martedì 16 gennaio 2007

Nessuna ammissione

Se si analizza con attenzione ciò che accade in questi giorni, risulta lampante che il famoso “gruppo di studio per una strategia d’uscita dall’Iraq” non è altro che una caramella servita per addolcire l’opinione pubblica americana e mondiale. Esso era stato appositamente confezionato secondo un’ottica trasversale e pubblicizzato come imparziale (grazie alla guida bipartisan di un repubblicano e un democratico, rispettivamente Becker ed Hamilton) allo scopo di mostrare la bontà del tentativo e calmare l’umore della gente.
È evidente, però, che il discorso alla nazione pronunciato dal presidente Bush va verso un’altra direzione.
Molti hanno scritto e fatto notare che Bush ha ammesso i suoi errori e quelli dell’amministrazione neocon, la più arrogante e conservatrice della storia americana. No – dico io – Bush ha solo ammesso di aver sbagliato a prevedere il numero dei soldati necessari da inviare in Iraq, per la precisione 21500 in meno. Solo questo ha ammesso.
Non che l’invasione di un paese sovrano è, secondo le leggi internazionali, sbagliata; non che, nel caso di specie, aggredire l’Iraq giustificandosi con enormi bugie – le armi di distruzione di massa, il collegamento con l’11/9 e le connivenze con al-Qaeda – è non solo un errore, ma anche un crimine internazionale. Così come è un crimine internazionale – precisamente contro l’umanità – l’utilizzo (stavolta si) di armi terribili e vietate quali il fosforo bianco a Falluja. E, invece, no: l’unico errore che Bush ha esplicitamente ammesso e collegato direttamente alla sua condotta è il numero dei soldati inviato.
Ammettere i propri errori significa, innanzitutto, cercare di ovviarvi. E Bush non sta ovviando a niente. Ignorando anche quello che poteva essere ritenuto l’unico elemento rilevante del rapporto Becker-Hamilton, ossia la necessità, prima ancora che l’opportunità, di inserire, quale condicio sine qua non, Siria e soprattutto Iran nel processo di pacificazione dell’Iraq. Perché è a Teheran che si gioca la partita decisiva nello scacchiere mediorientale.
Che Teheran aspiri ad ottenere il rango di prima potenza regionale è evidente e dichiarato. Che questo rango non possa prescindere dal possesso dell’energia nucleare è un fatto innegabile. Oppure dal disarmo nucleare simultaneo di tutti i paesi della regione che hanno nel loro arsenale testate atomiche, Israele e Pakistan.
La decisione di Bush di riaprire una guerra che aveva dichiarato vinta già quattro anni fa, nonostante il parere contrario della maggioranza dell’opinione pubblica e del Congresso, non è un’ammissione di errore. È solo un ulteriore errore.
Un esercito regolare, per quanto numeroso e tecnologicamente superiore, non può vincere in uno scontro asimmetrico. Non può debellare una guerriglia asserragliata in una metropoli come Bagdad. Semplicemente la guerriglia resterà acquattata per qualche tempo, in una sorta di letargo, al fine di far passare la tempesta e riproporsi, in maniera peggiore, al primo baglior di sereno. Con l’aiuto del popolo che, nel frattempo, avrà subito atroci sofferenze.
Si può anche ipotizzare, però, che Washington non rigetti del tutto la possibilità di un negoziato con la repubblica degli Ayatollah. Ma ha bisogno di “alzare la voce” per rendere possibile il negoziato su basi accettabili. È, però, evidente che non può decidere unilateralmente e dovrà giocoforza tener conto degli altri attori internazionali: Israele, Russia, Ue, ma anche Cina e India.
L’Occidente europeo ed europeizzante (quella parte dell’opinione americana, cioè, che non sostiene più Bush e la sua politica) non ha alcun interesse ad una clamorosa sconfitta Usa in Medio Oriente che fornirebbe al terrorismo un impatto formidabile nella regione, con ripercussioni inimmaginabili in termini di destabilizzazione sociale nel nostro continente.
Ma l’Europa, al contempo, non ha neppure alcun interesse a favorire una politica di guerre a catena, una più rischiosa e coinvolgente dell’altra. Questa nostra vecchia Europa sarà anche vile, come la tacciano di essere i neo-conservatori di qua e di là dell’Atlantico, ma sa bene che in tali scenari è meglio muoversi con tutte le precauzioni del caso e potrebbe trarre da questo ruolo una decisiva spinta verso una maggiore integrazione politica, di cui, proprio nella questione irachena, si è sentita una forte mancanza.
Qualunque sia lo scenario futuro, l’ipotesi di un mondo unipolare, di un’unica forza egemone e guardiana degli assetti globali, è ormai definitivamente tramontata. Prima ancora di essersi compiutamente attuata.

Nessun commento: