mercoledì 2 aprile 2008

Le manie di persecuzione e i 'comunisti' del Quirinale

1. È infiacchito. Sembra imbolsito. Si dice che non abbia più tanta voglia. Ma ora che si avvicina l'ordalia del 13 aprile, sempre più spesso il Cavaliere stanco si lascia sopraffare dal vecchio Caimano che è in lui. Dai giorni ruggenti della sua discesa in campo del '94, Berlusconi ha trasformato il conflitto ideologico in uno strumento irriducibile della sua legittimazione politica, e il conflitto istituzionale in un metodo irrinunciabile della sua avventura di governo. Ora che risente vicina la possibilità di un ritorno a Palazzo Chigi, il leader del Pdl non resiste al richiamo della foresta. E riapre le ostilità contro con un simbolo che per gli italiani rappresenta la più preziosa delle istituzioni, ma per lui costituisce la più tormentosa delle ossessioni. Equiparare la presidenza della Repubblica alle "forche caudine" di un Capo dello Stato "che sta dall'altra parte" non è solo un'offesa nei confronti di un galantuomo come Giorgio Napolitano, che in questi due anni difficili non ha mai sconfinato dal perimetro delle funzioni istituzionali che la Costituzione gli assegna e non ha mai valicato il confine delle attribuzioni politiche che il mandato delle Camere gli ha assegnato.

2. La sortita del Cavaliere è soprattutto un insulto nei confronti del sistema dei valori repubblicani, fondato sulla leale collaborazione tra le istituzioni, sul rispetto degli organi di garanzia, sul bilanciamento dei poteri dello Stato. Nonostante i quindici anni di militanza politica e i sei anni e mezzo di esperienza di governo, Berlusconi dimostra di non aver mai metabolizzato fino in fondo questi valori. Lui è e resta "altro". Per lui non ci sono interlocutori istituzionali o politici con i quali dialogare, ma solo nemici da sconfiggere o da imprigionare. Per lui il governo è e resta il Quartier Generale da espugnare, e il Quirinale è e resta il Palazzo d'Inverno da assediare. Ovviamente nell'attesa messianica di conquistare anche quello, e di consegnare finalmente se stesso alla Storia.
La sua uscita di ieri si può spiegare solo in questa ottica distorta del gioco democratico. E a niente valgono i soliti tentativi di ridimensionare la portata dell'attacco al Colle, con la prassi collaudata delle autosmentite successive. Non bastano le parole riparatorie nei confronti di Napolitano, non basta evocare "l'ottimo rapporto", la "stima e l'affetto" ricambiati. Non basta la telefonata di scuse con il Capo dello Stato, per precisare che "lui non c'entra niente".
Per quanto cordiale e contrita sia stata quella chiamata, il danno si è già prodotto. O meglio: ri-prodotto. La toppa che il Cavaliere prova a mettere in serata è peggiore del buco che creato nel pomeriggio. Berlusconi chiarisce che il suo discorso si riferiva al precedente settennato di Carlo Azeglio Ciampi, con il quale il suo governo ha avuto "un rapporto dialettico", e con il quale si è creato un attrito a proposito della riforma della legge elettorale, con quel premio di maggioranza regionale "che il Quirinale ha preteso".

3. Il Cavaliere mente due volte. La prima volta: il "rapporto dialettico" con Ciampi lo ha creato lui, con le continue forzature legislative che hanno piegato l'economia ai suoi sogni personali e il diritto ai suoi bisogni processuali. Se Ciampi ha rifiutato di firmare la legge Gasparri sulle Tv o la legge Castelli sulla giustizia non dipende dal fatto che stesse "dall'altra parte", cioè che fosse un pericoloso "comunista", ma dal fatto che "dall'altra parte" ci stesse invece lui, il Cavaliere, che era e resta un avventuroso populista.
La seconda volta: non è stato certo Ciampi a imporre il premio su base regionale a Palazzo Madama nella formula mostruosa declinata dal "porcellum". Il Colle, in quell'occasione, si limitò a segnalare la necessità che si rispettasse il dettato costituzionale: l'articolo 57 prescrive che il Senato della Repubblica sia "eletto a base regionale". Tutto qui. Il resto, che l'Italia sta pagando a caro prezzo, lo fecero i sedicenti "esperti" della vecchia Casa delle Libertà: quattro apprendisti stregoni riuniti in una baita di Lorenzago. Semmai, se l'ex Capo dello Stato ha avuto una colpa, è stata quella di non aver rimandato alle Camere anche quell'orribile legge Calderoli, costruita con l'unico obiettivo (purtroppo raggiunto) di rendere il Paese ingovernabile. Altro che "dall'altra parte": Berlusconi dovrebbe ringraziare Ciampi, invece che insolentirlo.

