giovedì 4 ottobre 2007

Sputnik, il giorno che le potenze iniziarono a mettere le mani sullo spazio

Il 4 ottobre 1957 l'allora Unione Sovietica, per la prima volta nella storia, lanciava nello spazio un satellite artificiale - lo Sputnik, in russo 'compagno di viaggio' - ponendo il problema delle norme applicabili alla navigazione cosmica. Capostipite di un più vasto programma di missioni spaziali, lo Sputnik 1 prese in contropiede gli Stati uniti, che solo il 31 gennaio 1958 sarebbero stati in grado di mandare in orbita il loro primo satellite: l'Explorer 1. In piena guerra fredda ciò significò la fine del cosiddetto mito dell'invulnerabilità Usa. Lo Sputnik, partito dalle steppe del Kazakistan, rimase in orbita per 57 giorni (di cui 21 con gli strumenti perfettamente funzionanti) fino a bruciare durante il rientro in atmosfera il 3 gennaio 1958 dopo circa 1.400 orbite e 70.000.000 km.
Se nei primi anni '50 si erano regolamentate le "zone di identificazione aerea" in deroga al principio consuetudinario della libera utilizzazione dello spazio aereo internazionale, con la corsa allo spazio - e dal momento che nessuno Stato sollevò proteste al lancio dei russi - si venne a formare in pochi anni una consuetudine istantanea (instant custom), ossia una norma internazionale consuetudinaria che prevede la libertà di utilizzazione dello spazio cosmico sovrastante i territori sottoposti alla giurisdizione degli Stati. Resta ancora poco chiaro in merito al dibattito all'interno delle Nazioni Unite (COPUOS - Comitato delle Nazioni Unite per le utilizzazioni pacifiche dello spazio cosmico) il problema della delimitazione dello spazio cosmico dallo spazio aereo. Tra i vari criteri proposti figurano il limite dell'atmosfera, il limite della massima altitudine raggiungibile da un aereo, il limite dell'attrazione gravitazionale, il limite del più basso perigeo di un satellite artificiale e il limite di una distanza prestabilita dalla superficie terrestre.
Sta di fatto che il Trattato sui principi che regolano le attività degli Stati nell'esplorazione e utilizzazione dello spazio extra-atmosferico, inclusa la luna e gli altri corpi celesti, è stato concluso il 27 gennaio 1967 ed è entrato in vigore il 10 ottobre dello stesso anno. In esso si stabilisce che lo spazio cosmico non possa " formare oggetto di appropriazione nazionale attraverso proclamazioni di sovranità o atti di utilizzazione o occupazione" (art. 2), né essere utilizzato per fini militari e in particolare con armi nucleari (art. 4); definisce gli astronauti "inviati dell'umanità" nei cui confronti gli Stati contraenti si impegnano a fornire "tutta l'assistenza possibile in caso di incidente, avaria o atterraggio forzato sul territorio di un altro Stato contraente o di ammaraggio in alto mare" (art. 5), sancisce la responsabilità dello Stato di lancio per i danni causati da attività cosmiche svolte sia da Stati che da organizzazioni internazionali (con corresponsabilità dei loro Stati membri) e da enti privati sotto la "continua sorveglianza" dello Stato "appropriato" (artt. 6 e 7) e sottopone gli oggetti spaziali e il relativo equipaggio alla giurisdizione e al controllo dello Stato presso cui l'oggetto è registrato (art. 8).
In seguito sono stati conclusi numerosi altri accordi internazionali che completano e specificano il trattato del 27 gennaio 1967, ma la linea di continuità mostra una tendenza a rimanere sul vago e ad addossare agli Stati il minimo dei doveri possibili. Per esempio, l'Accordo regolante le attività degli Stati sulla luna e gli altri corpi celesti - firmato a New York il 5 dicembre 1979 - che definisce (art. 11, par. 1) il nostro satellite come "patrimonio comune dell'umanità", è stato ratificato da pochissimi Stati, fra i quali non figurano le maggiori Potenze spaziali: il timore era quello che il principio richiamato - che all'epoca stava per essere accolto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare con riguardo alle risorse dei fondali oceanici - obbligasse gli Stati dotati della necessaria tecnologia per raggiungere la luna e sfruttarne le eventuali risorse naturali a ripartire i proventi dello sfruttamento con gli altri Stati.

martedì 2 ottobre 2007

Birmania, la scoperta dell'acqua calda

Nell'ultima settimana la cosiddetta "comunità internazionale" si è improvvisamente accorta che qua e là per il mondo esistono dittature che opprimono il popolo dello Stato sotto il loro controllo. Hanno, insomma, scoperto l'acqua calda.

