giovedì 31 luglio 2008

sabato 26 luglio 2008

Il boia alla sbarra

Il quotidiano di Belgrado Danas commenta l'arresto di Radovan Karadzic. E si augura, per il bene della Serbia, che presto sia catturato anche il generale Ratko Mladic.

Radovan Karadzic, accusato della morte e delle sofferenze di migliaia di persone, non è ormai più un pericolo per nessuno. Nonostante da anni i governi che si sono succeduti continuassero a giurare che non fosse in Serbia, è stato arrestato lunedì sera a Belgrado. Solo dopo la notizia dell'arresto è diventato chiaro perché quel giorno il governo avesse tenuto una riunione straordinaria e la seduta parlamentare in corso fosse stata sospesa d'urgenza e rinviata di due settimane. I radicali e i democratici di Vojislav Kostunica loro alleati non avevano il minimo il sentore dell'arresto fino a quando non ne è stata data notizia. Si tratta di un particolare positivo, perché dimostra che hanno perso ogni collegamento con le strutture della polizia e dei servizi segreti. E questo spiega la reazione al limite del panico del leader dei radicali, Aleksandar Vucic.
Secondo fonti del nostro giornale, le autorità sarebbero sulle tracce anche di un altro criminale ricercato dal Tribunale dell'Aia, Ratko Mladic. La Serbia ha fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi paese serio: ha privato della libertà, in conformità alla legge, una persona di eccezionale pericolosità. Chi in tutti questi anni ha coperto l'ex presidente dell'autoproclamata Republika Srpska, quali personaggi influenti della Serbia lo abbiano aiutato a sfuggire alle proprie responsabilità e alle accuse rivoltegli, sono altre domande ai quali il governo dovrà rispondere. Per ora la cosa più importante è che lo stato abbia agito in modo coraggioso e deciso, come deve agire uno stato che rispetta i propri cittadini e applica la legge, indipendentemente dal fatto che si tratti di un ladro, di un narcotrafficante o del responsabile di eccidi.
Molti dubitavano dell'attuale coalizione di governo e del suo orientamento filoeuropeo, ritenendo che le dichiarazioni dei socialisti riguardo alla necessità di collaborare con il Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia dell'Aja fossero frasi vuote. Per fortuna si sono sbagliati. Naturalmente nei prossimi giorni la coalizione sarà esposta a pressioni di ogni tipo, provenienti dall'interno e dall'esterno. Le forze che sono state sconfitte alle elezioni non rimarranno zitte e ciò inquieta, perché è ancora fresca la memoria dei disordini che hanno causato a Belgrado nello scorso febbraio. Il nuovo governo ha la responsabilità di adottare misure per garantire la sicurezza dei cittadini e la stabilità del paese. Con l'arresto di Karadzic lo stato ha dimostrato che Belgrado non è più un rifugio sicuro per i ricercati dal Tribunale dell'Aja. Ora deve venire il turno di Ratko Mladic e di Goran Hadzic. Fino a quando saranno liberi, nessuno in questo paese avrà il diritto di dormire tranquillo.

tratto da Internazionale, Primo Piano

APPROFONDIMENTI:

venerdì 18 luglio 2008

Immunodelinquenza acquisita

Mentre Robin Tremood paventa «un nuovo 1929», Al Tappone teme un nuovo 1992. Gli son bastate tre paroline - socialista, tangenti, manette - per ripiombarlo nel più cupo sconforto. Tant’è che ha ricominciato a delirare di «riforma della giustizia», cioè del ritorno all’immunità parlamentare. Intanto l’apposito Angelino Jolie gli ha regalato il patteggiamento gratis, con una norma del pacchetto sicurezza che consente agli imputati di patteggiare anche durante il dibattimento, anche un minuto prima della sentenza. Così lo Stato non ci guadagna nulla, anzi perde tempo e denaro a fare i processi, e alla fine il delinquente incassa lo sconto di un terzo della pena e cumularlo col bonus di 3 anni dell’indulto, se ha avuto l’accortezza di delinquere prima del maggio 2006. Come per esempio, se sarà ritenuto colpevole, il fido avvocato Mills. Se fosse italiano, sarebbe già deputato. Essendo inglese, deve accontentarsi del patteggiamento omaggio: potrà comodamente concordare una pena simbolica, evitare il carcere e soprattutto una sentenza motivata che spieghi chi gli ha dato i soldi (quello che lui, nella famosa lettera, chiama «Mr.B.», e s’è appena messo al sicuro col lodo Alfano). Questo indulto-bis, che eviterà la galera ai condannati fino a 9 anni, sempre all’insegna della sicurezza, è stato denunciato da Di Pietro, mentre qualche buontempone del Pd parlava addirittura di dire qualche sì. È il caso del sagace Pierluigi Mantini, che all’indomani dell’arresto di Del Turco s’è precipitato a rendergli visita nel carcere di Sulmona a braccetto col senatore Pera. I due apostoli del garantismo sono specializzati nel precetto evangelico «visitare i carcerati», ma solo se c’è dentro qualche membro della Casta. Mai che gli scappi, per dire, una visitina a un tossico. Del Turco è in isolamento per tre giorni, dunque non può ricevere parenti né avvocati. Ma, pover’uomo, gli tocca sorbirsi Mantini e poi Pera. I quali, per aggirare l’isolamento, si sono inventati su due piedi un’«ispezione al carcere di Sulmona»: irrefrenabile esigenza nata, guardacaso, proprio con l’arresto del governatore. «La presenza del presidente Del Turco ­ ha spiegato Mantini, restando serio ­ è stata un motivo in più per procedere all’ ispezione di un carcere che tengo particolarmente monitorato». Ma certo, come no. En passant, dopo aver ragguagliato la Nazione sulla colazione del governatore, l’onorevole margherito domanda «se vi siano concreti pericoli di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato». Ottima domanda, se non fosse che non spetta ai deputati rispondere, ma al gip (che ha già risposto di sì), poi al Riesame e alla Cassazione. Altri, come Il Giornale e l’acuto Capezzone, inorridiscono perché Del Turco «è trattato come un boss mafioso». Ma la legge prevede l’isolamento non solo per i boss, bensì per chiunque possa, comunicando con l’esterno, influenzare i testimoni (e Del Turco aveva già tentato di inquinare le prove contattando addirittura il Procuratore generale d’Abruzzo). Con buona pace di Bobo Craxi, per il quale «la custodia cautelare e l’isolamento sono misure erogate ai criminali, non agli eletti dal popolo». Ma l’una cosa non esclude l’altra, come dovrebbe sapere. Quello con le mèches del Giornale racconta che nel ‘93 finì in carcere l’intera giunta abruzzese, dopodiché furono «tutti assolti con formula piena». Storie: ci volle la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio non patrimoniale per salvare gli assessori, mentre il presidente Rocco Salini fu condannato in Cassazione per falso (s’erano dimenticati di depenalizzare anche quello), dunque promosso deputato da FI, prima di andare ad arricchire la collezione di Mastella. Pure Al Tappone millanta un’assoluzione mai avvenuta: la sua a Tempio Pausania dall’accusa di abusivismo edilizio a villa La Certosa. Forse non sa che in quel processo non era imputato lui, ma il suo amministratore Giuseppe Spinelli; e che il processo è finito nel nulla non perché si fondasse su un «teorema», ma grazie a vari condoni, almeno uno varato dal suo governo. Resta da capire perché, con tutti i processi che ha, ne inventi di inesistenti. Forse sono i suoi avvocati che abbondano un po’ sul numero, e sulle parcelle: «Eh, Cavaliere, ci sarebbe poi quel processo a Vipiteno per furto di bestiame, una storia bruttina, ma pagando il giusto sistemiamo tutto noi…». O forse i processi se li aggiunge lui, per fare bella figura.

venerdì 11 luglio 2008

Quale alternativa al dollaro?


La crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti ha rappresentato la miccia che ha acceso il fuoco della destabilizzazione, a lungo sopito sotto la cenere di squilibri negli scambi internazionali e nei tassi di cambio. La miscela esplosiva era composta da mutui erogati a debitori ad alto rischio, da bassi tassi di interesse iniziali (ma poi indicizzati), dal collaterale uso spregiudicato dela cosiddetta ‘finanza creativa’ (in particolare, cartolarizzazioni e derivati) e da una colpevole carenza di controlli istituzionali. I successivi aumenti dei tassi di interesse ufficiali (quintuplicati in pochi mesi tra il 2006 e il 2007) decisi dalla Fed per tenere sotto controllo l’inflazione hanno reso insolventi i mutuatari marginali a fronte di rate maggiorate. Le conseguenze sono rimbalzate su banche, intermediari specializzati, mercati finanziari internazionali, nonché sul mercato immobiliare interno agli Stati Uniti.
La concatenazione degli effetti di questa crisi, rapidamente propagatasi a livello internazionale, ha rivelato la potenziale vulnerabilità e i rischi di contagio del sistema finanziario globalizzato. E’ necessario, pertanto, adattare il sistema monetario internazionale alla maggiore complessità dell’economia mondiale, che non può più contare sulla stabilità del dollaro come principale moneta di scambio e di riserva. Nel giro di poco tempo, gli Stati Uniti da paese creditore del resto del mondo sono diventati il maggior debitore, e i nuovi paesi emergenti – Cina e India in testa – hanno attualmente preso il loro posto. Troppo a lungo i tassi di cambio sono rimasti invariati, a causa della convenienza dei creditori a non rivalutare le proprie monete e, contemporaneamente, degli Usa a non svalutare il dollaro. E’ evidente che ogni shock - come appunto quello dei mutui subprime - provoca una grave crisi di fiducia, con forti vendite di attività finanziarie denominate in dollari sui mercati internazionali e conseguente svalutazione della divisa americana.
Il dilemma principale sta nel fatto che nell’attuale fase storica non c’è una moneta internazionale alternativa al dollaro. Non lo è ancora l’euro, che sconta la perdurante incompiutezza dell’integrazione finanziaria europea e che non può contare sull’unico centro finanziario alternativo a Wall Street, visto che Londra si tiene ancora fuori dalla cosiddetta ‘eurolandia’. Benché indebolito, dunque, il dollaro continua ad essere indispensabile, e tutti avrebbero da perdere da un suo perdurante tracollo. Le conseguenze che si temono potrebbero essere devastanti: forte innalzamento dei tassi di interesse, recessione mondiale, tentazioni protezionistiche, destabilizzazione dell’ordine economico e politico mondiale.
Gli strumenti ordinari delle banche centrali non sono però sufficienti a contenere questi rischi di fragilità intrinseca del sistema monetario internazionale. Gli interventi della Fed e della Bce per fronteggiare la crisi subprime con drastiche immissioni di liquidità e – per ora solo da parte della Fed – con affrettate riduzioni dei tassi ufficiali sono stati tardivi, poco efficaci e rischiano di essere controproducenti nel lungo periodo a causa del rilancio dell’inflazione. La crisi è strutturale e va gestita con interventi di adattamento alla mutata realtà di un’economia mondiale sempre più policentrica. Le banche centrali più rappresentative dovrebbero assumersi la responsabilità di cooperare seriamente con l’obiettivo comune di una svalutazione graduale del dollaro non solo nei confronti dell’euro, ma soprattutto verso le monete delle economie emergenti dell’Asia, in particolare quela cinese. La soluzione più fattibile – l’unica forse con effetti più immediati e progressivi – è probabilmente quella di adottare un sistema di compensazione sovranazionale di debiti e crediti tra la Fed, la Bce e – almeno – la banca centrale cinese. L’idea di fondo è la stessa del piano proposto a suo tempo da Keynes, ma che fu bocciato alla Conferenza di Bretton Woods nel 1944 a causa della forza del dollaro. Alla Conferenza vennero presentati, infatti, due progetti: quello di Harry Dexter White, delegato USA, e quello appunto di Keynes, delegato inglese, ma venne approvato il piano White. Il progetto di Keynes prevedeva la costituzione di una stanza di compensazione all'interno della quale i paesi membri avrebbero partecipato con quote rapportate al volume del loro commercio internazionale, in base alla media dell'ultimo triennio. La compensazione tra debiti e crediti avveniva tramite una moneta denominata Bancor. Dal piano White venne creato il Fondo Monetario Internazionale, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo mentre il dollaro venne praticamente accettato come valuta di riferimento per gli scambi. La debolezza attuale della divisa a stelle&strisce apre la strada – più di 60 anni dopo – a riconsiderare soluzioni e alternative più avanzate e adatte alla maggiore complessità del sistema economico del mondo globalizzato. Meglio tardi che mai.

APPROFONDIMENTI:

- Lo tsunami finanziario (F. William Engdahl, Globalresearch, traduzione di comedonchisciotte):
I) Il debito ipotecario subprime;
II) Le fondamenta finanziarie del 'secolo americano';
III) Il grande progetto di Greenspan;
IV) La cartolarizzazione: l'ultimo tango;
V) Atto speculativo: la crisi del sistema finanziario mondiale.

[comedochisciotte]:
- L'economia keynesiana oggi (1977);
- Credibilità del sistema;
- Le transazioni finanziarie internazionali sotto il controllo americano;
- Economia di rischio;
- Perché il dollaro vale così poco.

[altrenotizie]:
- Mutui subprime: scattano le manette;
- Crisi dei mutui: quello che le banche non dicono;
- Crisi delle borse? E' il liberismo, bellezza;
- Mutui: una crisi inevitabile?.

lunedì 7 luglio 2008

Finalmente libera!

La liberazione della Betancourt – moralmente cambiata dopo 6 anni di prigionia - si è rivelata un successo strategico e politico. La popolarità del presidente Uribe è ora alle stelle, superata solo da quella della stessa Betancourt, ma sarà importante vedere che tipo di compromesso raggiungeranno. Chavez e le Farc sono i grandi sconfitti di un evento che segnerà inevitabilmente una svolta nella tumultuosa storia della Colombia.


LA NUOVA INGRID E IL FUTURO DELLA COLOMBIA - Prima del suo ritorno alla libertà,
Ingrid Betancourt era una politica decisamente agguerrita. Dimostrando sempre un grande coraggio, non ha mai esitato a scagliarsi contro l’establishment politico. Non risparmiava nessuno ed era ossessivamente contestatrice, moralista, rigorosa e molto critica. Ma per quanto le sue denunce fossero giuste, le sue posizioni a volte estremistiche danneggiavano la sua credibilità: era una radicale, e per questo ha sempre suscitato un fascino speciale. Probabilmente le sue idee innovatrici in politica erano dovute alla formazione progressista, privilegio di pochi in Colombia. Nelle sue campagne elettorali ricorreva a gesti originali e provocatori (come distribuire preservativi per strada) o a proteste di una certa visibilità, come lo sciopero della fame che fece in Parlamento, uscendone dopo molti giorni in barella e disidratata davanti alle telecamere. Clamoroso fu il suo movimentato intervento al congresso del Partito Liberale del 1997, a metà della presidenza di Ernesto Samper, quando accusò il partito di complicità con l’assassinio di Luis Carlos Galan, il candidato alla massima carica ucciso nel 1989. In quell’occasione fu costretta a scendere dal podio a causa delle grida e degli insulti della platea: era talmente radicale da essere emarginata dal cuore stesso della politica colombiana.
La nuova Ingrid non ha mostrato rabbia, è apparsa dolce e conciliante, senza un briciolo di amarezza. Con la sua dignità è riuscita ad ottenere ciò che nessun rivoluzionario ha ottenuto con le armi nella
violenta storia della Colombia: ha conquistato il cuore e la mente del popolo. Se la ricomparsa della Betancourt ha commosso il paese (e il mondo), il suo parlare l’ha semplicemente soggiogato. Dopo 6 anni di prigionia, l’umiliazione e le malattie, è tornata trasformata in una donna universale, con la grande forza morale tipica di chi ha la consapevolezza del destino del paese. Ora la sua lotta continua. Le sue dichiarazioni sono apparse subito un vero e proprio manifesto politico, in cui sono stati toccati tutti i temi: guerra e pace, stato, rielezione, sequestro e trattative politiche. La sua popolarità è alle stelle. Di fronte al fenomeno politico in cui si è trasformata subito dopo la sua liberazione, la domanda che tutti oggi si fanno in Colombia è: sarà il prossimo presidente?

LA VITTORIA DI URIBE, LA SCONFITTA DI CHAVEZ – A parte il giallo sulla liberazione, il vero vincitore - colui che trae da questa vicenda il vantaggio maggiore - è sicuramente il presidente colombiano Alvaro Uribe. Per
El Tiempo (nato nel 1911, è uno dei principali quotidiani colombiani e dei più illustri di tutta la stampa latinoamericana. Di orientamento liberale, vende circa 300mila copie) Uribe si è comportato come uno stratega e ha “dimostrato ancora una volta di non avere paura di agire. Solo un vero leader è capace di assumersi dei rischi, e il presidente Uribe l’ha fatto in un brutto periodo: la perdita anche di un solo ostaggio avrebbe potuto inasprire le conseguenze politiche del suo scontro con la Corte Suprema. In piena crisi istituzionale ha sfidato i familiari dei sequestrati, che si opponevano ad un’operazione militare; l’opposizione politica, che gli avrebbe fatto pagare caro un errore; il presidente francese Nicolas Sarkozy, che in nome di chissà quale autorità gli aveva proibito l’uso della forza; e al presidente venezuelano Hugo Chavez, che aveva vincolato il futuro dei rapporti tra i due paesi a una sua mediazione nelle trattative per la liberazione. La scommessa ha dato i suoi frutti e Uribe ha dimostrato che è possibile liberare ostaggi, ha ridato fiducia ai colombiani e ha messo in luce la professionalità dell’esercito. Ha dimostrato di avere coraggio in tempo di guerra: è arrivato il momento di avere coraggio in tempo di pace”.
Sulla stessa linea anche il quotidiano venezuelano
El Universal (il principale quotidiano venezuelano - serio e indipendente - fondato nel 1909 dal poeta Andrés Mata e acquistato dai suoi eredi nel 1992) secondo il quale “Se le Farc hanno subito un altro grave colpo si deve soprattutto alla tenacia, al valore e all’intelligenza con cui Uribe ha gestito la situazione. Non ha ascoltato chi gli chiedeva di riconoscere le Farc né le proteste ecuadoriane per le presunte violazioni della sovranità territoriale. Non ha ceduto e oggi è un eroe davanti al mondo”. Ancora più duro El Mundo (quotidiano venezuelano che esce il pomeriggio, nato nel 1958 con una linea editoriale di sinistra, difende i valori della democrazia seguendo lo slogan ‘meglio una libertà pericolosa che una schiavitù tranquilla’. Oggi è più moderato, ma resta comunque critico nei confronti del governo) che intravede la fine delle Farc e sollecita Chavez a meditare e imparare dai suoi errori: “Il suo fiuto politico dovrebbe dirgli perché il suo comportamento e la sua tattica si sono rivelati sbagliati. I suoi seguaci più spudorati hanno già cominciato a cercare di screditare la Betancourt. Se Chavez continua in questa direzione commette un errore grossolano. Ha chiesto alle Farc di liberare gli ostaggi, ha annunciato un incontro con Uribe, ha detto che la rivoluzione va vinta con i voti e non con i fucili. Speriamo non sia solo una tattica, ma un cambio di strategia. Altrimenti sarà la fine anche di Chavez”.

