giovedì 25 gennaio 2007

Bush, il Presidente ridicolo

Il discorso sullo stato dell'Unione - rendiconto annuale al Senato obbligatorio per Costituzione dal 1790 per i Presidenti americani - pronunciato da Bush l'altra notte, ci è stato presentato il giorno dopo da tutti i tg in 3 minuti: l'omaggio iniziale a Nancy Pelosi - prima donna speaker della Camera - un Presidente sicuro di sé, una patetica infarinata di economia, sanità ed ecologia, qualche cenno all'Iraq con i soliti retorici argomenti. Il tutto condito da immagini costruite per far sembrare che sia stato anche applaudito. Chi ha, invece, letto qualche giornale americano, o ha avuto la pazienza di restare sveglio fino a notte fonda, e mastica un po' di inglese (quello di Bush con il suo accento texano è un boccone duro da mandare giù) si è reso conto che la situazione è stata ben diversa.
Un Presidente - collassato al 28% nell'indice di gradimento, come il Nixon del Watergate - giunto al cosiddetto tipping point, come una funzione di produzione che, arrivata al punto di massimo, comincia inesorabilmente a sprofondare verso lo zero. Un uomo - per dirla con un linguaggio medico tristemente famoso in America - dead on arrival, ossia già morto quando arriva all'ospedale. Sullo sfondo, una grande nave senza più un timoniere credibile, in balia delle onde nella tempesta dell'oceano iracheno che rischia di portarla negli abissi.
Una forma di governo presidenziale, infatti, non può prescindere da un commander in chief senza più autorità e rispetto: rischia la rottura di tutti quegli ingranaggi che ne permettono il funzionamento. Anche perché il meccanismo dei check and balances, su cui essa si fonda in omaggio alla divisione dei poteri, fa sì che nessun altro elemento dell'ordine costituzionale - per esempio il Congresso, l'organo legislativo - possa (e debba) sostituirsi nell'esplicazione di funzioni che sono prerogativa altrui. Figurarsi in questo momento, in cui i democratici sono maggioranza e non hanno il minimo interesse politico a sporcarsi le mani con una guerra che è (e deve rimanere) la guerra di Bush e dei suoi rapaci falchi neocon.

POLITICA INTERNA - Il primo round, quello della politica economica, vede un Bush ottimista profetizzare "un futuro di speranza e opportunità [...] con una disoccupazione bassa, livelli di inflazione in discesa e i salari che stanno aumentando". Manco fossimo in un mondo perfetto.
E, infatti, inciampa subito quando affronta la tragedia dei costi per la sanità - principale cavallo di battaglia della campagna democratica della Clinton e di Obama - annunciando una detraibilità fiscale delle assicurazioni mediche, che in America sono a carico del cittadino. L'ha forse scoperto negli ultimi mesi? Ignora che ad impedire ad 1/5 della popolazione la possibilità di curarsi non è il fisco, ma i disastrosi livelli del reddito? La detraibilità fiscale, semmai, va bene per chi i soldi ce l'ha già, non per chi ne bisogna.
Ma il colpo di genio, la carta nuova e vincente, è rappresentata dalla svolta 'ecologista': da ridere se non ci fosse di mezzo un problema serissimo. "La nostra dipendenza dal petrolio altrui ci rende più vulnerabili nei confronti di regimi ostili e dei terroristi (Venezuela e Iran, NdA) che possono mettere in crisi i rifornimenti provocando aumenti dei prezzi" - con chiaro riferimento all'asse Chavez/Ahmadi-Nejad nato recentemente a Caracas.
Altro che ambiente. Altro che riduzione (20%) del consumo di benzina nei prossimi 10 anni. Altro che utilizzo di fonti di energia alternative (etanolo). La sua preoccupazione sarebbe stata credibile se, proprio all'inizio del suo mandato, avesse accettato di ratificare il protocollo di Kyoto, poco più di un'ammissione di responsabilità degli Stati nei mutamenti climatici. Insomma, una mascherata pre-carnevalesca. O, anche, il tentativo maldestro di strappare quache simpatia alla maggioranza democratica per preparare il terreno al tema più scomodo.