UN PO' DI STORIA - Indipendente dalla Gran Bretagna dal 1948, la Birmania è stata governata per oltre un quarto di secolo (1962-1988) dalla dittatura militare di stampo socialista del generale Ne Win. La "Via Birmana al Socialismo" di Ne Win passa attraverso l'accentramento del potere in un partito unico, la nazionalizzazione delle imprese e la soppressione della stampa indipendente. Il Paese sprofonda in una drammatica crisi economica e sociale e iniziano le rivolte delle guerriglie indipendentiste ai confini orientali.
Nel 1988 scoppiano le prime proteste popolari delle opposizioni e delle minoranze vittime della politica razzista del regime (dominato dalla popolazione maggioritaria birmana). La nuova giunta militare al potere, Consiglio per il Ripristino della Legge e dell'Ordine dello Stato (Slorc), reagisce uccidendo e arrestando migliaia di persone e ricorrendo sistematicamente alla tortura. Aung San Suu Kyi, leader del principale partito d'opposizione, la Lega Nazionale per la Democrazia (Nld) - e premio Nobel per la Pace nel 1991 - viene messa agli arresti domiciliari (vi resterà fino al 1995). Nell'89 i generali cambiano il nome della Birmania in Myanmar e della sua capitale Rangoon in Yangon. In seguito a una crescente pressione internazionale, i militari al potere consentono libere elezioni multipartitiche nel 1990. L'opposizione del Ndl ottiene una vittoria schiacciante, ma la giunta decide di annullare il voto e riprendere il potere.
Lo Slorc, capeggiato dal generale Saw Maung, impone la legge marziale, incarcera tutti gli oppositori politici e intensifica la persecuzione delle popolazioni karen e shan. Per combattere i loro movimenti indipendentisti che contendono a Yangon il controllo del Triangolo d'oro (le regioni di frontiera con Thailandia, Laos e Cina ricche di piantagioni d'oppio e crocevia del narcotraffico internazionale) la giunta scatena un vero e proprio genocidio, con massacri di civili e deportazioni di massa. Gli eserciti di Myanmar e Thailandia si scontrano sulle frontiere: Yangon accusa Bangkok di appoggiare le milizie secessioniste, e Bangkok rimprovera a Yangon di essere direttamente responsabile del massiccio traffico di droga verso il proprio territorio.
Nel 1997 la rinnovata pressione della comunità internazionale costringe la giunta militare ad alcune concessioni. Ma i cambiamenti promossi dal generale Than Shwe, succeduto nel '92 a Saw Maung, sono solo di facciata. Il Myanmar esce in parte dal suo isolamento internazionale entrando nell'Asean (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) e lo Slorc si rinomina Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (Spdc). L'obiettivo è quello di ottenere la fine delle sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti con le accuse al governo birmano di violazione dei diritti umani (molto interessante è una scheda di Amnesty international). La giunta continua di fatto a impedire l'attività politica dell'opposizione e San Suu Kyi, liberata nel '95, torna agli arresti domiciliari nel 2000.
All'inizio del nuovo millennio Myanmar sfiora la guerra con Thailandia e Bangladesh e perde il sostegno incondizionato della Cina. Bangkok e Pechino non vedono più di buon occhio le attività del Triangolo d'oro controllato da potenti signori della guerra e della droga e in cui si incrociano gli interessi dei governi e delle milizie di confine. La diplomazia prova a risolvere le controversie con una serie di visite illustri: a Yangon arrivano il primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra e il presidente cinese Jiang Zemin. Nel 2002 Myanmar ufficializza i rapporti con la Russia avviando un progetto comune di ricerca nucleare.
Nel giugno 2002 Suu Kyi, appena liberata, compie il suo primo viaggio in provincia. Ma dopo aver tentato invano d'instaurare un dialogo tra Nld e giunta, nel maggio 2003 viene nuovamente arrestata. Nel 2003 il presidente degli Stati Uniti George Bush rinnova le sanzioni economiche, i rapporti con la Thailandia restano tesi e l'Unione Europea non include il Myanmar tra i paesi a emergenza umanitaria.