LA FINE DELLE FARC? –
La liberazione della Betancourt (insieme a 7 militari, 4 poliziotti e 3 cittadini statunitensi), al di là del giallo sul riscatto o delle molte verità raccontabili, è, dunque, un avvenimento destinato ad avere un’enorme ripercussione sulla vita politica del paese. Le Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) hanno ricevuto un durissimo colpo che si somma a una serie di sconfitte cominciate nel 2003, ma dispongono ancora di una struttura solida, di un’efficiente unità di comando e di migliaia di uomini che godono del sostegno incondizionato della popolazione rurale (e quindi più povera), in un paese in cui non c’è mai stata una vera riforma agraria. Davanti alle Farc si aprono ora diverse strade: un disperato inasprimento della via militare, la ricerca di una alternativa politica realistica e urgente alla lotta armata, la frammentazione in gruppi comandati da caudillos senza una vera ideologia che faccia da collante, e aperti a qualsiasi genere di alleanza di convenienza con formazioni paramilitari o narcotrafficanti. Scegliere una alternativa diversa da quella politica causerebbe inevitabilmente gravi sofferenze alla popolazione, metterebbe ancor più in pericolo gli ostaggi che ancora si trovano nella foresta e inasprirebbe una guerra civile che è già latente, oltre a giustificare la militarizzazione e il consolidamento di una sorta di ‘autoritarismo carismatico’, plasmato – almeno per il momento - sulla figura di Uribe.
Sempre El Tiempo effettua una mirabile analisi, indicando che “lo scenario peggiore è quello della frammentazione delle Farc in piccole bande criminali e anarchiche. Per questo bisogna fare una proposta di pace generosa, almeno finché i rivoluzionari hanno almeno una parvenza di strutture di comando e di disciplina. Non basta offrire una pace che si limiti al disarmo, né è sufficiente ripetere fino alla nausea che il governo è disposto al dialogo. Negli ultimi tempi è emerso sempre più chiaramente che non resta niente della cosiddetta ala politica delle Farc. Se esiste ancora è il momento che faccia un passo avanti e che si tenti di mediare con essa. E’ inconcepibile che una guerriglia che si autodefinisce rivoluzionaria non presenti nessuna proposta politica rilevante da anni. Se le Farc non sfrutteranno quest’opportunità per costruire insieme un paese migliore, si lasceranno alle spalle solo una lunga strada insanguinata che dura da più di 40 anni”. Anche secondo un altro quotidiano venezuelano,
TalCual, è evidente che le Farc si stanno disintegrando. “L’abisso morale di una narcoguerriglia che viola i diritti umani è uno dei migliori alleati della politica di ‘sicurezza democratica’ portata avanti dal presidente colombiano Alvaro Uribe. La politica dei sequestri ha, insomma, messo in luce le loro carenze morali”.

LA DIMENSIONE POLITICA DELLA BETANCOURT - Oggi la dimensione politica della Betancourt ha di fronte tre sfide. La prima, di carattere politico-elettorale, registra la sua enorme popolarità, ma non equivale certo ad una autostrada dritta verso la presidenza. Una cosa è la popolarità nata dall'orgia massmediatica del momento, un'altra cosa è conquistare i voti necessari nel durissimo braccio di ferro elettorale del 2010. Se nel paese l'appoggio a Uribe resta forte come oggi, la Betancourt non avrà sufficiente benzina per andare lontano; se invece la Colombia seguirà la svolta a sinistra in atto nel continente - puntando soprattutto sulla riconciliazione e sulle questioni sociali - è certo che la protagonista della nuova stagione sarà lei. La seconda sfida si estende, invece, al di fuori del paese e concerne i rapporti con l'estero, in particolare con gli altri stati dell'America latina. Ingrid potrebbe trovare buoni interlocutori in Cristina Kirchner, Lula e Alan Garcia (rispettivamente presidenti di Argentina, Brasile e Perù), ma non dubita sulla necessità di coinvolgere nell'ambito di una cooperazione più vasta Chavez e l'equadoriano Rafael Correa. Infine,
la pace in Colombia – quella che sarà probabilmente la sua bandiera oltre che la sua sfida più grande. La Betancourt ha diversi argomenti interessanti per convincere l’opinione pubblica a seguirla in uno scenario che oggi appare difficilmente immaginabile: negoziare una volta per tutte con le Farc. Per parlare di pace e riconciliazione nessuno è in una posizione migliore della sua. E’ già un simbolo universale dell’orrore dei sequestri perché è stata vittima della guerriglia, è riconosciuta in ambito nazionale ed internazionale, gode di fortissima credibilità all’interno dello stato, delle sue istituzioni politiche e delle forze armate.
Nonostante ciò – euforia della liberazione a parte – il cammino di Ingrid e della Colombia è ancora lungo, incerto e difficile. Lungo, perché la realtà del paese cambia molto velocemente, e con essa anche l’orientamento dei colombiani; incerto, perché Uribe non ha ancora deciso se ripresentarsi alle prossime elezioni, e questo cambierebbe totalmente le carte in tavola; difficile, perché dietro a quello che è divantato un simbolo che ha commosso il paese si nasconde pur sempre una donna che deve affrontare le inevitabili sofferenze di una prigionia lunga 6 anni. Senza contare gli ostacoli confezionati ad arte dall’interno e dall’esterno che dovrà superare…

FONTE PRINCIPALE: Internazionale n. 753

APPROFONDIMENTI:
Dossier liberazione Betancourt - limesonline
Bentornata Ingrid - altrenotizie
La sesta vita di Ingrid Betancourt - comedonchisciotte
Colombia_Scheda Conflitto - peacereporter

IN LIBRERIA (libri sulla Colombia consigliati da Internazionale acquistabili online da Ibs Italia):
• Alfio Neri,
Società e crisi politica nella Colombia contemporanea, L'Harmattan Italia, 2004 [25,50 euro];
• Guido Piccoli,
Colombia, il paese dell'eccesso. Droga e privatizzazione della guerra civile, Feltrinelli 2003 [12,00 euro];
• Guido Piccoli,
Colombiani. Storie da un paese sotto sequestro, Internazionale, 2000 [5,16 euro].

sabato 5 luglio 2008

La pesante eredità di Suharto

Il decennale dell'abdicazione di Suharto è praticamente passato inosservato in Italia. Nonostante il tempo e gli sforzi, l'Indonesia resta un paese povero, privo di un vero sviluppo e deficitario quanto a democrazia. Lo spirito di Suharto aleggia, insomma, ancora incontrastato.


