sabato 24 febbraio 2007

La crisi annunciata

1. La crisi aperta dal voto negativo del Senato sulla mozione del Governo merita un'attenta riflessione sul sistema politico italiano nel suo complesso, fuori dai calcoli politici particolari. Non potendo l'Italia permettersi - soprattutto nel contesto attuale - una tale battuta d'arresto, sarebbe meglio che la riflessione fosse indirizzata verso il perseguimento dell'interesse nazionale, piuttosto che dominata da quantomai inopportune schermaglie politiche.
Non era mai successo nell'Italia repubblicana che un governo non ricevesse il voto positivo in politica estera: la rilevanza della questione impone la partecipazione e il buon senso di tutti. La caduta è, infatti, fragorosa, resa ancor più evidente dal fatto che sia avvenuta su un tema che trovava un generale consenso anche nell'opposizione e nonostante la linea molto coerente tenuta da D'Alema, il quale ha parlato con nettezza, ammonendo che un governo che si rispetti deve potersi reggere su una propria maggioranza in politica estera, che su un tema così decisivo non sono ammissibili apporti dell'opposizione e che se non si sta su questa strada allora l'unica alternativa è quella di abbandonare la partita. Una politica estera che in un precedente post avevo – senza aver peraltro cambiato opinione – decisamente criticato.
E' stata, ad ogni modo, una crisi ampiamente annunciata da segnali di tensione a livello di politica internazionale e da controverse questioni interne.

2. Tecnicamente, una crisi di governo può caratterizzarsi come crisi parlamentare o extraparlamentare.
Nel primo caso, in seguito all'approvazione di una mozione di sfiducia da parte del Parlamento, il Governo ha l'obbligo giuridico di dimettersi: tale ipotesi non è espressamente prevista dalla Costituzione, ma si deduce dal sistema e, ex adverso, dalla norma contenuta all'articolo 94 comma I secondo il quale "il Governo deve avere la fiducia delle due Camere". L'ipotesi di una crisi seguente all'approvazione di una mozione di sfiducia non si è mai verificata e solo 5 Governi (De Gasperi '53 - Fanfani '58 - Andreotti '72 e '79 - Fanfani '87) non hanno ottenuto la fiducia dopo la loro formazione, nel qual caso si parla di mancata costituzione iniziale del rapporto di fiducia.
Tutte le altre crisi di Governo hanno avuto origine extraparlamentare, dovute, cioè, al ritiro dell'appoggio da parte di uno o più gruppi parlamentari - se sufficiente a porre l'esecutivo in minoranza - o alla decisione autonoma del Governo stesso qualora abbia il convincimento di non godere più della fiducia del Parlamento. In questo caso, e fermo restando la possibilità per l'esecutivo di porre la questione di fiducia, efficace strumento contro l'ostruzionismo delle minoranze con la quale dichiara all'Assemblea che se la mozione non passa è pronto a dimettersi, esso può ancora restare in piedi, in virtù dell'articolo 94 comma IV secondo il quale "il voto negativo di una o entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa l'obbligo di dimissioni".
Sebbene, quindi, le dimissioni non fossero dovute, appare però evidente che, qualora il voto negativo investa una questione chiave dell'indirizzo politico del Governo, esso dovrebbe interpretarlo come un chiaro segnale del fatto che la maggioranza non condivide più la sua linea politica, prenderne atto e trarne le necessarie conseguenze. Così è stato, con la salita di Prodi al Quirinale e la rimessa della patata bollente nelle mani del Presidente della Repubblica. Il quale può respingere le dimissioni rinviando il Governo alle Camere per una parlamentarizzazione della crisi o accettarle e indire nuove elezioni, affidando nel frattempo al Governo dimissionario in regime di prorogatio il disbrigo degli affari correnti. Tutto dipende da come Napolitano userà il suo potere costituzionale: è all'inizio del suo mandato e gode della giusta autorità, ma è alle prese con la sua prima crisi di Governo e pretende dai partiti inamovibili garanzie sul fatto che un eventuale Prodi bis abbia numeri più solidi in Senato. In alternativa, un governo istituzionale.