GLI ULTIMI SVILUPPI - La cronaca di questi giorni è sotto gli occhi di tutti e, anche per questo motivo non è mia intenzione stare qui a ripercorrerla. Del resto ci sono siti come peacereporter che offrono informazioni in materia molto più dettagliate di quelle che posso fornire io.
Quello che, invece, mi interessa è cercare di convincere chi legge di queste cose che la giunta militare non ha certo fatto tutto da sola. Non dovrebbe, infatti, essere un mistero che la Birmania dopo la sua indipendenza si ritrova stretta in una morsa tra due giganti regionali come India e Cina. Se la protesta dell'88 soffocata in un immenso lago di sangue non fece e non ha fatto più notizia è perché ha fatto comodo così. Cina e India hanno, infatti, potuto fare il loro comodo acquistando oro, rubini, zaffiri, petrolio, sfruttando le immense foreste di tek (o teak) e circa 60 tipi di raccolti tra cui riso, grano e the: il Myanmar è uno scrigno di risorse con una popolazione rurale tra le più povere al mondo (cliccare sulla cartina - anche se un po' datata - per ingrandirla e vedere nel dettaglio le maggiori risorse presenti). Oggi, invece, i cinesi non sono affatto contenti e hanno fatto pressione sulla giunta affinché, per lo meno, non si vengano a sapere notizie certe sul bilancio e sulla fine dei morti. Motivo: alla vigilia delle olimpiadi Pechino non vuole di certo rovinare il clima dell'evento che porterà la Cina nell'ambito del palcoscenico globale.

IPOCRISIA - Anche dalla stampa occidentale non c'è poi da aspettarsi molto: ora che la notizia è 'calda' tutti ne parlano, ma fra qualche tempo è certo che non se ne saprà più niente, almeno per il grande pubblico e per chi non continuerà ad informarsi. Spuntano, così, sui giornali italiani articoli a dir poco ipocriti che, in un certo senso, sembrano semplicisticamente addossare un po' della colpa di quello che succede ai turisti che, viaggiando in Birmania, finanzierebbero di fatto la dittatura.
Personalmente, non credo che non andare in Birmania abbia molto senso. Certo gli introiti vanno alla giunta, ma sarebbe come far scendere quella povera gente nel dimenticatoio, dove tra l'altro si trovava anche prima dell' attuale e improvvisa scoperta del mondo di una situazione insostenibile. Credo, nonostante tutto, che il turismo (almeno un certo tipo di turismo) possa contribuire a fornire un minimo reddito anche a quella povera gente. Che, oltretutto, venendo a contatto con persone che vivono al di fuori della loro realtà, possono rendersi conto di come si vive in altre parti del mondo e, tramite questa via, acquisire maggiore consapevolezza sulla loro orribile condizione.
Io punterei piuttosto il dito contro i cinesi e gli indiani, contro multinazionali come Total e Unocal, su paesi come la Thailandia, Israele e la stessa Italia che rimpinguano la giunta di armi (alla faccia delle sanzioni), sugli affaristi della catena di gioielli Tiffany (che si sono subito preoccupati di far sapere al mondo che loro non comprano pietre preziose dalla Birmania - si certo...come in Angola, Namibia o Ruanda, ma chi ci crede?) o sui soliti stupidi presidenti Usa che comminano sanzioni economiche (Clinton '97 e Bush '03) credendo di mettere i militari in difficoltà. E, invece, contribuiscono soltanto ad uccidere quella povera gente. Certo, è apprezzabile sapere che ci sono visitatori scrupolosi che si informano su come evitare di dare i loro soldi ai dittatori, ma non siamo ipocriti: questi signori possono fare i loro interessi perché ci sono i furfanti su citati (qui una lista di ditte che fa affari con il regime) che traggono da loro immensi profitti. E permettono, di converso, anche al regime di farne. Molto più consistenti di quelli che la giunta riesce a realizzare con il turismo.

venerdì 28 settembre 2007

Hip Hop nostrano: comunicazione ed espressione del sociale

Tra le espressioni musicali nostrane, un posto d'onore lo occupa un giovane cantante Hip Hop di Ascoli Piceno, Kenzie Kenzei. Parole semplici e dirette sapientemente accompagnate da un ritmo accantivante perfino per chi, come me, non è un patito di questo genere. Una delle canzoni più belle di questo artista è sicuramente "In questa city": una sorta di urlo disperato per ciò che le piccole città di provincia non offrono ai loro giovani abitanti. Ma Kenzie ha trovato ugualmente il modo di ritagliarsi il suo mondo e di imprimere una nuova svolta generazionale. E ce ne ha fatti partecipi.



- MySpace di Kenzie Kenzei;
-
Fomenta a roppe (il demo scaricabile);
- Intervista a Kenzie Kenzei (su Ascoli da Vivere).