Sono passati 10 anni da quando il presidente dell’Indonesia Suharto pronunciava la famosa frase “I quit”, me ne vado. Dopo 32 anni di potere assoluto era come assistere alla caduta di una divinità. Correva il giorno 21 maggio 1998, ma il decennale è passato decisamente inosservato: dopo questi anni di ‘transazione democratica’, del resto, nessuno in Indonesia è probabile che voglia fare bilanci, in particolare rispetto al passato regime. Fa eccezione Tempo - uno dei settimanali più venduti nel paese – che ha rivisitato la storia recente indonesiana analizzandola dal punto di vista economico: “Elezioni più democratiche, autonomia delle province, volti nuovi nella politica sono stati certamente conseguenze positive del cambiamento. L'economia del paese, grazia alla novità del libero mercato, si è ripresa rapidamente. Ma a muovere le fila del mercato nazionale sono sempre gli stessi attori di un tempo. La deregolamentazione e gli aiuti statali hanno permesso a chi già dominava il mercato prima della crisi di mantenere il controllo sul proprio giro di affari, con più facilità di investimento. A quanto pare l'unico ad aver perso denaro è lo stato, che nel febbraio 2004, alla chiusura dell'Agenzia per la ristrutturazione delle banche Indonesiane (Ibra), lamentava una perdita di 600 miliardi di rupie (circa 42 milioni di euro). I ricchi di un tempo in quattro anni si erano ripresi dalla crisi, sfruttando le nuove leggi che eliminavano alcuni monopoli e aprivano il mercato alla libera concorrenza” [13 maggio 2008].
L’ex presidente è morto lo scorso gennaio nel suo letto senza mai essere processato né per le malversazioni e i casi di corruzione di cui era stato imputato, né tantomeno per la violenta repressione che ha caratterizzato il suo regime – su cui pure la Commissione nazionale per i diritti umani aveva avviato alcune inchieste, nessuna arrivata a conclusione. Eppure, la lotta alla corruzione in Indonesia sembra infinita, malgrado gli sforzi compiuti negli ultimi anni dal governo di Jakarta. L'episodio più recente ha coinvolto l'ufficio della procura generale (Ago), in particolare la sezione crimini speciali, che indaga su casi di corruzione particolarmente gravi. Tutto è cominciato il 2 marzo con l'arresto di Urip Tri Gunawan, capo di una squadra investigativa che in passato si è occupata dell'attentato di Bali. L'uomo, trovato in possesso di 660mila dollari di origine sospetta, è stato fermato nella capitale dagli ufficiali della commissione anticorruzione (Kpk). Secondo il settimanale Tempo, il caso ha spinto le autorità ad avviare altre indagini all'interno dell'Ago e nelle ultime settimane sono stati sospesi diversi funzionari dell'ufficio, tra cui il viceprocuratore generale e il direttore del reparto investigativo. Questa doppia rimozione è stata un duro colpo alla credibilità della sezione. Come spiega al settimanale il procuratore generale, Hendarman Supandji, "la nostra priorità, ora, è sostituire queste persone e selezionare con più cura chi ne prenderà il posto. Dopo queste vicende dobbiamo riuscire a migliorare l'immagine della procura agli occhi dei cittadini indonesiani" [25 marzo 2008]. Intanto, per la prima volta in Indonesia è stato quantificato il patrimonio della famiglia Suharto: 14mila miliardi di rupie indonesiane (poco più di un miliardo di euro), cifra rivelata nel corso della causa di divorzio del terzo figlio di Suharto, Bambang Trihatmodjo. La moglie di Bambang ha presentato al giudice un elenco delle proprietà di famiglia chiedendone la confisca. Secondo la lista, le ricchezze dei Suharto si estendono ormai a tutti i settori dell'economia indonesiana: un'emittente televisiva, una società telefonica, un'industria automobilistica, alberghi, intere isole e terreni per oltre mille ettari, mentre alcuni attribuiscono all'ex dittatore anche nove miliardi di dollari trasferiti su conti correnti esteri ai tempi del regime. Ma i danni non finiscono qui.
Per trasformare un paese povero, rurale e molto popoloso in una ‘tigre’ asiatica, durante la sua lunga dittatura il ‘padre dello sviluppo’ (come si faceva chiamare) ha applicato minuziosamente le ricette del libero mercato, spinto a questo anche dalle amministrazioni di Washington, salvo farle funzionare solo per la sua famiglia e i suoi clientes. A pagarne il prezzo sono state le foreste, le risorse naturali e le popolazioni rurali e indigene del paese. Lo sviluppo è cominciato con le grandi concessioni minerarie – per esempio quella del 1965, e ancora attuale, alla Freeport McMoran che ottenne i diritti esclusivi sulla più grande miniera a cielo aperto di rame e oro a Papua occidentale – da cui le multinazionali hanno tratto miliardi di dollari di profitto, mentre solo una piccola percentuale è andata in royalties allo stato indonesiano. Di più: le attività di estrazione hanno inquinato la zona in modo irrecuperabile e l’interesse economico correlato alle miniere ha contribuito alla repressione delle popolazioni locali, anche finanziando l’esercito. Dopo le miniere, le foreste: tra il 1965 e il 1997, l’Indonesia ha perso tra 40 e 50 milioni di ettari di foresta tropicale, a causa di un misto tra sfruttamento selvaggio del legname commerciabile, espansione di grandi piantagioni, miniere, progetti di infrastrutture e urbanizzazione. Tempo denuncia, appunto, come l'esportazione illegale di legno pregiato stia causando danni gravissimi alle foreste indonesiane, ma sottolinea anche che di recente gli sforzi della polizia per combattere il fenomeno sono stati premiati: un'operazione ha portato all'arresto di 27 persone nella regione di Ketapang, nel Kalimantan Occidentale. "Per anni, una mafia del legno è stata attiva nelle foreste di Ketapang. Sono trafficanti, tagliatori, membri dell'ufficio forestale, della polizia, del ministero delle foreste e dell'amministrazione locale. Secondo le stime della squadra congiunta formata dall'ufficio nazionale di polizia e dal ministero delle foreste, la loro attività causa perdite annuali per più di 32mila miliardi di rupie (circa due miliardi di euro). All'inizio di marzo la squadra ha lanciato un'operazione di smantellamento della rete mafiosa, arrestando tra l'altro il capo dell'ufficio forestale di Ketapang, il capo del distretto di polizia locale e un candidato alla carica di governatore della regione. L'operazione, però, non è ancora conclusa: molti pesci grossi, infatti, sono riusciti a evitare l'arresto. Poi c'è da chiedersi se la polizia e la magistratura sapranno lavorare insieme per assicurare i colpevoli alla giustizia. E intanto le foreste stanno scomparendo" [15 aprile 2008].
Oltre al danno ambientale, è stato un disastro per milioni di persone che dipendono dalla terra. Forse il più grande disastro sociale e ambientale insieme al programma di “trasmigrasi”: tra il 1969 e il 1999 circa 4 milioni e mezzo di persone dalle isole più sovraffollate – Java, Madura e Bali – sono state risistemate nelle isole esterne dell’arcipelago, per lo più Kalimantan (o Borneo indonesiano) e Papua, con il massiccio – e criminale! - sostegno finanziario della Banca Mondiale. In teoria la trasmigrazione serviva a dare uno sfogo alla pressione demografica, ridurre la povertà e sviluppare l’agricoltura, ma la realtà è ben diversa. Spesso i progetti di colonizzazione agricola sono andati a rotoli perché le terre non erano adatte o perché non c’erano le infrastrutture necessarie e i mercati su cui operare, mentre i trasmigranti (IDPs, Internally displaced persons) sono finiti a fare da manodopera sfruttata per imprese di deforestazione o in piantagioni. Ciò ha indubbiamente contribuito alla nascita di conflitti con le popolazioni autoctone, a cui erano state sottratte terre e foreste senza alcuna considerazione per i propri diritti. Le popolazioni locali si sono trovate, insomma, sempre più emarginate e impoverite, e questo ha anche acutizzato il senso di ingiustizia e alimentato rivendicazioni separatiste, da Papua ad Aceh. L’attuale clima politico non favorisce certo un alto grado di stabilità. Le ultime tensioni si sono verificate a febbraio, quando il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono ha dovuto rinunciare al vertice della Fao di Roma. Il recente rincaro della benzina - il terzo stabilito dal suo governo - ha causato un malumore diffuso nel paese e dopo le manifestazioni di protesta del 28 maggio, il presidente ha deciso di restare a casa. La sua vera preoccupazione è stata quella di non rifare l'errore commesso dieci anni fa dall'ex dittatore Suharto. Durante gli scontri del maggio del 1998 furono uccisi quattro studenti universitari. La crisi politica che ne seguì causò la caduta del regime di Suharto, al potere da 32 anni. Così per evitare che la storia si ripetesse, il governo di Jakarta ha proibito alla polizia di portare armi da fuoco quando è in servizio durante le manifestazioni. Secondo i sostenitori di Yudhoyono, le proteste sono organizzate dai suoi avversari, che vorrebbero ridurne la popolarità in previsione delle elezioni del 2009. “I servizi segreti - scrive Tempo - pensano che a capo delle proteste ci sia un ex ministro e non è difficile intuire che si riferiscono a Rizal Ramli, ex ministro dell'economia. Ma Ramli respinge l'accusa di essere il manipolatore degli studenti, affermando che questa insinuazione è un insulto all'intelligenza degli studenti”. [12 febbraio 2008]
Anche dal punto di vista dell’economia il paese non dorme sonni tranquilli. L’allarme lanciato sempre da Tempo [4 dicembre 2007] non ha ricevuto adeguate risposte. L'Indonesia in futuro avrà, infatti, bisogno di produrre più energia elettrica. Gli esperti prevedono che per il 2009, anno delle elezioni, il paese sarà a rischio black out. Il governo sta cercando di prevenire questa eventualità con la costruzione di nuove centrali, che dovrebbero fornire al paese il 40 per cento in più di energia elettrica. Per l'azienda elettrica nazionale (Pln) si tratta di un investimento enorme che prevede la costruzione di 35 centrali termoelettriche alimentate a carbone, di cui l'Indonesia è il principale produttore mondiale, e a gas. Il petrolio non sarà usato a causa dei prezzi troppo alti. Inizialmente sembrava che le imprese costruttrici e le banche statali cinesi sarebbero state le uniche finanziatrici e partner di questo progetto. Tuttavia, poiché gli istituti bancari hanno fissato dei limiti di tempo troppo rigidi per la restituzione dei crediti, la Pln ha cercato finanziamenti altrove. Oggi, delle cinque banche che hanno partecipato all'appalto, una è cinese, tre sono indonesiane e un'altra è la Barclays. Il governo e la Pln sperano in questo modo di poter realizzare i lavori più urgenti per ottenere una produzione di 2.100 megawatt per il 2009 ed evitare la crisi energetica nel 2009.
Ad ogni modo il bilancio attuale resta disastroso. Secondo Down to Earth – bollettino on line della ‘Campagna per la giustizia ecologica in Indonesia’ – “il problema è che l’economia indonesiana resta basata sull’export e sullo sfruttamento intensivo delle sue risorse naturali, le miniere, la deforestazione e le piantagioni intensive". A distanza di 10 anni, il modello di ‘sviluppo’ di Suharto è, insomma, ancora vivo.


