sabato 5 luglio 2008

La pesante eredità di Suharto

Il decennale dell'abdicazione di Suharto è praticamente passato inosservato in Italia. Nonostante il tempo e gli sforzi, l'Indonesia resta un paese povero, privo di un vero sviluppo e deficitario quanto a democrazia. Lo spirito di Suharto aleggia, insomma, ancora incontrastato.


Sono passati 10 anni da quando il presidente dell’Indonesia Suharto pronunciava la famosa frase “I quit”, me ne vado. Dopo 32 anni di potere assoluto era come assistere alla caduta di una divinità. Correva il giorno 21 maggio 1998, ma il decennale è passato decisamente inosservato: dopo questi anni di ‘transazione democratica’, del resto, nessuno in Indonesia è probabile che voglia fare bilanci, in particolare rispetto al passato regime. Fa eccezione Tempo - uno dei settimanali più venduti nel paese – che ha rivisitato la storia recente indonesiana analizzandola dal punto di vista economico: “Elezioni più democratiche, autonomia delle province, volti nuovi nella politica sono stati certamente conseguenze positive del cambiamento. L'economia del paese, grazia alla novità del libero mercato, si è ripresa rapidamente. Ma a muovere le fila del mercato nazionale sono sempre gli stessi attori di un tempo. La deregolamentazione e gli aiuti statali hanno permesso a chi già dominava il mercato prima della crisi di mantenere il controllo sul proprio giro di affari, con più facilità di investimento. A quanto pare l'unico ad aver perso denaro è lo stato, che nel febbraio 2004, alla chiusura dell'Agenzia per la ristrutturazione delle banche Indonesiane (Ibra), lamentava una perdita di 600 miliardi di rupie (circa 42 milioni di euro). I ricchi di un tempo in quattro anni si erano ripresi dalla crisi, sfruttando le nuove leggi che eliminavano alcuni monopoli e aprivano il mercato alla libera concorrenza” [13 maggio 2008].
L’ex presidente è morto lo scorso gennaio nel suo letto senza mai essere processato né per le malversazioni e i casi di corruzione di cui era stato imputato, né tantomeno per la violenta repressione che ha caratterizzato il suo regime – su cui pure la Commissione nazionale per i diritti umani aveva avviato alcune inchieste, nessuna arrivata a conclusione. Eppure, la lotta alla corruzione in Indonesia sembra infinita, malgrado gli sforzi compiuti negli ultimi anni dal governo di Jakarta. L'episodio più recente ha coinvolto l'ufficio della procura generale (Ago), in particolare la sezione crimini speciali, che indaga su casi di corruzione particolarmente gravi. Tutto è cominciato il 2 marzo con l'arresto di Urip Tri Gunawan, capo di una squadra investigativa che in passato si è occupata dell'attentato di Bali. L'uomo, trovato in possesso di 660mila dollari di origine sospetta, è stato fermato nella capitale dagli ufficiali della commissione anticorruzione (Kpk). Secondo il settimanale Tempo, il caso ha spinto le autorità ad avviare altre indagini all'interno dell'Ago e nelle ultime settimane sono stati sospesi diversi funzionari dell'ufficio, tra cui il viceprocuratore generale e il direttore del reparto investigativo. Questa doppia rimozione è stata un duro colpo alla credibilità della sezione. Come spiega al settimanale il procuratore generale, Hendarman Supandji, "la nostra priorità, ora, è sostituire queste persone e selezionare con più cura chi ne prenderà il posto. Dopo queste vicende dobbiamo riuscire a migliorare l'immagine della procura agli occhi dei cittadini indonesiani" [25 marzo 2008]. Intanto, per la prima volta in Indonesia è stato quantificato il patrimonio della famiglia Suharto: 14mila miliardi di rupie indonesiane (poco più di un miliardo di euro), cifra rivelata nel corso della causa di divorzio del terzo figlio di Suharto, Bambang Trihatmodjo. La moglie di Bambang ha presentato al giudice un elenco delle proprietà di famiglia chiedendone la confisca. Secondo la lista, le ricchezze dei Suharto si estendono ormai a tutti i settori dell'economia indonesiana: un'emittente televisiva, una società telefonica, un'industria automobilistica, alberghi, intere isole e terreni per oltre mille ettari, mentre alcuni attribuiscono all'ex dittatore anche nove miliardi di dollari trasferiti su conti correnti esteri ai tempi del regime. Ma i danni non finiscono qui.