La politica ha già troppi 'grilli'

Il V-day di Beppe Grillo ha alzato un polverone che ancora non accenna a placarsi, rintuzzato dalle trasmissioni politiche dei salotti tv che ripropongono le immagini del live di Bologna dopo aver snobbato il fenomeno nei giorni prima e nel giorno stesso della manifestazione. Ho una personale simpatia per Grillo dovuta alle sue qualità di comico e condivido quello che dice e le battaglie che porta avanti. Il successo che ha avuto il V-day è figlio di una serie di caratteristiche: la notorietà di Grillo e la sua verve comica lo hanno reso un ottimo catalizzatore, spingendo le persone ad informarsi; la drammaticità del rapporto tra classe politica e società civile, ormai degenerato, ha costituito la base del consenso comune costruito l'8 settembre, un consenso trasversale proveniente dagli elettori di tutti gli schieramenti politici - anche se in maggioranza di sinistra; infine, la potenza di internet ha reso il tutto largamente fruibile ad un variegato pubblico e facilmente gestibile in termini di numeri da parte di chi coordinava la protesta.
Gli effetti li abbiamo visti tutti: panico. Poi Grillo è stato, ovviamente, messo alla gogna, fatto oggetto di una campagna diffamatoria per parole mai dette o concetti mai espressi e, addirittura, definito come un terrorista. Sono rimasto molto meravigliato dal fatto che non gli sia ancora stato affibbiato uno di quegli appellativi che vanno tanto di moda, come ad esempio "il nuovo ahmadinejad", colui che vuole cancellare i partiti dalla mappa istituzionale italiana.
L'elité politica l'ha presa male - non tollera che un mortale possa muovergli delle critiche - ma ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco e, infatti, sostazialmente tutti hanno ammesso di essere d'accordo con Grillo, pur non condividendo il suo linguaggio e il suo tono populistico. Puntualmente è arrivata la trappolina: le idee di Grillo sono giuste, ma se vuole attuarle deve scendere in politica, deve confrontarsi con le istanze che fanno capo ad i partiti. La politica ha insomma già strumentalizzato l'evento per mezzo di quella che è la sua stessa essenza. Se non puoi distruggerlo, fattelo amico, portalo sul tuo stesso terreno putrido in modo che diventi marcio a sua volta. Del resto, la politica annovera tra le sue fila già troppi 'grilli' che saltellano indisturbati da ormai troppo tempo tra una poltrona ed un'altra, aiutati dal vento che una volta tirà di là e una di qua.
Non so se Grillo deciderà di scendere nell'arena politica del paese. Senza dubbio, se starà al gioco ne verrà progressivamente plasmato e assimilato nei propri torbidi ingranaggi. Preferisco pensare che Grillo voglia portare avanti quello che si è dimostrato un ottimo strumento per incutere paura alla classe politica e spingerla ad un radicale cambiamento. Un gruppo di pressione che può giocare un ruolo fondamentale nella riappropriazione della democrazia da parte del popolo. Ma fuori dal potere politico, per l'interesse comune.

martedì 18 settembre 2007

Censura a stelle&strisce


Andrew Mayer, uno studente universitario di 21 anni, è stato arrestato e immobilizzato con una pistola laser (il Taser) durante un dibattito all'università della Florida, ieri 17 settembre. Motivo: usando il microfono che era stato messo a disposizione degli studenti, aveva iniziato a rivolgere una serie di domande al democratico Kerry, sconfitto da George W. Bush nel 2004 nella corsa alle presidenziali. Alcune anche scomode: "Perché non ha chiesto l'impeachment di Bush?", e ancora "Ha mai fatto parte della società segreta Skull & Bones?". Il filmato parla da solo e sta suscitando molte polemiche. "Ha usato il tempo massimo a disposizione, nonostante gli avessimo chiesto di terminare il suo intervento - ha dichiarato il portavoce dell'università Steve Orlando - Gli abbiamo dapprima tolto l'audio, poi ha iniziato a diventare nervoso". La stessa Università ha avviato un'indagine interna per cercare di capire se sono state seguite tutte le procedure del caso, in particolare riguardo all'uso del Taser. Prevista la mobilitazione e la protesta degli studenti, come annunciato dal sito di Mayer, per chiedere la sua liberazione immediata.