APPROFONDIMENTI:
- Cosa accade in Indonesia (fonte: Amnesty International; Down to Earth; WWF International);
- Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC);
- IDMC: Indonesia profile;
- IDMC maps: IDPs situation throughout Indonesia, as of june 2003.

mercoledì 2 luglio 2008

Il Cavaliere, lo statista e il faccendiere


L’italiano è scaltro e certe cose le fiuta in anticipo; troppo spesso però, curiosamente, l’irrazionale prevale sull’ovvio, e le cose prendono una brutta piega. E’ successo nel ’94, di nuovo nel 2001 e, siccome non vogliamo farci mancare nulla, siamo punto e a capo nel 2008. Sarà la “sindrome del balcone” come la chiama qualcuno o, più realisticamente, masochismo, ma sta di fatto che, anche questa volta, l’”uomo della provvidenza” non c’è. Il cavaliere ha messo giù la maschera e al solito c’è il caimano. Appena due mesi. Tanto è durata la “commedia dello statista appassionato”. La trama – sano populismo e tanta demagogia – è quella tipica del regista di Arcore. La sceneggiatura è molto carente, ma c’era da aspettarselo. Quanto a “bassezze”, Berlusconi non ha mai deluso. Aveva inaugurato la legislatura affossando definitivamente Alitalia e mandando in fumo la trattativa con Air France. Poi è arrivato il “miracolo” della spazzatura. Tre anni, l’esercito, qualche ditta fidata per la costruzione dei termovalorizzatori, un paio di manette a chi non è d’accordo ed il problema è risolto. Ma per “zio Silvio” – come lo chiamano gli amici di Napoli – è ancora poco. Serve qualcosa di più incisivo. La soluzione? Il nucleare. Quello “alla Scajola” parte nel 2013, per il “come” si vedrà. “Santo subito!” urla qualcuno. Parte quindi la crociata anti-immigrati ed uno sbalorditivo pacchetto-sicurezza. E guai a chiamarlo razzismo, è la tolleranza zero. Per il resto, ICI, detassazione degli straordinari, sfoltimento delle province, tagli agli enti locali ed alla pubblica amministrazione, sono una ricetta che il cavaliere propone da una vita. La sola novità è la “Robin Hood Tax”. Una tassa “etica”, a detta di Tremonti, che vuole far rabbrividire banchieri e petrolieri, minacciandone i profitti congiunturali. Come se il governo potesse decidere quando i profitti sono eccessivi…
E’ inutile l’opposizione agguerrita dell’Italia dei Valori, Di Pietro non ha i numeri per impensierire il premier. Inutili anche i richiami dell’ex pm all’indirizzo di un più che pacato Veltroni. Va tutto a meraviglia per Berlusconi&co. La stampa di regime parla di un paese in rapida ripresa, lontano dalla litigiosità di un sistema eccessivamente frammentato e pronto ad ubriacarci con centinaia di pareri politico-ideologici. Una strada in discesa per il faccendiere di Arcore. Ma quel ruolo da buon samaritano inizia a stargli stretto. Il cavaliere è abituato ad operare diversamente e, sebbene gradisca la placidità del tandem Veltroni-Casini, non resiste alla tentazione di rimboccarsi le maniche per accomodare qualche questione personale. Siamo alla fine di maggio. L’occasione è la conversione in legge del decreto cd.“salva-infrazioni”. L’Italia rischia il deferimento alla corte di giustizia europea ed una multa di quasi 400 mila euro al giorno, “poiché il regime di assegnazione delle frequenze televisive, non rispetta il principio della libera prestazione dei servizi”. Il problema in concreto è Rete4. Dal ’99, lo Stato italiano consente all’emittente del Presidente del Consiglio di trasmettere abusivamente ed a danno di Europa7, reale concessionaria di quella rete. Rete4 va oscurata o spedita sul satellite, le frequenze consegnate ad Europa7. Mediaset ha appena acquisito il 25% di Nessma Tv (un bacino di 7,5 milioni di famiglie), canale satellitare tunisino di proprietà del gruppo Karoui&Karoui World. Figurarsi dunque se, dopo il colpo messo a segno in trasferta, il caimano possa essere intenzionato ad abbandonare la partita in casa. Il provvedimento però, non solo indispettisce Veltroni, ma riesce a far bofonchiare persino Casini. “Sua Emittenza” è costretto ad arrendersi ed i suoi colonnelli ritirano l’emendamento. Il fuoco incrociato dell’opposizione ha funzionato. Il caso si chiude senza troppo rumore. Sembra, addirittura, che non vi siano pericoli per il dialogo maggioranza-opposizione, ormai assurto a “valore supremo” di tutta la legislatura.
Il cavaliere incassa. Fa buon viso a cattivo gioco. Rete4 è solo uno tra i suoi tanti crucci e neanche il più assillante, la partita più importante è quella con la giustizia. Lì non sono ammessi errori. Sul piatto c’è una condanna di primo grado a sei anni, per corruzione in atti giudiziari. Tra l’altro, l’accelerazione imposta proprio al processo Mills, in cui è imputato per via della falsa testimonianza dell’avvocato londinese, gli ha messo il sale sulla coda. La riapertura delle ostilità con i togati è stato, quindi, un passaggio obbligato. Il premier non scherza, non può permettersi che i processi di Milano arrivino a sentenza. Bisogna ridimensionare l’aggressività dei magistrati. La prima mossa, il ddl Berlusconi-Alfano-Ghedini sulle intercettazioni, è solo un antipasto. Una “proposta indecente” con cui il cavaliere ha cercato di ovviare a quella che definisce una “drammatica emergenza del paese, dilaniato dai costi sia economici che morali delle registrazioni telefoniche”; in realtà, punta di mettere la museruola ad una certa stampa, troppo attenta alle beghe giudiziarie del palazzo. Ipotesi prelibata, quest’ultima, che all’interno come all’esterno delle aule parlamentari ha molto ingolosito i numerosi “giannizzeri della privacy”, pronti ad applaudire la stretta sui media.
Ma il piatto forte resta il processo Mills. Argomento che detta l’agenda del premier e del suo governo. L’accoppiata Ghedini-Alfano non sembra intenzionata a deludere il cavaliere, per questo le sta studiando tutte. Inizialmente si era pensato di approfittare del decreto legge sulla sicurezza, già in fase di conversione, per far viaggiare spedita una norma sul “patteggiamento allargato”. Ma figurarsi se Berlusconi poteva accettare un’offerta simile. La seconda ipotesi invece, ha affascinato così tanto il cavaliere, da convincerlo ad inserire tutto e subito nel dl sicurezza, anche a costo di scontrarsi con Maroni. La Lega infatti, mal digerisce quei tentativi di legge prêt-à-porter che il premier cerca di cucirsi addosso. Provvedimenti che manderanno su di giri Berlusconi, ma non l’elettorato padano. Ciò nonostante lo scorso 16 giugno, Filippo Berselli e Carlo Vizzini presentano nell’aula di Palazzo Madama i due emendamenti al dl sicurezza che l’opposizione ha subito ribattezzato“salva premier”. Prevista la sospensione per un anno dei processi penali per fatti commessi fino al 2002 e riguardanti delitti di non rilevante gravità, con pene detentive inferiori ai 10 anni, in svolgimento e compresi tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado. Il dibattito diviene rovente, quando Schifani legge in aula una lettera, in cui il premier esalta un “provvedimento di legge a favore di tutta la collettività” che “garantisce ai cittadini una risposta forte per i reati più gravi e più recenti”. “Contro di me – conclude Berlusconi – fantasiosi processi che magistrati di estrema sinistra hanno intentato per fini di lotta politica”. L’opposizione insorge compatta. “E’ una truffa!” A suonare la carica è la vice presidente del senato Emma Bonino. “Questo decreto – tuona la radicale – non è lo stesso di cui hanno discusso le commissioni e che è stato firmato dal Presidente della Repubblica, in esso surrettiziamente sono state introdotte norme che sono totalmente estranee alla materia della sicurezza.” “Le iniziative dissennate di queste ore – attacca Casini – fanno capire perchè l’Udc non fa parte della maggioranza”. Di Pietro parla di “strategia criminale”. Alla fine s’indigna persino Veltroni. “Per un mese il Parlamento è stato bloccato a discutere di questioni che riguardano gli interessi personali del presidente del Consiglio”. Alla fine “si sono presentati due emendamenti per evitargli un processo che lo vede sul banco degli imputati.” Analizza il segretario del PD. “A questo punto è chiaro che non può esserci dialogo, Berlusconi ha scelto lo scontro”.
Alle numerose critiche dell’opposizione si aggiungono quelle dell’Anm che interviene sulle accuse rivolte da Silvio Berlusconi ai magistrati del processo Mills. “Chi governa il paese non può denigrare e delegittimare i giudici e l’istituzione giudiziaria quando è in discussione la sua posizione personale. Questi comportamenti – afferma l’associazione di categoria delle toghe – rischiano infatti di minare alla radice la credibilità delle istituzioni”. Ma il cavaliere non presta troppa attenzione ai moniti dei magistrati ed anzi, intervenuto all'assemblea annuale della Confesercenti, ribadisce la sua innocenza e non perde l’occasione per un attacco a quei “magistrati politicizzati”, che sono “la metastasi della democrazia”.
Nel frattempo, dopo mille polemiche, mentre la maggioranza vacilla sulla blocca-processi, fortemente osteggiata persino dal Quirinale, c’è il via libera del Consiglio dei ministri al disegno di legge sulla “immunità delle più alte cariche istituzionali”, il cd. “lodo Alfano”. Il provvedimento, una sorta di “piano B per la salvezza definitiva del cavaliere”, esonera per tutta la durata del mandato le prime quattro cariche dello Stato (presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, presidenti del Senato e della Camera) da tutti i “reati extrafunzionali”, non commessi cioè nell’esercizio delle loro funzioni. D’altronde, ammette lo stesso Berlusconi “stiamo diventando un Paese normale. O faccio il presidente del Consiglio o dedico il mio tempo a preparare le udienze. Tutte e due le cose non si possono fare”. Ma nonostante il lodo avanzi, il Quirinale continua a mostrarsi scettico, soprattutto sulla sospensione dei processi. La norma va modificata. Bisogna cercare un punto d’equilibrio attraverso un confronto realistico o la firma del capo dello Stato sotto il dl sicurezza potrebbe essere seguita da un messaggio alle Camere contro gli eccessi dei decreti e gli sconfinamenti nella materia. Ma su questo punto è Berlusconi ad essere categorico. “La norma si cambia solo se mi date la garanzia che i giudici di Milano non arrivano alla sentenza prima che il lodo venga approvato. Altrimenti io vado avanti. Ho i numeri per farlo. La sospensione passa com’è. E me ne avvalgo pure”. Impunità. Questo è l’imperativo categorico del cavaliere, sferzante, come lo schiocco di una frusta all’indirizzo dei destrieri.