3. Come purtroppo avviene in Italia, il dibattito che è scoppiato non ha evidenziato anche la fragilità del nostro sistema istituzionale, ma si è concentrato solo nell'individuazione dei possibili colpevoli e dei probabili calcoli politici. Tre le cause indicate: l'irresponsabilità dei dissidenti di estrema sinistra che non hanno rispettato la linea del loro rispettivo partito, lo sgambetto dei senatori a vita che apre la strada all'ipotesi del complotto Usa-Vaticano e l'effetto inevitabile della legge porcata che non consente governabilità in quel di palazzo Madama.
Dare tutta la colpa a Rossi e Turigliatto è, anche numericamente, un errore: se i due senatori avessero votato la mozione i voti sarebbero stati 160, ma il quorum si sarebbe alzato a 161. Tanto più che, non trattandosi di votare la fiducia sull'operato del governo in toto, il parlamentare può orientare la sua volontà in maniera difforme, dal momento che l'articolo 67 della Costituzione sancisce il divieto di mandato imperativo stabilendo che "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato". Se di fatto nella realtà tale vincolo e attenuato dalla disciplina di partito - che tende a compattare i singoli membri dei gruppi parlamentari - secondo alcuni (Biscaretti, Mazziotti, Mortati) ciò non contribuirebbe a far venir meno il divieto: l'articolo 83 comma I del Regolamento della Camera attribuisce ai "deputati che intendano esporre posizioni dissenzienti rispetto a quelle dei propri gruppi" il diritto a prendere la parola nella discussione di voto e l'articolo 84 comma I del Regolamento del Senato stabilisce che "i senatori che dissentano dalle posizioni assunte dai gruppi di appartenenza sull'argomento in discussione hanno facoltà di iscriversi a parlare direttamente". Così ha fatto per esempio il signor Rossi, dichiarando non avrebbe votato la mozione, ma avvisando che non era in dubbio la sua fiducia al Governo. Questo è esercizio della democrazia e non può mai essere condannato.
Suggestiva, ma altrettanto plausibile, l'ipotesi del complotto centrista. Che Andreotti, Cossiga e Pininfarina siano espressione, a vario titolo, di poteri forti (quali gli Usa, il Vaticano e il complesso economico-industriale) e che questo governo non fosse gradito a Washington e alle gerarchie ecclesiastiche, non è un mistero per nessuno. Che sia in atto un rimescolamento verso il centro dello spettro politico è, invece, da un po' di tempo sotto gli occhi di tutti: il dietrofront di Casini a Berlusconi ne è testimonianza lampante ed è anche il motivo per il quale il Cavaliere non ha chiesto a gran voce nuove elezioni. Troppo poco, comunque, per prefigurare un’ampia manovra centrista e puntare il dito verso i senatori a vita che, stavolta, non hanno appoggiato l'esecutivo: esso dovrebbe arrivare in aula potendo già contare sui propri numeri, indipendentemente da essi. Ma allo stesso tempo sufficiente ad evidenziare come la pressione del Vaticano possa esercitarsi fin nel cuore dello Stato.
Infine, più verificabile è l'ipotesi dell'ingovernabilità a causa della legge elettorale emanata dal precedente governo in un paese sostanzialmente diviso a metà e con un panorama politico decisamente variegato. Anche Berlusconi sa che se si andasse alle urne, avrebbe vantaggi nel breve periodo (maggiore potere di propaganda e pessimo stato dell'Unione) ma non riuscirebbe a lungo a gestire numeri mancanti e inevitabili scivoloni. Sebbene sia il fattore decisivo della caduta del Governo Prodi, essa è al contempo solo un aspetto del più ampio problema del sistema politico italiano. Dopo l'introduzione del maggioritario nel '93, stavamo assistendo ad una polarizzazione di due coalizioni, che forse nel tempo avrebbero trovato una coesione interna e garantito una certa stabilità ed alternanza. In linea di principio il bipolarismo all'italiana iniziava lentamente a muoversi. La legge porcata non ha fatto altro che esasperare le già evidenti diversità che animano l'arena politica e spostato indietro le lancette dell'orologio alla Prima Repubblica, con crisi striscianti, scoppi improvvisi e blocco del sistema delle coalizioni.