venerdì 14 settembre 2007

Maiale: quando Calderoli si guarda allo specchio

Calderoli lo conosciamo tutti. Sappiamo che è un mago di porcate. Dall'apostrofare Rula Jebreal (donna bellissima e valida giornalista) come "signora abbronzata", fino alla maglietta con le famose vignette su Muhammad (gesto che provocò 11 morti e 25 feriti al consolato italiano a Bengasi), passando per la legge elettorale (ministro proponente) da lui stesso poi definita "porcata". Quindi, non sorprende più di tanto che si inserisca nel difficile dibattito sulla costruzione di una nuova moschea a Bologna (sostituirebbe quella attuale) con l'idea del maiale-day: una bella passeggiata col suo maiale sul luogo dove la moschea dovrebbe essere costruita.
"A fronte dell'inversione di rotta dell'amministrazione comunale bolognese - ha detto Calderoli - che ha dato il via libera alla realizzazione di una nuova grande moschea, metto personalmente fin da subito a disposizione del comitato contro la moschea sia me stesso che il mio maiale per una passeggiata sul terreno dove si vorrebbe costruire la moschea". Non solo. Al maiale-day dovrebbero aggiungersi concorsi e mostre "per i maiali da passeggiata più belli da tenersi nei luoghi dove chiunque pensi di edificare non un centro di culto ma il potenziale centro di raccolta di una cellula terroristica". Calderoli, che ha dichiarato di voler aderire allo sciopero della pasta e che mangerà maiale per far dispetto agli islamici che seguono il Ramadan, ha la palese intenzione di ripetere quello che aveva fatto a Lodi dove il terreno venne considerato infetto e non piu' edificabile.
Si pone ora il problema di capire se Calderoli ha così tanta familiarità coi maiali perché tra i maiali ci vive o se è semplicemente avvezzo ad avere un porco al guinzaglio, come fosse un cane - è proprio vero che il cane è lo specchio del padrone! Comunque vada a finire, c'è da chiedersi se George Orwell nella "Fattoria degli animali" pensasse a Calderoli quando scriveva che ad un certo punto i maiali e gli uomini non si distinguevano più l'uno dall'altro.
Se così fosse, dovrebbe un po' di scuse ai maiali...

mercoledì 12 settembre 2007

L'altro 9/11: Santiago del Cile, 11 settembre 1973

L'11 settembre 1973 in Cile si verificò un colpo di stato da parte dell'esercito - con l'evidente aiuto americano - con il tentativo (riuscito) di rovesciare il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, che stava operando in modo egregio a vantaggio del popolo cileno, con una serie di riforme storiche - compresa la nazionalizzazione dell'industria del rame, a svantaggio delle companies - ma andava sempre più costituendo un fastidio per i vertici dell'impero. I quali - Nixon e Kissinger - non trovarono di meglio da fare che appoggiare un golpe sfociato in una ferrea dittatura lunga 17 anni, quella di tale Augusto Pinochet.
Ieri ho visto pagine e pagine dei nostri più importanti quotidiani dedicate all'11 settembre, ma nessuna riguardava quello cileno. L'unico accenno era del Manifesto che, in un minuscolo trafiletto, informava di tensioni create in Cile dalle manifestazioni in ricordo di quel giorno, per l'intenzione di sfilare fino alla statua di Allende alla Moneda (nella foto). La Bachelet ha comunque garantito che i manifestanti sarebbero potuti arrivare fino all'altro monumento dedicato ad Allende, in Plaza Independencia. Anche se non se ne parla, il fantasma di quell'uomo fa ancora una certa paura a 34 anni dalla sua morte.

PER APPROFONDIRE:

* Gabriel Garcia Marquez a informationguerrilla.org.
* scaricare da emule il documentario "Salvador Allende - storia di una democrazia negata".

9/11, il tremendo dubbio mondiale

L'11 settembre 2001 mi trovavo a Perugia (dove frequentavo l'università) in uno studio oculistico quale semplice accompagnatore della mia ex-ragazza (la paziente) quando una tv accesa nella sala d'aspetto mi fece apprendere quello che stava succedendo a New York. La prima reazione fu quella di pensare - se vogliamo anche un po' cinicamente - che dopo tante malefatte era logico attendersi una sorta di contrappasso. Reazione inevitabilmente mutata dal susseguirsi degli eventi che rendevano la situazione tragica. Le valutazioni nei giorni seguenti le ho dedicate a quali effetti avrebbe portato un simile avvenimento: probabili guerre e tensioni, crisi economica, aumento vertiginoso del petrolio, morti e ingiustizie di ogni genere. Tutti puntualmente verificatisi. Mai avrei, però, pensato di assistere ad un'erosione delle garanzie costituzionali in difesa dei cittadini come quella che sta avendo luogo negli ultimi anni, con misure coercitive sempre più pressanti e facilmente giustificabili agitando lo spettro del terrorismo. Lo stato d'emergenza giustifica la violazione del diritto: è questo l'effetto meno pubblicizzato del 9/11.
In questi giorni, come nei precedenti anni, infuria la polemica tra ufficialisti e complottisti, rispettivamente chi accetta e chi rifiuta la ricostruzione fatta dal governo USA. La lascio ad altri, come quella che coinvolge l'ultimo video di Bin Laden (vero o falso?). Preferisco concentrarmi su cosa poteva fare il governo statunitense dopo l'11 settembre: raccogliere la solidarietà del mondo e rispondere alla violenza subita non lasciando impuniti i colpevoli, ma lavorare per la riapertura di un dialogo civile con il mondo (quello arabo) che attentatori e mandanti pretendevano senza titolo di rappresentare. E così quella che doveva essere una rapida vendetta per sanare la ferita subita si è trasformata in ciò che non ha mai smesso di farla sanguinare.