SAVERIO MONNO, Altrenotizie

lunedì 30 giugno 2008

Il saccheggio del Congo


1. La storia della Repubblica Democratica del Congo – l’ex Zaire, un paese grande come un quarto dell'Europa - è segnata da numerosi conflitti finalizzati spesso al controllo delle immense risorse naturali di cui dispone: oro, diamanti, uranio, cobalto, rame e coltan (columbite-tantalite, metallo utilizzato nella telefonia cellulare e per le componenti informatiche), legno pregiato e gomma arabica. Ricchezze delle quali i congolesi non hanno mai usufruito: sfruttato prima dalla colonizzazione belga, poi dalla trentennale dittatura di Sese Seko Mobutu (1965-1997) quindi, a partire dagli anni '90, invaso dagli eserciti dei paesi vicini e da bande mercenarie che hanno sostenuto e alimentato la guerra civile e gli scontri tra le componenti etniche delle province frontaliere. Il conflitto in corso nella Repubblica Democratica del Congo è il più sanguinoso dai tempi della Seconda guerra mondiale e, anche a causa del gran numero di eserciti dei paesi limitrofi che ha coinvolto, è stato definito "Guerra mondiale africana". Nonostante i primi accordi di pace firmati nel 1999, i conflitti hanno avuto il loro apice tra il 1998 e il 2002, causando oltre 3,3 milioni di morti e circa 3 milioni di sfollati.
Keith Harmon Snow, un investigatore indipendente per i diritti umani e corrispondente di guerra per le organizzazioni Survivors Rights International e Genocide Watch e per le Nazioni Unite, ha recentemente riferito che nell'ottobre del 1996 ci sono stati almeno 1,5 milioni di rifugiati ruandesi e del Burundi nello Zaire orientale [Congo]. L'invasione a tutta scala è iniziata più formalmente quando le forze delegate dalla Rwandan Patriotic Army e dalla Ugandan Patriotic Defense bombardarono con l'artiglieria i campi profughi, uccidendo centinaia di migliaia di persone in un “chiaro caso di genocidio”. Il medesimo rapporto faceva anche notare che il numero di morti in Congo ha raggiunto livelli paragonabili a quelli del genocidio voluto dal re belga Leopoldo in Congo più di 100 anni prima, con “oltre 10 milioni di morti in Congo dal 1996, e milioni in più in Uganda e Rwanda”. Esso ha definito le morti come “ prodotti delle amministrazioni Bush-Clinton-Bush” (Keith Harmon Snow, The War that did not make the Headlines: Over Five Million Dead in Congo? Global Research: January 31, 2008).
Nell'aprile del 2001 il membro del Congresso Cynthia McKinney tenne un'udienza sul coinvolgimento occidentale nel saccheggio dell'Africa, in cui affermava che “al cuore della sofferenza dell'Africa c'è il desiderio dell'Occidente, e soprattutto degli Stati Uniti, di accedere ai diamanti, al petrolio, al gas naturale e ad altre preziose risorse africane... l'Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, hanno messo in moto una politica di oppressione, destabilizzazione motivata, non da principi morali, ma da uno spietato desiderio di arricchirsi con le favolose ricchezze dell'Africa” (John Perkins, The Secret History of the American Empire, Penguin Group, New York, 2007). Sembrerebbe quasi che re Leopoldo II sia tornato in Congo. Ma se ne era mai andato?

2. A parte la complessità e la carenza di informazioni documentabili, è evidente – basta semplicemente dare uno sguardo sommario alle parti combattenti – che si tratta del classico conflitto ‘per procura’, in cui potenze esterne fanno il doppio gioco con lo scopo di cristallizzare l’instabilità del paese e poter, così, gestire i loro affari: 1997/2002 - guerriglieri Tutsi del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (Rcd), appoggiati dal Ruanda, e del Movimento di Liberazione del Congo (Mlc), sostenuto dall'Uganda, contro il governo di Laurent Kabila (dal 2001 di suo figlio Joseph), appoggiato dagli eserciti di Angola, Namibia e Zimbabwe, nonché da varie milizie filo-governative (Mayi-Mayi e Hutu Interahamwe); 1999/2003 - scontri tra le fazioni rivali in cui si è diviso nel 1999 l'RCD, ovvero l'RCD-Goma (sostenuto dal Ruanda) e l'RCD-Kisangani ("ammutinati" sostenuti dall'Uganda); 1999/2005 - milizie degli Hema dell’Unione dei Patrioti Congolesi (Upc) contro milizie Lendu del Fronte Nazionalista Integrazionista (Fni) nella regione nord-orientale dell'Ituri. Ulteriore elemento della vastità degli interessi esteri in gioco, il fatto che il governo abbia ricevuto armi da Stati Uniti, Francia, Cina, Corea del Nord, Georgia, Polonia, altri Paesi dell'Europa dell'ex blocco sovietico (oltre che il diretto sostegno militare di Angola, Namibia e Zimbabwe), mentre i guerriglieri dell'Rcd dal Ruanda, quelli dell'Mlc dall'Uganda. La solita sporca storia.
Dopo l'assassinio di Laurent Kabila nel 2001, il figlio Joseph ha avviato nel 2002 il processo di pace (dialogo intercongolese, tenutosi in Sudafrica) che ha portato al ritiro degli eserciti stranieri alleati del governo (Angola, Namibia e Zimbabwe) e di quelli che sostenevano i ribelli (Ruanda e Uganda). Nonostante questo la presenza di milizie nelle regioni orientali del Paese resta considerevole, e nel Kivu si registrano sporadici scontri tra gli uomini del Rcd-Goma e le milizie Mayi-Mayi, che operano anche nel Katanga con attacchi frequenti alle truppe regolari congolesi. La presenza dei ribelli Hutu delle Fdlr (Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda), sostenute durante la guerra dal governo congolese, è un ulteriore fattore di instabilità per la regione. Dalla primavera del 2005 le Fdlr hanno rinunciato ufficialmente alla lotta armata, ma il programma di disarmo e rimpatrio non è ancora cominciato. In Kivu si registrano periodicamente movimenti di truppe a cui non sarebbero estranei contingenti militari del Ruanda, più volte accusato di destabilizzare la regione. Le truppe del Rcd-Goma, che in seguito all'accordo di pace sono entrate a far parte dell'esercito nazionale, sono sospettate di avere ancora legami molto stretti con le autorità ruandesi, tanto che dal 2003 vi sono stati numerosi casi di ammutinamento tra i contingenti militari appartenenti all'ex-gruppo ribelle. Il più famoso tra questi gruppi di dissidenti è quello capeggiato dal generale Laurent Nkunda, che nel 2004 è riuscito a occupare per diversi giorni la città di Bukavu impegnando severamente l’esercito e i caschi blu della Monuc, la missione Onu nel Paese. I dissidenti di Nkunda sono poi tornati a colpire nel gennaio 2006, quando per alcuni giorni hanno occupato la città di Rushturu e altri centri abitati minori nelle circostanze. La Monuc tenta con scarso successo di stabilizzare la situazione, anche perché i dissidenti sconfinano spesso in Ruanda per sfuggire alla cattura.
Nella primavera del 2005 c'è stata una recrudescenza del conflitto in Ituri, regione che negli anni precedenti non era stata toccata dal programma di disarmo. I frequenti scontri tra le milizie che si contendono il territorio hanno causato centinaia di vittime e hanno provocato la fuga di milioni di persone. La Monuc ha conseguentemente avviato un programma di smantellamento forzato delle circa sette milizie che si fronteggiavano nella regione. L'operazione è sostanzialmente riuscita, visto che la maggior parte dei capi miliziani è stata arrestata e imprigionata, ma gli scontri nella regione continuano anche se con minore intensità. Un ulteriore fattore di destabilizzazione è costituito dai ribelli ugandesi del Lra (Lord’s Resistance Army) che dalle loro basi nel sud del Sudan sconfinano spesso nel Congo settentrionale, attaccando la popolazione in cerca di soldi e viveri. A inizio 2006 la Monuc si è scontrata più volte con i ribelli.

3. Il mese scorso, Jean-Pierre Bemba Gombo, ex vice-Presidente e maggiore leader dell’opposizione dopo le ultime elezioni del 2006, che consegnarono il Paese all’attuale Presidente Joseph Kabila, è stato arrestato a Bruxelles sabato notte. L’ordine di arresto è arrivato dalla Corte Penale Internazionale, per richiesta del Procuratore Moreno-Ocampo. L’ex leader del Movimento per la Liberazione del Congo (MLC) è accusato di aver commesso crimini di guerra e contro l’umanità nella Repubblica Centrafricana tra l’ottobre del 2002 ed il marzo del 2003. Nello specifico le accuse sono di stupro e tortura per quanto riguarda i crimini contro l’umanità, cui si aggiungono quelle che riguardano i crimini di guerra: oltre i due reati precedenti, vi è l’offesa alla dignità umana (trattamenti umilianti e degradanti) e il saccheggio di villaggi. Bemba aveva lasciato la Repubblica Democratica del Congo l’anno scorso, temendo per la sua vita dopo che le sue milizie erano state coinvolte in violenti scontri interni, e si era rifugiato con la sua famiglia in Portogallo. Attualmente l’ex Comandante del MLC è il primo arrestato nell’ambito dell’inchiesta della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra nella Repubblica Centrafricana, iniziata nel 2007. Lo stesso Tribunale Internazionale, con sede all’Aja, sta indagando anche su altri fatti di guerra in Paesi africani, come l’Uganda, la stessa Repubblica Democratica del Congo e il Sudan (per i crimini legati al conflitto in Darfur).
L’arresto di Jean-Pierre Bemba a Bruxelles, per ordine di autorità belghe, pone nuovamente il dibattito sulla responsabilità dei processi penali per crimini di guerra. Il Tribunale Penale Internazionale, attivo dal 2002, dovrebbe essere l’organo preposto dalle Nazioni Unite a giudicare questo tipo di reati, ma più volte si è posta la questione della riluttanza di alcuni Paesi (Stati Uniti in testa) a consegnare propri concittadini al Tribunale olandese. Si ripropone anche la questione dei rapporti dei Paesi africani con quelli europei, in particolar modo gli ex colonizzatori. Al momento il governo di Kinshasa ha richiamato il proprio ambasciatore a Bruxelles, creando i presupposti per una crisi diplomatica. Crisi, peraltro, già aperta recentemente, da quando il Ministro degli Esteri belga Karel De Gucht ha accusato la RDC di corruzione e violazione dei diritti umani, oltre che dei suoi rapporti con la Cina. Proprio il gigante asiatico sta diventando il partner privilegiato dei governi dell’Africa centrale, a discapito degli alleati storici, come Francia e Belgio. L’arresto di Bemba pone infatti l’accento su una distinzione fondamentale tra l’Europa e la Cina nei confronti dei Paesi africani, dal momento che Pechino, almeno fino ad ora, non ha mai vincolato i legami politico-economici al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici.

