giovedì 11 gennaio 2007

Quando lo stato d’emergenza giustifica la violazione del diritto

L’effetto meno pubblicizzato dell’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 è, forse, costituito dalle misure eccezionali, varate dalla “dottrina Bush” del 2002 e giustificate sulla base dello stato di emergenza che gli Stati Uniti si trovano ad affrontare in virtù della guerra globale al terrorismo portata avanti dall’amministrazione neocon a stelle e strisce.
Conseguenza di ciò è stato un progressivo ampliamento dei poteri del Presidente, che ha inevitabilmente portato ad un’erosione di quelli del Congresso, alla compressione dei diritti costituzionali e alla “reinterpretazione” delle norme internazionali.
La strategia giuridica della Casa Bianca aveva, infatti, permesso all’esecutivo di emanare ordinanze con le quali si istituivano commissioni militari – incaricate di processare i detenuti di Guantanamo al posto delle normali Corti Marziali, in barba a tutti i principi del due process of law – e di considerare i presunti terroristi catturati in Afghanistan come non rientranti nelle due categorie previste dalla III Convenzione di Ginevra - che codifica tra l’altro il diritto internazionale e si configura per questa via come jus cogens: quelle dei civili e dei combattenti legittimi o illegittimi.
Tale posizione ha, così, inferto un durissimo colpo al fondamentale principio di separazione dei poteri, permettendo al Presidente Bush di arrogarsi arbitrariamente poteri che, per espresso ed esplicito volere della Costituzione, spettano al Congresso.

LA SENTENZA DI GIUGNO - Per fortuna a giugno 2006 una sentenza della Corte Suprema – la seconda [1] in due anni – ristabilendo la supremazia del diritto e riaffermando il principio per il quale in una situazione di emergenza devono essere rispettati non solo i principi inderogabili dell’ordinamento costituzionale, ma anche le norme internazionali universalmente riconosciute, bocciò tale strategia e costrinse l’esecutivo a tornare al Congresso (in cui i Repubblicani avevano una solida maggioranza) per ricevere l’esplicito mandato a processare i detenuti di Guantanamo davanti ai tribunali militari.
La maggioranza dei giudici (5 contro 3 – il presidente John Roberts si astenne dal votare perché aveva già avuto occasione di esprimersi sulla questione) delineò, infatti, le seguenti motivazioni:

- l’istituzione di “Commissioni militari” è illegale perché esse, tra le altre cose, pongono in essere una violazione gravissima delle garanzie dovute agli accusati, non permettendo loro di esaminare le prove, di contestarne la validità o l’attendibilità e di produrne in propria difesa;
- se per l’amministrazione la guerra al terrorismo sfugge a certe norme internazionali perché al-Qaeda non è uno Stato e non ha sottoscritto la Convenzione di Ginevra sui prigionieri, per la Corte essa è pienamente applicabile, dal momento che all’articolo 3 menziona espressamente i “conflitti armati non internazionali”, in cui una parte (per esempio i ribelli) non abbia sottoscritto le Convenzioni, e richiede che i processi siano comunque svolti davanti alle corti regolarmente costituite (e non speciali) con l’obbligo di accordare tutte le garanzie previste;
- infine, i giudici pongono l’accento sul fatto che la non corrispondenza dell’accusa di conspiracy (complotto) come crimine di guerra nel diritto internazionale potrebbe creare precedenti e dare il via a prassi pericolose.

A giudicare dalle motivazioni individuali – che nei sistemi di common law ricevono uno spazio maggiore rispetto a quelle dei giudici operanti in sistemi di civil law – per la Casa Bianca sembrò trattarsi di una sentenza pesantissima.
Per il giudice Stevens “l’istituzione di un processo da parte di una commissione militare solleva dubbi del più alto livello sulla separazione dei poteri”; fece da eco il giudice Kennedy, secondo il quale “la concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo espone la libertà personale al pericolo dell’azione arbitraria dei pubblici ufficiali, un’incursione che la separazione costituzionale dei poteri in un triplice sistema è designata proprio per evitare”.
Parole dure, come quelle che erano espresse nelle motivazioni dei giudici di minoranza: per il giudice Thomas, infatti, “quella della maggioranza è una decisione pericolosa che danneggia gravemente la capacità del Presidente di affrontare e sconfiggere un nemico nuovo e mortale” [2].
Coloro che vedevano questa sentenza come il colpo mortale al lager di Guantanamo, anche grazie alle numerose pressioni – tra cui quelle di D’Alema nella sua prima visita alla Rice in qualità di Ministro degli Esteri del governo Prodi- giunte ultimamente a Washington da ogni parte del mondo, hanno dovuto ricredersi.
Se, da un lato, era chiaro che l’opera di demolizione avviata dalla Corte Suprema contro il sistema arbitrariamente messo in piedi da Bush e soci sarebbe stata sicuramente portata avanti, dall’altro, c’è chi sosteneva [3] che la sentenza non avrebbe scalfito il potere del Pentagono di tenere lì i prigionieri. E del resto, lo stesso Bush, dopo le pressioni ricevute, si era affrettato a dichiarare, in occasione del suo viaggio a Vienna per il vertice Usa-Europa, che anche lui voleva la chiusura del carcere, tranne poi smentirsi (non è la prima volta) affermando che “siamo in guerra, non chiuderemo mai Guantanamo”[4].
Insomma, era chiaro che l’imposizione della strategia americana sarebbe comunque andata avanti.

LA LEGGE – L’ultimo capitolo è stato scritto il 17 ottobre, con la firma del Military Commission Act da parte di Bush, in quello che ha definito come “un giorno storico”.
Fortemente voluta dalla Casa Bianca, la nuova legge ha subito durissime critiche da parte dell’opposizione democratica e creato dissensi anche fra i repubblicani, al punto da rendere faticoso l’iter di approvazione. La normativa istituisce delle Commissioni militari, ossia dei tribunali speciali (quelli, appunto, dichiarati illegali dalla Corte Suprema) per i processi dei detenuti di Guantanamo, e convalida tutte le “procedure alternative”, ovvero gli interrogatori in segreto e senza garanzie fatti dalla Cia. In una parola: TORTURA.

Note
[1]
La prima, del giugno 2004, stabiliva l’illegittimità della detenzione dei prigionieri senza limite di tempo e senza concedere loro un processo.
[2] Fonte: repubblica.it.
[3] Alan M. Dershowitz, uno dei più noti avvocati americani, professore di legge alla Harvard University e considerato uno dei più grandi difensori dei diritti individuali.
[4] Fonte: The economist, 24-30 giugno 2006.

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