Per trasformare un paese povero, rurale e molto popoloso in una ‘tigre’ asiatica, durante la sua lunga dittatura il ‘padre dello sviluppo’ (come si faceva chiamare) ha applicato minuziosamente le ricette del libero mercato, spinto a questo anche dalle amministrazioni di Washington, salvo farle funzionare solo per la sua famiglia e i suoi clientes. A pagarne il prezzo sono state le foreste, le risorse naturali e le popolazioni rurali e indigene del paese. Lo sviluppo è cominciato con le grandi concessioni minerarie – per esempio quella del 1965, e ancora attuale, alla Freeport McMoran che ottenne i diritti esclusivi sulla più grande miniera a cielo aperto di rame e oro a Papua occidentale – da cui le multinazionali hanno tratto miliardi di dollari di profitto, mentre solo una piccola percentuale è andata in royalties allo stato indonesiano. Di più: le attività di estrazione hanno inquinato la zona in modo irrecuperabile e l’interesse economico correlato alle miniere ha contribuito alla repressione delle popolazioni locali, anche finanziando l’esercito. Dopo le miniere, le foreste: tra il 1965 e il 1997, l’Indonesia ha perso tra 40 e 50 milioni di ettari di foresta tropicale, a causa di un misto tra sfruttamento selvaggio del legname commerciabile, espansione di grandi piantagioni, miniere, progetti di infrastrutture e urbanizzazione. Tempo denuncia, appunto, come l'esportazione illegale di legno pregiato stia causando danni gravissimi alle foreste indonesiane, ma sottolinea anche che di recente gli sforzi della polizia per combattere il fenomeno sono stati premiati: un'operazione ha portato all'arresto di 27 persone nella regione di Ketapang, nel Kalimantan Occidentale. "Per anni, una mafia del legno è stata attiva nelle foreste di Ketapang. Sono trafficanti, tagliatori, membri dell'ufficio forestale, della polizia, del ministero delle foreste e dell'amministrazione locale. Secondo le stime della squadra congiunta formata dall'ufficio nazionale di polizia e dal ministero delle foreste, la loro attività causa perdite annuali per più di 32mila miliardi di rupie (circa due miliardi di euro). All'inizio di marzo la squadra ha lanciato un'operazione di smantellamento della rete mafiosa, arrestando tra l'altro il capo dell'ufficio forestale di Ketapang, il capo del distretto di polizia locale e un candidato alla carica di governatore della regione. L'operazione, però, non è ancora conclusa: molti pesci grossi, infatti, sono riusciti a evitare l'arresto. Poi c'è da chiedersi se la polizia e la magistratura sapranno lavorare insieme per assicurare i colpevoli alla giustizia. E intanto le foreste stanno scomparendo" [15 aprile 2008].
Oltre al danno ambientale, è stato un disastro per milioni di persone che dipendono dalla terra. Forse il più grande disastro sociale e ambientale insieme al programma di “trasmigrasi”: tra il 1969 e il 1999 circa 4 milioni e mezzo di persone dalle isole più sovraffollate – Java, Madura e Bali – sono state risistemate nelle isole esterne dell’arcipelago, per lo più Kalimantan (o Borneo indonesiano) e Papua, con il massiccio – e criminale! - sostegno finanziario della Banca Mondiale. In teoria la trasmigrazione serviva a dare uno sfogo alla pressione demografica, ridurre la povertà e sviluppare l’agricoltura, ma la realtà è ben diversa. Spesso i progetti di colonizzazione agricola sono andati a rotoli perché le terre non erano adatte o perché non c’erano le infrastrutture necessarie e i mercati su cui operare, mentre i trasmigranti (IDPs, Internally displaced persons) sono finiti a fare da manodopera sfruttata per imprese di deforestazione o