APPROFONDIMENTI:
- FURTO DI STATO (puntata di Report dedicata ad un materiale strategico ed ambitissimo, il coltan (o tantalio), di cui la RDC è primo produttore mondiale).
- L'equilibrio instabile del Congo, Affari internazionali, 17/06/2008.
- Kabila si riprende il Congo, Altrenotizie, 17/11/2006.
- Congo, la vittoria annunciata, Altrenotizie, 04/08/2006.
- Congo, prove di democrazia, Altrenotizie, 04/04/2006.

sabato 28 giugno 2008

Detassazione degli straordinari

Una delle misure del governo Berlusconi accolte più favorevolmente dall'opinione pubblica è la detassazione degli straordinari. Una misura, a guardar bene, esaltata e sbandierata come manna dal cielo, ma che in realtà si rivela populistica, che non risolve certo il problema dell'erosione del potere d'acquisto per i lavoratori e che rappresenta in definitiva solo un esile palliativo. Devo, infatti, capire quali siano queste aziende bisognose di un gran numero di ore lavorative in più rispetto a quelle normali, vista l'aria di crisi che tira - o che almeno si dice che tiri. Non capisco, quindi, come sia possibile che le aziende italiane licenzino costantemente lavoratori - o li mettano in mobilità, etc. - ma abbiano allo stesso tempo bisogno di ore di straordinario. Tale misura si rivela, in buona sostanza, uno slogan propagandistico privo di una qualsiasi efficacia ed utilità. Gli unici che ci guadagnano sono forse gli imprenditori che si ritrovano ora un' arma in più.

vignetta di Marco Viviani

mercoledì 25 giugno 2008

Il 'grande gioco' dall Asia al Mediterraneo



UE, LE DIFFICOLTA’ DEL NABUCCO - Benita Ferrero-Waldner, responsabile delle relazioni estere della Commissione Europea, ha incontrato lo scorso 5 maggio i responsabili energetici della Turchia e di alcuni paesi mediorientali al fine di discutere sulla possibilità che questi ultimi forniscano la materia prima per il funzionamento del nuovo gasdotto Nabucco. L’infrastruttura dovrebbe entrare in funzione nel 2010, anche se la data più probabile per la sua inaugurazione sembra essere il 2012. Il gasdotto fungerà da collegamento tra la Turchia e l’Austria e lo scopo principale della sua costruzione è garantire la diversificazione energetica in Europa allentando, seppur in maniera limitata, la dipendenza di Bruxelles dal gas russo. I giacimenti del Mar Caspio dovrebbero, quindi, garantire la diversificazione energetica in Europa. In realtà, però, il progetto presenta ancora una serie di incognite: a tutt’oggi non si conosce, infatti, la reale capacità produttiva dell’Azerbaijan e i 10 miliardi di metri cubi garantiti dal Turkmenistan difficilmente potranno garantire il funzionamento di lungo periodo del gasdotto. Del progetto dovrebbe essere parte integrante anche l’Iraq che ha già garantito una fornitura annuale pari a 5 miliardi di metri cubi, ma la situazione interna del paese rende difficile organizzare un piano di lungo periodo. Un altro possibile partner del Nabucco potrebbe essere l’Iran, ma come per l’Iraq, è al momento difficile poter contare appieno sull’appoggio degli Ayatollah al progetto, per non parlare delle riserve americane su un partenariato energetico euro-iraniano. Oltre ai problemi legati all’individuazione del gas necessario al suo pieno funzionamento il Nabucco deve anche far fronte alla concorrenza di un altro progetto sponsorizzato da Mosca, il South Stream che collegherà il Mar Nero al Mediterraneo e che a differenza del progetto di Bruxelles non deve far fronte a problemi di approvvigionamento vista l’enorme disponibilità energetica russa. Se nel lungo periodo, anche a fronte di una crescente domanda europea, i due gasdotti potrebbero essere entrambi vantaggiosi e garantire un ritorno economico, nel breve periodo la presenza di South Stream rischia di penalizzare fortemente il Nabucco. Il nuovo progetto di Bruxelles rappresenta sì un passo in avanti nella diversificazione energetica ma non è ancora sufficiente a garantire un’indipendenza significativa dalle forniture russe. Un’alternativa potrebbe essere rappresentata dagli idrocarburi algerini che però non sembrano essere in grado di sostituirsi a quelli russi. Il futuro energetico dell’UE dipenderà molto probabilmente anche dall’evoluzione dei rapporti con l’Iran e dalla stabilità della situazione irachena, ma sembra destinato almeno nel breve–medio periodo ad essere legato a doppio filo alla Russia e alla compagnia di bandiera Gazprom.

IL CORRIDOIO MERIDIONALE - Il Nabucco sarà molto probabilmente destinato ad allacciarsi al cosiddetto Corridoio Meridionale (o Trans Asian Railway) - forse il progetto più complesso tra quelli varati dall’ESCAP (Economic and Social Commission for Asia and the Pacific) nell’ambito dei trasporti – che si propone di collegare Cina ed Asia Meridionale all’Europa operando anche un programma di miglioramento ed ‘infittimento’ delle maglie delle reti ferroviarie locali (creando, ad esempio, nuove interconnessioni tra città, zone di produzione agricola e centri industriali). Questa rete avrebbe l’obiettivo di sostenere ed incentivare il traffico commerciale, principalmente quello containerizzato, integrando il sistema di collegamenti eurasiatico. La linea principale che dovrebbe attraversare questo corridoio, però, necessita non solo della realizzazione di strutture ex-novo, ma sopratutto del superamento di limitazioni tecniche e gestionali derivanti essenzialmente dall’attraversamento di sette Stati. Il contesto geopolitico, caratterizzato da discordanza e da squilibri socio-economici, genera una maggiore difficoltà ad applicare degli standards operativi necessari alla riuscita del progetto e alla sua efficienza economica (dal momento che dovranno essere recuperate ingenti quantità di capitali investiti). Le problematiche che devono essere affrontate vanno dai diversi scartamenti ferroviari impiegati e all’uso di materiale rotabile differente, fino ai disaccordi sulle pratiche doganali e sulle modalità d’ispezione dei convogli.

UNA DISPUTA DEL 'CASPIO' – Un altro fattore di incertezza che pesa sui progetti di diversificazione energetica europea è la controversia relativa al mar Caspio, discussa per l’ultima volta il 16 ottobre, a Teheran, dai presidenti dei cinque paesi rivieraschi (Russia, Kazakhstan, Azerbaijan, Turkmenistan e Iran) con l’obiettivo di decidere se il Caspio sia un mare o un lago. Un quesito che sembra capzioso, ma che in realtà ha delle importanti conseguenze: se il Caspio venisse ritenuto d’acqua dolce, i proventi delle estrazioni energetiche effettuate al largo sarebbero divisi tra tutti i paesi rivieraschi; se la sua acqua fosse considerata salata, invece, ognuno avrebbe la sua porzione di mare e di fondale: una disdetta per l’Iran, cui toccherebbe in questo modo la parte meno ricca. Il risultato del vertice è stato…non decidere, anche se i paesi interessati hanno affermato che la risoluzione del problema è affar loro, senza che nessun paese estero debba sentirsi in onere di interferire nella questione. Chiaro riferimento agli Stati Uniti (e indirettamente all’Unione Europea), che hanno alcune compagnie petrolifere bramose di esplorare il Caspio [
International Herald Tribune] insieme ai governi kazako e azero. Se si aggiunge il progetto della costruzione della Trans-Caspian Pipeline (TCP), con cui trasportare il gas sotto il Caspio, dal Turkmenistan all’Azerbaijan e quindi all’Europa (bypassando in tal modo la Russia) si capisce la preoccupazione del Cremlino per quelle opzioni che potrebbero limitare notevolmente la possibilità di Gazprom di investire nella regione [Moscow Times]. Ovviamente Putin osteggia il progetto [Jamestown Foundation], trincerandosi dietro vaghe preoccupazioni ambientaliste e affermando che la costruzione di un gasdotto dovrebbe avere l’approvazione di tutti i governi rivieraschi. Non è tardata la risposta dell’Azerbaijan [Eurasianet], secondo cui l’attuale status del Caspio non pone problemi legali di sorta alla costruzione della TCP. A fronte di tali crepe, il vertice ha deciso che il trasporto, la pesca e la navigazione nel Caspio potrà essere effettuata esclusivamente da natanti battenti una delle bandiere dei cinque paesi [Jamestown Foundation]. È stato anche messo in cantiere il progetto di un'organizzazione regionale del Caspio che, però, non sembra di prossima nascita. In ogni caso i cinque paesi hanno stabilito di non lanciarsi attacchi militari l’un l’altro e soprattutto di non ospitare sul proprio territorio truppe di uno Stato terzo che volessero colpire uno di loro. Presa di posizione importante nell’ottica di un eventuale attacco americano all’Iran, vero trionfatore del vertice [Asia Times]. Il tentativo moscovita di smarcarsi strategicamente dagli Usa, infatti, ha portato ad un riavvicinamento con gli ayatollah, anche se la politica putiniana rischia di rappresentare un autogol se i persiani persisteranno nella loro corsa nucleare.

