martedì 23 gennaio 2007

Dal Molin, l'inadeguatezza della politica estera italiana

Ci sono elementi della politica estera di uno Stato che dovrebbero essere condivisi da tutte le forze politiche interne ad esso da esulare dagli interessi particolari dei singoli e dalle ideologie dei partiti. La scelta di fondo del sistema istituzionale è senza ombra di dubbio l’elemento principe, immediatamente seguito dalle scelte di politica estera. Oggigiorno non esiste Stato che possa considerarsi slegato dal contesto internazionale: essi hanno ormai delegato parte delle loro prerogative ad organismi sovranazionali. Non esiste più, quindi, una sovranità assoluta, ma un sistema complesso di interdipendenze, allo stesso tempo volontarie e obbligatorie.
Durante la guerra fredda, l’Italia è forse stato il paese che meglio ha compreso l’esigenza di dar vita a tali relazioni, in quanto intrinsecamente debole e non preparato ad affrontare le sfide di un mondo globalizzato.
Ha saputo, cioè, trasformare quella condanna in virtù, tanto che per molto tempo i diplomatici di mezzo mondo hanno definito la nostra politica estera “della moglie americana e dell’amante araba” nonostante il fatto che “l’amante fosse poco fedele e molto costosa e che la moglie facesse la gelosa salvo poi sfruttare la stessa relazione extra-coniugale per i propri interessi”. Nel mutato contesto internazionale, però, la tresca è definitivamente saltata: l’amante è stata praticamente abbandonata e la moglie è diventata nel frattempo sempre più esigente, acida, dispotica e non tollerante nei riguardi delle scappatelle.
La cosa grave è, però, rappresentata dal fatto che una grossa mano affinché si verificasse tutto questo è stata data dall’odierna classe politica.
Durante i cinque anni del governo Berlusconi ci siamo imbarcati in due guerre al di fuori di ogni legittimità internazionale, buttando nella pattumiera quanto di buono – poco per la verità, ma è un altro discorso – era stato fatto in precedenza.
Perché? Non sarebbe forse stato meglio fare gruppo con gli altri grandi paesi europei contrari a queste guerre e costringere gli Stati Uniti a non agire unilateralmente? O, perlomeno, ad agire su basi diverse?
Cambiato il governo non è, quasi per niente, cambiata la nostra linea. Solo per fare un esempio, nella guerra israeliana di aggressione al Libano quest’estate abbiamo mantenuto un basso profilo e si sono anche levate voci a difesa di Tel Aviv. Solo dopo la distruzione del Paese dei Cedri e la morte di 1300 civili abbiamo inviato i nostri uomini, essenzialmente per difendere i nostri interessi commerciali. Non era meglio difenderli prima, chiedendo a gran voce l’immediato stop delle operazioni al regime sionista, pena la rottura delle relazioni commerciali e diplomatiche o l’interruzione dell’accordo di cooperazione militare firmato dal governo Berlusconi nel 2004?
A causa delle incertezze della guerra, infatti, l’Italia ha perso il suo primato trentennale di principale partner commerciale di Beirut e, secondo i dati diffusi dall’ICE e dalle dogane libanesi, nei primi nove mesi del 2006 abbiamo esportato beni per 494 milioni di dollari, un terzo in meno rispetto allo stesso periodo del 2005, con una quota di mercato ormai ridottasi al 7,4%. Il risultato è che siamo scesi al quarto posto tra i partner commerciali del Libano, dopo Stati Uniti, Francia e Cina. Senza contare che abbiamo quasi 3000 soldati impegnati nella missione Unifil 2 (United nations interposition force in Lebanon) che costano ai cittadini svariati milioni di euro all’anno. Ma questa è ormai storia.
In questi giorni, la questione dell’ampliamento della base militare americana di Vicenza ha portato nuovamente alla ribalta tutta l’incoerenza e la contraddittorietà della politica estera italiana e del relativo dibattito.
Dicevamo che la politica estera di un paese dovrebbe prescindere dalla litigiosità delle fazioni e dei partiti politici per essere, al contrario, incanalata verso la realizzazione degli interessi nazionali. In Italia succede, invece, che episodi di questo genere vengono utilizzati ed abilmente strumentalizzati a fini di politica interna. E ciò è vero tanto da destra quanto da sinistra.