4. L’evento ha subito fatto il giro del mondo e ricevuto un ampio spazio sui giornali europei e americani. Se il Financial Times fa dipendere la caduta del governo anche alla disastrosa eredità lasciata da Berlusconi in economia e in politica estera, i quotidiani inglesi Times e Guardian fanno notare che essa è dovuta in buona misura ai rapporti dell’esecutivo con l’amministrazione americana. Le Monde scrive che sostanzialmente il voto è stato solo un incidente e che il problema sta in una coalizione nata male e finita peggio, mentre Libération non ha dubbi nell’indicare la sinistra radicale come unico responsabile. Se la stampa spagnola si limita a riportare la notizia, quella tedesca attacca per lo più D’Alema responsabile, secondo Der Spiegel, di aver trasformato con le sue parole il voto su una mozione in un voto di fiducia.
Quasi tutta la stampa americana, infine, punta il dito sulla scarsa compattezza della coalizione di Romano Prodi. Per il Washington Post “il voto di mercoledì ha confermato la delicata natura della banda eterogenea di alleati politici, una fragilità evidente fin dalla vittoria risicata della coalizione lo scorso aprile”.
Simile il commento del New York Times: “il fragile governo italiano si è spezzato all’improvviso sotto i peso delle sue divisioni interne, così come di un più ampio scetticismo sul ruolo europeo nella lotta al terrorismo e la politica estera è rimasta un punto particolarmente debole. Prodi e i suoi ministri hanno cercato di percorrere una difficile strada, echeggiando molto dello scetticismo in Europa sul presidente Bush e la guerra in Iraq, e mantenendo allo stesso tempo i legami tradizionalmente forti dell’Italia con l’America”. Un commento troppo di parte e decisamente semplicistico che non fotografa bene la situazione politica.

5. La realtà è un po’ diversa: un governo per sua natura composito e con un programma ambizioso, reso fragile sul nascere da una sbagliata legge elettorale, definitivamente azzoppato da coloro che dal primo giorno gli avevano remato contro cercando di limitarne gli spazi d’azione. E adesso?
Adesso Napolitano, al termine della due giorni di consultazioni, potrebbe rimandare Prodi a chiedere la fiducia su una base allargata a qualche centrista, optare per un governo istituzionale conferendo l’incarico ad una personalità ‘buona per tutte le stagioni’ (Amato? Marini?) o sciogliere le Camere per dare avvio a nuove elezioni.
La prima ipotesi può verificarsi se Prodi riesce a strappare almeno altri 5 elementi per continuare ad avere una maggioranza che gli garantisca, soprattutto su temi impegnativi, di poter governare senza dover fare ogni volta troppa attenzione ai numeri. Forse la soluzione pragmaticamente migliore, ma che, come accaduto più volte in passato, è preludio all’affossamento. Nel secondo caso si avrebbe un esecutivo composto dai 4 maggiori partiti forse in grado di coprire per due anni il nostro seggio all’Onu e di dar vita ad una migliore legge elettorale, ma che non potrebbe certo attuare un programma univoco destinato a migliorare la nostra situazione interna: le larghe intese in Italia non hanno mai funzionato. Infine, nuove elezioni rappresenterebbero costituzionalmente la soluzione più adeguata ad un sistema bipolare che voglia definirsi tale, ma produrrebbero nell’attuale assetto un esecutivo che, indipendentemente dal colore, avrebbe ristretti spazi di manovra in Senato.
Qualunque sia la decisione che Napolitano comunicherà tra qualche ora, una cosa è certa: questa notte non vorrei essere l’inquilino del Quirinale.

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