2003.


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