lunedì 10 settembre 2007

Pax americana


fonte: il manifesto

venerdì 7 settembre 2007

La questione nucleare: 60 anni di (non) proliferazione

1. Dal punto di vista del diritto internazionale la questione nucleare è regolata dal Trattato di non proliferazione (TNP); firmato il 1° luglio 1968 con l’evidente obiettivo da parte delle due superpotenze di mantenere sotto controllo il rispettivo blocco, esso divideva, di fatto, il mondo in due: da una parte i paesi autorizzati ad avere l’atomica – quelli che avevano già fatto esplodere un ordigno di questo tipo in data anteriore al 1° gennaio 1967 [1], ai quali viene vietato di aiutare altri paesi a svilupparne – e dall’altra tutti gli altri, che, oltre a non potersene dotare, hanno l’obbligo di mettere tutte le loro istallazioni nucleari sotto il controllo dell’ Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Malgrado gli evidenti difetti e le notevoli carenze, il TNP ha funzionato abbastanza bene fino al crollo dell’ex-URSS - nonostante già molti paesi avessero sfruttato la mancanza di regolamentazione precedente ad esso per sviluppare un loro autonomo programma – ma non ha, purtroppo, ricevuto quell’applicazione integrale che avrebbe permesso la limitazione del numero degli Stati possessori di testate atomiche a cinque: se vi fosse stata la ricerca di un ampio consenso della comunità internazionale, infatti, si sarebbe forse potuto prevedere anche un meccanismo di verifica efficace e trasparente, realmente accettato da tutti.
Invece, l’organismo adibito a verificare il rispetto degli obblighi assunti dagli Stati firmatari, l’AIEA, ha dovuto lavorare, fin dall’inizio in condizioni piuttosto difficili e senza troppa autonomia. Gli ispettori possono, infatti, recarsi solo in quei paesi, già membri del trattato, che abbiano firmato (e ratificato) con l’Agenzia stessa un accordo particolare che precisa diritti e doveri. L’accesso ai diversi impianti da parte degli ispettori è poi limitato da numerose disposizioni amministrative: per esempio, devono prima sollecitare un visto il cui rilascio può richiedere tempi lunghi e solo in seguito sono autorizzati ad ispezionare uno stabilimento per un tempo minuziosamente calcolato, variabile a seconda della natura delle attività e della quantità di uranio o di plutonio presenti nel sito. È, poi importante sottolineare che tutte le regole alle quali gli ispettori devono sottostare sono state definite nel 1971, non dai funzionari dell’Agenzia, che avrebbero potuto precisare di cosa avevano bisogno per compiere la loro missione, ma dai rappresentanti degli Stati, in particolare da quelli dei paesi che all’epoca erano i più avanzati nel settore nucleare: conseguenza di ciò è stato il tentativo di limitare al massimo gli obblighi che i controlli avrebbero potuto comportare per le proprie nazioni. Così, il meccanismo di controllo è stato basato su quanto liberamente dichiarato da gli Stati: gli ispettori hanno accesso solo agli impianti dichiarati e il loro compito consiste nell’assicurarsi che tutti i materiali fissili entrati siano stati utilizzati per scopi pacifici, senza verificare l’esistenza di installazioni tenute in qualche modo nascoste.