4. Si tratta ora di vedere quali saranno gli effetti di questo ennesimo strappo istituzionale, nei pochi giorni che restano prima delle elezioni. Anche se animato dalla giusta intenzione di ristabilire un principio, ma anche di svelenire la polemica, è difficile che il comunicato diffuso dal Quirinale possa chiudere la partita. Quel testo è al tempo stesso inquietante e confortante. Inquieta il fatto che la più alta magistratura istituzionale del Paese debba essere costretta a ribadire, in piena campagna elettorale, un'evidenza oggettiva di cui nessun leader politico e nessun cittadino comune dovrebbe mai dubitare: la presidenza della Repubblica è per definizione sostanziale e costituzionale un organo di garanzia, che interloquisce ma non interferisce con gli altri poteri dello Stato.
Conforta il fatto che in questa nostra "Repubblica transitoria" in cui tutto sembra rapidamente deperibile e variamente manipolabile, dai fatti della cronaca ai giudizi della storia, il Quirinale rappresenta l'unico presidio autenticamente no-partisan del sistema democratico. L'unico "luogo" fisico e simbolico della politica italiana che non si lascia snaturare dalle logiche iper-partisan e che assicura la necessaria unità dell'azione e la doverosa continuità della missione, indipendentemente da chi sia l'inquilino che lo abita. Non è una cosa da poco, visti i possibili scenari del dopo 13 aprile. E visto soprattutto l'incontenibile istinto del Cavaliere ad usare l'Italia come una semplice appendice di Forza Italia.

Fonte: da un articolo di Massimo Giannini su La Repubblica.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sono perfettamente daccordo con Giannini, sulla inattaccabilità e imparzialità del Quirinale. Del resto lo ha dimostrato nell'ultima crisi di governo, quando invece di spingere per un governo tecnico, ha deciso di sciogliere le camere. Riporto integralmente in sua difesa ultimo discorso di Giorgio Napolitano:

Scioglimento delle Camere: il discorso di Napolitano
«La decisione di sciogliere le Camere, sentiti i loro presidenti - dice il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo aver firmato il decreto di scioglimento della XV legislatura - è divenuta obbligata visto l'esito negativo degli sforzi che ho diversamente compiuto nella convinzione che elezioni così fortemente anticipate costituiscano un'anomalia rispetto al normale succedersi delle legislature parlamentari, non senza conseguenze sulla governabilità del paese».
«La decisione cui sono giunto, avendola ponderata al di fuori di qualsiasi condizionamento - aggiunge il capo dello Stato - è in effetti scaturita dal succedersi di avvenimenti ben noti a tutti. Dapprima il venir meno della fiducia al Governo con il voto del 23 gennaio scorso in Senato, e poi l'accertata impossibilità di dar vita a una maggioranza che concordasse in particolare sull'approvazione in tempi brevi di una riforma della legge elettorale». «L'incarico che avevo conferito in tal senso al presidente Marini - afferma Napolitano - non è stato purtroppo coronato da successo, come egli stesso mi ha puntualmente riferito a conclusione di molteplici incontri condotti con un impegno e uno scrupolo, riconosciutigli da ogni parte, per i quali desidero pubblicamente ringraziarlo».

«Già nel febbraio dello scorso anno, rinviando in Parlamento il governo dimissionario - ricorda il presidente della Repubblica - avevo ricavato dalle consultazioni da me svolte, la 'necessità prioritaria di una modificazione del sistema elettorale vigentè. Ma, nelle discussioni che su tale materia sono da allora seguite, anche e soprattutto in sede parlamentare, hanno a lungo negativamente pesato incertezze e divisioni tra le forze politiche».

«Si era tuttavia giunti nelle ultime settimane, sulla soglia di una possibile conclusione: di qui il mio auspicio ed appello, dopo le dimissioni del governo Prodi, perchè si finisse quella riforma come primo passo verso una più complessiva revisione delle regole, della competizione politica e del funzionamento delle istituzioni e di qui oggi - spiega Napolitano - il mio rammarico per dover chiamare nuovamente gli elettori alle urne, senza che quella riforma sia stata approvata».

«Ho sempre e solo avuto di mira l'interesse comune ad una maggiore linearità, stabilità ed efficienza del sistema politico istituzionale. Il dialogo su questi temi, ora interrottosi, resta un'esigenza ineludibile per il futuro del paese. Mi auguro perciò - conclude il capo dello Stato - che la prossima campagna elettorale si svolga in un clima rispondente a quell'esigenza, da molti ribadita anche in questi giorni. È il momento, per tutte le forze politiche, di dar prova del senso di responsabilità richiesto dalle complesse prove cui l'Italia è chiamata a far fronte».