POLITICA ESTERA - Perché parlare di Iraq ad un Congresso di maggioranza ostile, ha comportato per Bush l'uso di toni soft. E, allora, nessun ritiro - perché "un fallimento avrebbe conseguenze terribili" - ma la consapevolezza quasi messianica che "la politica estera americana non è fatta solo di guerra e diplomazia [...] il nostro lavoro nel mondo deve essere basato su una verità eterna [...] dobbiamo rispondere alle sfide della fame, della povertà, delle malattie [...] continuando a combattere l'Aids, specialmente nel continente africano".
Sarà per questo che ha iniziato a bombardare la Somalia! Se uccidiamo tutti i contagiati, il virus non potrà più diffondersi!
"Per vincere dobbiamo portare la lotta in casa del nemico, giocare d'attacco" perché "siamo di fronte ad una crescente minaccia degli estremisti sciiti, che sono altrettanto ostili all'America (oltre ai sunniti di Bin Laden e Al-Zawahiri) e determinati a dominare il Medioriente". Essi "prendono ordini dall'Iran, che finanzia e arma terroristi come Hizbullah, un gruppo secondo solo ad al-Qaeda quanto a vite americane prese" - ricordando forse ciò che accadde in passato in Libano con il disastroso tentativo a stelle e strisce di installarsi nel Paese dei Cedri. Scopre solo ora che esistono sciiti e sunniti? Ha capito solo adesso che l'invasione dell'Iraq avrebbe comportato tutto ciò? Vorrebbe forse essere lui a dettare ordini e dominare il Middle East?
Bush giustifica, quindi, l'invio di altre truppe chiedendo di "dare una possibilità al mio piano, dal momento che, dopo un'attenta analisi, questa si è prospettata come la soluzione con più probabilità di riuscita" dicendosi fiducioso sul fatto che "possiamo vincere se restiamo ancora uniti [...] come è successo più volte nel passato, possiamo superare le nostre differenze e raggiungere grandi traguardi per l'America" e annuncia l'idea di creare un Consiglio consultivo speciale per la guerra al terrorismo di composizione bipartisan. Infatti, "entrambi i partiti, repubblicano e democratico, entrambi i poteri, esecutivo e legislativo, dovrebbero lavorare in stretta collaborazione". Proprio lui che ha sempre fatto il contrario, ha snobbato l'opinione pubblica e ora ignora i suggerimenti del piano Backer e del Congresso chiedendo 21500 soldati in più.
Una richiesta che non ha passato neanche 24 ora prima di essere bocciata dalla Commissione Esteri del Senato (12 a 9, con voto contrario anche di un repubblicano) ed essere bollata dal vicepremier iracheno come "idiota" - giudizio peraltro esteso a tutta la campagna in Mesopotamia. Un "no", ad ogni modo, non vincolante, che rimette la questione all'Assemblea in seduta plenaria.

SI SALVI CHI PUO' - Dunque, una Casa Bianca allo sbando e una nazione alla deriva, priva di un capitano abbandonato, ormai, anche dai suoi compagni di partito: Arlen Specter (Commissione Giustizia), John Warner (Commissione Forze Armate), Richard Lugar (Commissione Esteri). Tutti hanno preso le distanze, dal più critico, Chuck Hagel - che ha addirittura votato contro quello che definisce "un ping pong con le vite dei soldati americani" - al più menefreghista, il senatore John McCain - probabile candidato di punta alle prossime presidenziali - ripreso varie volte dalle telecamere durante il discorso mentre dormiva.
Con mezzo corpo impantanato in Iraq, l'America potrebbe rischiare di sprofondare nelle sabbie mobili e i quasi due anni rimasti a Bush non promettono nulla di buono. Il fatto di aver pronunciato la parola "Iran" per ben cinque volte la dice lunga sulla sua new exit strategy. Fossi Ahmadi-Nejad sarei preoccupato. Come lo sono i cittadini americani.

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