La condotta di politica estera è, infatti, il biglietto da visita con cui presentarsi al di fuori dei nostri confini nazionali. L’Italia dei “giri di valzer” – come venivamo definiti a causa della nostra inclinazione a “voltare faccia” e ribaltare le alleanze anche durante lo svolgimento delle guerre - così facendo lascia il posto ad un interlocutore non più solo inaffidabile, ma semplicemente inesistente. Rischiamo, così, di non cogliere i vantaggi che possono derivarci nei prossimi due anni dal sedere al Consiglio di Sicurezza ONU, pur se solo da membri non permanenti.
Che ruolo speriamo di giocare per questa via? Quello di spalla all’amministrazione americana più arrogante e prepotente della storia? Speriamo davvero di preservare così i nostri interessi nazionali? Oppure il governo spera di cavarsela dichiarando che la base “Dal Molin” ha un influsso benefico sull’economia vicentina grazie all’indotto creato e ai posti di lavoro garantiti? Spero proprio di no, anche perché forse Prodi ignora che, al contrario, le basi americane sul nostro suolo ci costano (non a lui, ma a tutti noi) più di 300 milioni di euro all’anno, come costi diretti di contributi all’amministrazione di Washington, senza contare gli oneri indiretti (opere di urbanizzazione, sgravi fiscali sulle utenze, etc.) e le cosiddette “esternalizzazioni negative”, quali inquinamento, dissesto del territorio, malattie e tumori insorti tra la popolazione (si pensi ad Aviano). È uno dei pochi casi in cui l’indennizzo lo paga non chi occupa un terreno, ma chi se lo fa occupare. Ma il paradosso non finisce qui: solo per rendere l’idea della gravità, diamo agli americani, come ricompensa per le loro basi sul nostro territorio, la metà di quanto spenderemo nel 2007 per la cooperazione allo sviluppo.
Ma andiamo avanti: si fa un gran parlare, a volte senza neanche averne nozione, del fatto che gli Stati Uniti siano nostri alleati. Da che mondo è mondo, le alleanze si stipulano con il per nulla velato scopo di avere dei partners a livello internazionale con i quali gestire le complessità del mondo globalizzato e perseguire i propri interessi nazionali, tanto nel breve quanto nel lungo periodo. In poche parole, quando si dice “alleato” si pensa ad un soggetto - in questo caso uno o più Stati - al quale si garantisce un determinato comportamento, o al quale dare comunque qualcosa, in cambio di una reciprocità evidente. Se si agisce, invece - come del resto si è fatto per tutti i sessanta anni di storia della nostra Repubblica - dando tutto senza ricevere nulla in cambio, allora non si può parlare di alleanza. Definiamola schiavitù, sudditanza o come la si vuole, ma smettiamo di dire che gli Stati Uniti sono nostri alleati, dal momento che non hanno mai garantito la reciprocità del loro comportamento nei nostri confronti, se non quando per loro era totalmente ininfluente. Non possono, quindi, essere definiti nostri alleati. Sono, a ben guardare, i nostri padroni.
Personalmente non darei mai il consenso all’ampliamento, anzi lavorerei per lo smantellamento immediato di tutte le basi Usa sul nostro territorio, negando, inoltre, qualsiasi tipo di servitù militare (compreso l’uso dello spazio aereo a qualsiasi titolo) al governo di Washington.
Ma se vogliamo essere realisti, purtroppo questa è una soluzione che tutti sappiamo essere non praticabile. È necessario, allora, fare di necessità virtù: diamo il consenso all’ampliamento, ma pretendiamo con forza un reale impegno americano alla sistemazione definitiva del problema mediorientale. Solo loro sono in grado di fare pressioni su Israele e costringerla a rivedere la propria politica di ghettizzazione dei palestinesi. Il ruolo italiano nel Mediterraneo e nel mondo intero ne uscirebbe definitivamente legittimato, con grandissimo guadagno del nostro paese sotto tutti i punti di vista. Questa è la mentalità con cui si porta avanti una linea di politica estera. Non aggredendo, non minacciando, non usandola come arma di convenienza verso l’opposta fazione politica e non subendo passivamente decisioni altrui sulla propria sovranità, ma semplicemente agendo da “alleati”.

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