2. I primi ad aver sviluppato la tecnologia necessaria alla costruzione di una testata atomica (ed anche i primi e gli unici ad averne fatto un uso offensivo) sono stati gli Stati Uniti, il cui programma risale agli inizi degli anni Quaranta. In questa prima fase si preferì non diffondere informazioni per evitare che anche la Germania nazista potesse raggiungere un livello tecnologico sufficiente; dopo il 1945, al contrario, venne inaugurata la cosiddetta politica degli “atomi per la pace”: se la ricerca atomica era usata per scopi pacifici, gli USA avrebbero fornito ai paesi interessati il know-how necessario, a patto poi che essi fossero stati capaci di sviluppare i propri programmi in maniera autonoma. L’avvenimento che fece comprendere a tutti la gravità di questo errore fu rappresentato dalla crisi di Cuba del 1962: l’essere andati così vicini ad uno scontro nucleare fece capire che il sistema della reciproca deterrenza non poteva da solo garantire la sicurezza mondiale. I primi passi furono sicuramente difficili se si pensa che il trattato entrò in vigore solo nel 1970 [2] grazie a paesi quali Irlanda, Danimarca, Canada, Svezia e Messico – che vedevano nel TNP lo strumento per ridurre il rischio di proliferazione nucleare indiscriminata – o a quelli che pensavano che non avrebbero mai potuto sviluppare un loro programma autonomo – tra cui Iraq, Iran e Siria, tra i primi a firmare. Tra gli Stati ad opporre un’iniziale resistenza è da menzionare anche l’Italia, che ratificherà il Trattato solo nel 1979 – quando il numero dei paesi sottoscrittori aveva ormai superato le cento unità - insieme agli accordi che avrebbero permesso l’istallazione di basi e di missili americani, famosi perché non passati, come la Costituzione imporrebbe, all’esame del Parlamento.
Nello stesso ambito del TNP, e seguendo lo spirito prodotto dalla cosiddetta distenzione, si colloca la prima fase delle trattative tra Usa e Urss per la limitazione delle armi strategiche (Strategic Arms Limitation Talks – SALT), processo che, al di là della carta, non porterà a risultati accettabili. Il SALT I si concluse nel 1972 con la firma di due distinti accordi: il primo riguardava i missili antimissile, il secondo fissava il numero dei vettori consentiti a quelli già esistenti e in possesso delle due superpotenze, senza distinguere tra quelli installati a terra, sulle navi o nei sottomarini. Con l’accordo SALT II del 1979 venne ulteriormente abbassato il limite al numero dei vettori e decisa la distruzione di quelli in eccedenza, senza peraltro che nessun organismo internazionale vi presenziasse - e quindi fosse in grado accertare l’avvenuta distruzione.
Nel 1982, dopo una fase di stallo nelle trattative, Ronald Reagan avanzò la proposta di un accordo (Strategic Arms Reduction Talks – START) che avrebbe dovuto ridurre il numero di armi installate nelle basi terrestri, un settore dell’armamento missilistico in cui i sovietici avevano raggiunto una certa superiorità. Solo nel dicembre 1987, però, vi fu un’accelerazione dei colloqui grazie al vertice Reagan-Gorbaciov, dal quale scaturì la firma di un trattato sul dimezzamento delle armi offensive a medio raggio, cosa che denotava come i tempi non fossero ancora perfettamente maturi. Bisognerà, infatti, aspettare il luglio 1991 con il vertice Bush Sr.-Gorbaciov per la firma dello START I, accordo che prevedeva la distruzione del 25% degli arsenali nucleari di Usa e Urss, e il 1993 per lo START II, firmato dallo stesso Bush Sr. e da Boris Eltsin, contenente l’obiettivo della distruzione di tre quarti delle armi nucleari possedute non solo dalle due potenze, ma anche dall’Ucraina, dalla Bielorussia e dal Kazakistan.

3. Nel 2003 il TNP è arrivato a contare 189 membri [3]. Tra di essi non figurano India, Pakistan e Israele i quali si sono sempre rifiutati di aderire e non hanno accettato neanche il TICE, il Trattato di proibizione totale delle sperimentazioni nucleari, fortemente voluto dagli Stati Uniti a metà anni Novanta come completamento del TNP stesso: i primi due hanno fatto esplodere i loro primi ordigni nel 1998 e continuano con la produzione di materiale a tal uso, mentre Israele, pur non avendo mai effettuato esperimenti, è accreditata dai maggiori analisti di 200 testate atomiche. L’Argentina e il Brasile avevano promosso, negli anni Settanta e Ottanta, dei programmi di ricerca con obiettivi chiaramente militari, non venendo per questo in contraddizione con i loro obblighi internazionali, dal momento che all’epoca non avevano ancora firmato il Trattato di non proliferazione. Entrambi abbandonarono i progetti militari alla fine degli anni Novanta e aderirono al TNP, rispettivamente nel 1995 e nel 1998: vi rinunciarono non perché la loro sicurezza esterna fosse meglio garantita che nel passato, ma perché un regime democratico aveva sostituito le dittature militari al potere. Simile il percorso del Sudafrica che negli stessi anni fabbricò, in modo del tutto lecito e senza che l’AIEA potesse intervenire, una mezza dozzina di ordigni nucleari, poi smantellati nel 1991, poco prima di abbandonare il regime di apartheid e di aderire al Tnp.
Accanto a ciò avviene, però, che nazioni come Germania e Giappone, pur non disponendo di testate atomiche o di specifici programmi nucleari di stampo militare, hanno accumulato negli anni enormi quantitativi di uranio e plutonio, tanto da riuscire potenzialmente ad assemblare ordigni in pochissimo tempo. La presenza a Tokyo di un governo decisamente nazionalista e di una diversa opinione pubblica nel paese del Sol Levante ha già fatto sentire i suoi primi effetti, con l’intenzione ventilata dal premier Shinzo Abe di una riforma in senso militarista della Costituzione del 1947.