in piantagioni. Ciò ha indubbiamente contribuito alla nascita di conflitti con le popolazioni autoctone, a cui erano state sottratte terre e foreste senza alcuna considerazione per i propri diritti. Le popolazioni locali si sono trovate, insomma, sempre più emarginate e impoverite, e questo ha anche acutizzato il senso di ingiustizia e alimentato rivendicazioni separatiste, da Papua ad Aceh. L’attuale clima politico non favorisce certo un alto grado di stabilità. Le ultime tensioni si sono verificate a febbraio, quando il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono ha dovuto rinunciare al vertice della Fao di Roma. Il recente rincaro della benzina - il terzo stabilito dal suo governo - ha causato un malumore diffuso nel paese e dopo le manifestazioni di protesta del 28 maggio, il presidente ha deciso di restare a casa. La sua vera preoccupazione è stata quella di non rifare l'errore commesso dieci anni fa dall'ex dittatore Suharto. Durante gli scontri del maggio del 1998 furono uccisi quattro studenti universitari. La crisi politica che ne seguì causò la caduta del regime di Suharto, al potere da 32 anni. Così per evitare che la storia si ripetesse, il governo di Jakarta ha proibito alla polizia di portare armi da fuoco quando è in servizio durante le manifestazioni. Secondo i sostenitori di Yudhoyono, le proteste sono organizzate dai suoi avversari, che vorrebbero ridurne la popolarità in previsione delle elezioni del 2009. “I servizi segreti - scrive Tempo - pensano che a capo delle proteste ci sia un ex ministro e non è difficile intuire che si riferiscono a Rizal Ramli, ex ministro dell'economia. Ma Ramli respinge l'accusa di essere il manipolatore degli studenti, affermando che questa insinuazione è un insulto all'intelligenza degli studenti”. [12 febbraio 2008]
Anche dal punto di vista dell’economia il paese non dorme sonni tranquilli. L’allarme lanciato sempre da Tempo [4 dicembre 2007] non ha ricevuto adeguate risposte. L'Indonesia in futuro avrà, infatti, bisogno di produrre più energia elettrica. Gli esperti prevedono che per il 2009, anno delle elezioni, il paese sarà a rischio black out. Il governo sta cercando di prevenire questa eventualità con la costruzione di nuove centrali, che dovrebbero fornire al paese il 40 per cento in più di energia elettrica. Per l'azienda elettrica nazionale (Pln) si tratta di un investimento enorme che prevede la costruzione di 35 centrali termoelettriche alimentate a carbone, di cui l'Indonesia è il principale produttore mondiale, e a gas. Il petrolio non sarà usato a causa dei prezzi troppo alti. Inizialmente sembrava che le imprese costruttrici e le banche statali cinesi sarebbero state le uniche finanziatrici e partner di questo progetto. Tuttavia, poiché gli istituti bancari hanno fissato dei limiti di tempo troppo rigidi per la restituzione dei crediti, la Pln ha cercato finanziamenti altrove. Oggi, delle cinque banche che hanno partecipato all'appalto, una è cinese, tre sono indonesiane e un'altra è la Barclays. Il governo e la Pln sperano in questo modo di poter realizzare i lavori più urgenti per ottenere una produzione di 2.100 megawatt per il 2009 ed evitare la crisi energetica nel 2009.
Ad ogni modo il bilancio attuale resta disastroso. Secondo Down to Earth – bollettino on line della ‘Campagna per la giustizia ecologica in Indonesia’ – “il problema è che l’economia indonesiana resta basata sull’export e sullo sfruttamento intensivo delle sue risorse naturali, le miniere, la deforestazione e le piantagioni intensive". A distanza di 10 anni, il modello di ‘sviluppo’ di Suharto è, insomma, ancora vivo.


APPROFONDIMENTI:
- Cosa accade in Indonesia (fonte: Amnesty International; Down to Earth; WWF International);
- Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC);
- IDMC: Indonesia profile;
- IDMC maps: IDPs situation throughout Indonesia, as of june 2003.

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