APPROFONDIMENTI:
- Mar Caspio - La battaglia dei paesi rivieraschi per le risorse
- Il "Grande Gioco" entra nel Mediterraneo: gas, petrolio, guerra e geopolitica
- Risorse energetiche e controllo geopolitico. Il Grande Gioco nell’Asia centrale
- Grande gioco (origine dell'espressione)
- Mappe: regione del mar Caspio - NORD , SUD , LEGENDA MAPPE.

giovedì 12 giugno 2008

Lettera aperta di Evo Morales all'Ue

Fino alla fine della Seconda guerra mondiale l'Europa è stata un continente di emigranti. Decine di milioni di europei partirono per le Americhe per fondare colonie, sfuggire alle carestie, alle crisi finanziarie, alle guerre o ai totalitarismi europei e alla persecuzione delle minoranze etniche. Oggi sto seguendo con preoccupazione l'evoluzione della cosiddetta "direttiva ritorno". Il testo, approvato il 5 giugno scorso dai ministri dell'interno dei 27 paesi dell'Unione Europea, è in attesa di essere votato il 18 giugno al Parlamento Europeo. Osservo con rammarico che renderà drasticamente più rigide le regole di detenzione ed espulsione dei migranti privi di documenti, a prescindere dal loro tempo di permanenza nei paesi europei, dalla loro situazione lavorativa, dai loro legami familiari, dal loro desiderio di integrazione e dalle loro conquiste.
Gli europei arrivarono nei paesi dell'America Latina e del Nord America in massa, senza visti né condizioni imposti dalle autorità. Furono sempre i benvenuti, e continuano a esserlo, nei nostri paesi del continente americano che assorbirono allora la povertà economica europea e le sue crisi politiche. Giunsero nel nostro continente a sfruttare ricchezze e a portarle in Europa, con costi altissimi per le popolazioni americane autoctone. Come nel caso del nostro Cerro Rico de Potosí e delle sue favolose miniere d'argento che rifornirono di denaro il continente europeo dal XVI al XIX secolo. Le persone, i beni e i diritti dei migranti europei sono stati sempre rispettati. Oggi l'Unione Europea è la principale destinazione dei migranti del mondo: ciò è il risultato della sua immagine positiva in quanto zona di benessere e di libertà civili. L'immensa maggioranza dei migranti giunge nell'Unione Europea per contribuire a questo benessere, non per approfittarsene. Vengono impiegati nella realizzazione di opere pubbliche, nell'edilizia, nei servizi alla persona e negli ospedali, tutti posti che gli europei non possono o non vogliono occupare. Contribuiscono al dinamismo demografico del continente europeo, a mantenere il rapporto tra attivi e inattivi che rende possibile i suoi generosi sistemi di sicurezza sociale e dinamizzano il mercato interno e la coesione sociale. I migranti offrono una soluzione ai problemi demografici e finanziari dell'Unione Europea.
Per noi, i nostri migranti rappresentano quell'aiuto allo sviluppo che gli europei non ci danno – considerato che pochi paesi raggiungono realmente l'obiettivo minimo dello 0,7% del proprio PIL in aiuti allo sviluppo. Nel 2006 l'America Latina ha ricevuto 68.000 milioni di dollari in rimesse familiari, cioè più di tutti gli investimenti stranieri nei nostri paesi. A livello mondiale raggiungono i 300.000 milioni di dollari, che superano i 104.000 milioni concessi con gli aiuti allo sviluppo. Il mio paese, la Bolivia, ha ricevuto più del 10% del PIL in rimesse (1100 milioni di dollari), o un terzo delle nostre esportazioni annue di gas naturale. Questo significa che i flussi di migrazione sono benefici sia per gli europei sia marginalmente per noi del Terzo Mondo che però perdiamo anche milioni di persone che costituiscono la nostra manodopera qualificata, nella quale in un modo o nell'altro i nostri Stati, benché poveri, hanno investito risorse umane e finanziarie.
Purtroppo il progetto della "direttiva ritorno" complica tremendamente questa realtà. Se riteniamo che ogni Stato o gruppo di Stati possa definire le sue politiche migratorie in assoluta sovranità, non possiamo accettare che i diritti fondamentali delle persone vengano negati ai nostri connazionali e fratelli latinoamericani. La "direttiva ritorno" prevede la possibilità di incarcerazione fino a 18 mesi dei migranti senza documenti prima della loro espulsione – o "allontanamento", secondo il termine usato dalla direttiva. 18 mesi! Senza processo né giustizia! Nella sua forma attuale il progetto della direttiva viola chiaramente gli articoli 2, 3, 5, 6, 7, 8 e 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948. In particolare l'articolo 13 che recita: "1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese". E, ancor peggio, esiste la possibilità di rinchiudere madri di famiglia e minorenni, senza tener conto della loro situazione familiare o scolastica, in questi centri di detenzione dove sappiamo che si verificano depressioni, scioperi della fame, suicidi. Come possiamo accettare senza reagire che siano rinchiusi in questi campi i nostri connazionali e fratelli latinoamericani privi di documenti, la maggior parte dei quali ha trascorso anni lavorando e integrandosi? Dove sta oggi il dovere di intervento umanitario? Dove sta la "libertà di movimento", la protezione contro le detenzioni arbitrarie?
Parallelamente, l'Unione Europea sta cercando di convincere la Comunità Andina delle Nazioni (Bolivia, Colombia, Ecuador e Perù) a firmare un "Accordo di Associazione" che comprende un Trattato di Libero Scambio caratterizzato dalla stessa natura e contenuti di quelli imposti dagli Stati Uniti. Siamo sottoposti a intense pressioni da parte della Commissione Europea, che vuole farci accettare condizioni di profonda liberalizzazione nel commercio, nei servizi finanziari, nella proprietà intellettuale e nei nostri servizi pubblici. Inoltre a titolo di protezione giuridica subiamo pressioni a causa del processo di nazionalizzazione dell'acqua, del gas e delle telecomunicazioni realizzato nella Giornata Mondiale dei Lavoratori. La mia domanda è: in questo caso, dove sta la "sicurezza giuridica" per le nostre donne, i nostri adolescenti, bambini e lavoratori che cercano prospettive di una vita migliore in Europa? Promuovere la libertà di movimento delle merci e delle finanze, mentre assistiamo all'incarcerazione senza processo dei nostri fratelli che hanno cercato di muoversi liberamente. Questo significa negare le basi della libertà e dei diritti democratici.
In queste condizioni, se fosse approvata la "direttiva ritorno" ci troveremmo nell'impossibilità etica di approfondire i negoziati con l'Unione Europea, e ci riserviamo il diritto di applicare ai cittadini europei lo stesso regime dei visti che imposto ai boliviani dal 1° aprile 2007, secondo il principio diplomatico della reciprocità. Finora non abbiamo esercitato questo diritto sperando giustamente in un segnale positivo dall'Unione Europea. Il mondo, i suoi continenti, i suoi oceani e i suoi poli conoscono gravi difficoltà: il surriscaldamento globale, l'inquinamento, la scomparsa lenta ma inesorabile delle risorse energetiche e delle biodiversità mentre la fame e la povertà aumentano in tutti i paesi, rendendo più fragili le nostre società. Trasformare i migranti, provvisti o no di documenti, in capri espiatori di questi problemi globali non è una soluzione. Non corrisponde ad alcuna realtà. I problemi di coesione sociale dei quali soffre l'Europa non sono colpa dei migranti, ma il risultato del modello di sviluppo imposto dal Nord, che distrugge il pianeta e disintegra le società degli uomini.
In nome del popolo della Bolivia, di tutti i miei fratelli del continente e delle regioni del mondo come il Maghreb, l'Asia e i paesi africani, mi richiamo alla coscienza dei governanti e dei deputati europei, dei loro popoli, cittadini e attivisti d'Europa, perché non sia approvato il testo della "direttiva ritorno". Come la conosciamo oggi, questa è una direttiva della vergogna. Chiedo inoltre all'Unione Europea di elaborare, nei prossimi mesi, una politica migratoria rispettosa dei diritti umani che permetta di mantenere questo slancio positivo per entrambi i continenti e che ripaghi una volta per tutte il tremendo debito storico che i paesi dell'Europa hanno nei confronti di gran parte del Terzo Mondo, chiudendo subito le vene ancora aperte dell'America Latina. Oggi le loro "politiche di integrazione" non possono fallire come hanno fatto con la presunta "missione civilizzatrice" al tempo delle colonie. A tutti voi, autorità, europarlamentari, compagne e compagni, invio saluti fraterni dalla Bolivia. E in particolare la nostra solidarietà a tutti i "clandestini".

Evo Morales Ayma - Presidente della Repubblica di Bolivia
Fonte:
Rebelión