venerdì 5 gennaio 2007

Lezioni di geopolitica

Questo post è un estratto di una lettera inviata alla rubrica di Sergio Romano sul Corriere della Sera dopo aver letto uno scandaloso articolo sul giornale medesino. Lettera, ovviamente, MAI pubblicata e alla quale, nonostante la mia esplicita richiesta, non ho MAI ricevuto risposta.

Sono assolutamente indignato, in quanto profondo amante della verità, per un articolo apparso a pag. 10 del Corriere della sera l’11 gennaio 2006 a firma di Niall Ferguson il quale, nonostante il posto di grande prestigio che occupa (insegnante di storia alla Harvard University), dimostra di avere una concezione dei fatti decisamente di parte e di ignorare molte cose. O, perlomeno, di volerle deliberatamente ignorare. Fantasioso paragone tra rivoluzioni enormemente diverse a parte, nell’articolo si afferma che “l’Iran è oggi sul punto di diventare la maggior minaccia per la democrazia nel mondo” e che “dato che sono tra i maggiori produttori di petrolio al mondo, questa corsa all’energia nucleare” (a scopi civili) “è un po’ sospetta” perché “certamente non è dettata dal desiderio di combattere l’effetto serra”. Ciò che il sig. Ferguson dimentica (o forse evita accuratamente di dire) è che oggi, per la maggior parte dell’opinione pubblica mondiale, la più grande minaccia per la pace e la democrazia sono proprio gli Stati Uniti e la sua amministrazione, che per il petrolio mediorientale si è andati a sconvolgere una zona del mondo già di per sé travagliata e che i primi a non considerare il protocollo di Kyoto sono proprio gli americani (manco a farlo apposta i più grandi inquinatori del globo).
In secondo luogo, si parla di “Piano B” per indicare che, dopo i falliti tentativi della diplomazia europea (il “Piano A” o “carota”, come si definiscono tali tentativi), il passo successivo è rappresentato dal ricorso all’ONU (o “flaccido bastone”), destinato anch’esso a fallire perché necessita della richiesta dei 35 paesi dell’ AIEA e dell’approvazione successiva dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Anche qui, però, non si accenna minimamente al fatto che l’ONU è divenuto un “flaccido bastone” proprio perché coloro che maggiormente avrebbero potuto dotarlo di una solida rilevanza internazionale hanno sempre, nei momenti a loro convenienti, fatto di tutto per renderlo ciò che esso, ad oggi, si ritrova ad essere. Per fare un esempio relativamente recente, Colin Powell, in occasione della risoluzione 1441 sull’Iraq, si trovò a commentare che “Washington potrà consultare altri membri del Consiglio, ma non avverte la necessità di ottenere la loro approvazione” (citato da Julia Preston in New York Times del 18 ottobre 2002): a quanto pare tutte le difficoltà riscontrate dal sig. Ferguson sono da definire secondo un’ottica ben diversa…Non a caso, gli Stati Uniti hanno sempre disatteso norme internazionali e sono nettamente in testa alla classifica dei veti posti alle risoluzioni ONU, primato ancor più significativo se si tiene conto che nelle occasioni in cui non hanno fatto ricorso a questa prassi sono comunque riusciti a svuotarle del loro significato principale: basterebbe citare quelle che avrebbero dovuto prevedere pesanti sanzioni per Israele (molte delle quali per violazione del “cuore” della Carta dell’ONU, il paragrafo VII) finite poi in un nulla di fatto. E come giudicare, tanto per fare due esempi, la mancata esecuzione della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 1986 sul Nicaragua (a cui seguì il rifiuto americano di accettare la giurisdizione della Corte stessa) e il mancato riconoscimento, assieme a Israele, Nigeria, Cina e Sudan, della Corte Penale Internazionale? Per rendersene conto è sufficiente leggere un qualsiasi libro di Noam Chomsky (lui si che dimostra di occupare il suo posto con pieno merito) o gli articoli che di tanto in tanto appaiono su alcuni giornali americani, di cui oggi si può facilmente disporre grazie a quel fantastico strumento rappresentato da Internet.
Infine, si arriva a sostenere che americani ed europei avrebbero creduto che “la minaccia iraniana non li riguardasse” e che, anzi, avrebbero “inavvertitamente” rafforzato quel regime islamico, citando una frase di Kissinger – “Peccato non possano perdere entrambi” – datata 1980 quando Saddam scatenò la guerra contro l’Iran (guarda caso dopo la Rivoluzione del 1979). Saddam fu aiutato in quell’occasione, salvo poi vedersi recapitare il conto, proprio perché, al contrario di quanto si sostiene nell’articolo, l’Iran e il suo neo-nato regime islamico rappresentavano già una minaccia da non poter ignorare; e non si trattava, né si tratta, di una minaccia nucleare. Il regime dello Scià (il padre del commensale del sig. Ferguson, citato nell’ articolo) fu insediato da Stati Uniti e Gran Bretagna proprio per controllare tale minaccia; peccato che la Rivoluzione abbia scombussolato i loro piani! Di più: ci si è mai chiesti perché negli ultimi anni l’ amministrazione americana si sia concentrata su paesi come l’ Afghanistan, il Pakistan e l’Iraq? La risposta è semplice: stringere in una sorta di morsa l’ Iran. Non è allora Ahmadi-Nejad ad aspettare “una guerra per indossare i panni sanguinari di Stalin”, bensì i falchi di Washington che sperano di arrivare laddove dal 1979 non sono più potuti arrivare. Consiglierei al sig. Ferguson, pertanto, di leggere il paragrafo a pagg. 99-100 del numero 5/2005 di Limes (interamente dedicato proprio all’Iran) intitolato Teheran ha davvero bisogno del nucleare?, scritto da Maurizio Martellini (professore di fisica e consigliere scientifico della rivista stessa) e Riccardo Redaelli (professore di storia dell’Iran e dell’Asia centrale, oltre che esperto di Medio oriente) . In esso, dopo aver riportato una serie di cifre, si giunge alla conclusione che, producendo energia nucleare ad uso civile, si risparmierebbe una quantità di petrolio il cui valore sarebbe sei volte maggiore di quello impiegato per installare i reattori nucleari necessari a tale scopo. C’è da aggiungere che l’Iran ha registrato negli ultimi anni un forte aumento della propria popolazione e, conseguentemente, un aumento del fabbisogno interno di energia; se si considera che l’economia iraniana è pressoché dipendente dalle esportazioni di greggio, che l’accresciuta domanda interna si è attestata al 40% della produzione totale e che le eccedenze di greggio potrebbero essere immesse sul mercato per sopperire in parte alla forte richiesta cinese, non stupisce che esso voglia dotarsi di impianti per la produzione di energia nucleare. Tanto più che il TNP non vieta - anzi espressamente permette, art.4 – attività di questo tipo. Per cui, nessun tipo di violazione palese.
Ahmadi-Nejad è sicuramente un pazzo, ma non è così che lo si può tenere a freno; la sua stessa inaspettata elezione è sintomo palese del fatto che il popolo iraniano preferisce essere governato da un fanatico piuttosto che da riformatori (quali Khatami e Rafsanjani) amici e conniventi di coloro che cercano in ogni modo di ostacolare lo sviluppo democratico naturale di un paese geopoliticamente molto importante.

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