4. Nonostante alcuni successi, paradossalmente, il TNP ha ricevuto il colpo di grazia proprio in occasione della Conferenza (1995) che decise di mantenerlo in vigore, sostanzialmente fallita a causa degli Stati Uniti e delle altre potenze. Da quasi quarant’anni, infatti, i cinque Stati del ‘club nucleare’, non a caso anche i primi esportatori mondiali di armi convenzionali, si guardano bene dall’incoraggiare un disarmo generale e lamentano i mancati progressi – dovuti ovviamente al comportamento di altri - per ignorare cinicamente gli impegni da loro assunti: gli Stati Uniti parlano regolarmente di produrre nuovi ordigni nucleari. Di più: le armi nucleari non costituiscono più una categoria separata dell’arsenale americano, ma sono integrate nell’insieme delle armi offensive, utilizzabili allo stesso titolo di qualsiasi altra arma, ed è già stato avviato il reclutamento di una nuova generazione di specialisti nel settore delle armi per rimpiazzare quella che andrà in pensione, la sostituzione dei missili intercontinentali nel 2020, dei sottomarini nel 2030, e dei bombardieri nel 2040. Il che sta ad indicare che l’armamento americano è concepito per una durata indefinita e in ogni caso fino alla fine del secolo.
La politica di non proliferazione è stata profondamente indebolita, quindi, proprio dalla grande ipocrisia con cui i cinque Stati dotati di armi nucleari ignorano i loro obblighi di disarmo: conservando oggi arsenali così ricchi, essi di fatto incoraggiano gli altri paesi ad imitarli. La disaffezione all’idea di non proliferazione si è manifestata, del resto, in maniera clamorosa nel corso della Conferenza di revisione del trattato, nel giugno 2005: invece di manifestare unanime riprovazione contro chi inganna, gli Stati partecipanti si sono lasciati senza aver trovato neanche un minimo accordo, a testimonianza di un mondo diviso, disilluso, disorientato. Più alto è il numero dei paesi che dispongono di armi nucleari, più grande è il rischio che siano usate deliberatamente, non per dissuadere, ma per annientare, o che, per errore, si scateni un conflitto, o che un paese bombardi a scopo preventivo le installazioni dei suoi avversari, o ancora che armi o materiali fissili cadano in mano a gruppi criminali: la proliferazione nucleare è dunque uno dei pericoli più seri per il futuro dell’umanità.

5. La questione nucleare, prepotentemente tornata alla ribalta negli ultimi due anni e aggravata dalla minaccia del terrorismo internazionale, è molto complessa e deve necessariamente essere analizzata nei singoli scenari in cui essa si colloca. Quale dovrebbe essere, per esempio, la risposta di paesi come l’Iran e la Corea del Nord, inseriti – a torto o a ragione – nel cosiddetto ‘asse del male’ elaborato dall’amministrazione Bush? Memori di ciò che è accaduto all’Afganistan dei taliban e all’Iraq di Saddam (regimi sicuramente spregevoli, ma ugualmente spalleggiati a suo tempo dalla Casa Bianca e dalla CIA) non è forse una reazione scontata e per lo più pragmatica quella di dotarsi di un’arma atomica come deterrente verso possibili azioni militari? Se per la Corea del Nord il nucleare sembra assumere il carattere di ultimo rigurgito di un regime ormai entrato nella sua fase di inesorabile declino, tanto che gli esperimenti dello scorso anno hanno ricevuto aspre critiche perfino dagli alleati cinesi, per l’Iran la questione ha un significato molto più articolato. Senza ombra di dubbio il regime degli Ayatollah ha quale obiettivo ultimo quello di dotarsi dell’arma atomica: il sentimento di forte nazionalismo da sempre presente nella cultura persiana, la recente ascesa degli sciiti in tutto il mondo arabo – specchio del disastroso intervento compiuto dagli Usa in Iraq, paese a maggioranza sciita e per molti anni governato dalla minoranza sunnita – e il senso di accerchiamento imposto dalle truppe a stelle e strisce alla Repubblica Islamica hanno favorito una rapida escalation.
È del tutto ovvio che possedere la tecnologia sufficiente alla costruzione di testate atomiche, in combinazione all’enorme influenza di cui godono gli sciiti iraniani in Iraq - oltre che in Libano e sulle minoranze delle petro-monarchie del Golfo, Arabia Saudita in testa - collocherebbe l’Iran in una posizione di assoluto dominio nell’area del cosiddetto Greater Middle East. Senza contare che le pur denigrabili esternazioni antisioniste del Presidente Ahmadi-Nejad hanno fruttato all’ex sindaco di Teheran una crescente popolarità nel mondo musulmano, il che ha contribuito ad accrescere la visione degli sciiti quale unica forza in grado di resistere all’occupazione straniera, di contro al comportamento ‘collaborazionista’ della parte sunnita. Ciò è stato in particolare evidente nel conflitto libanese: Nasrallah è dipinto come il nuovo ‘saladino’ e Hizbollah – de facto pedina iraniana - ha ampliato il suo consenso popolare rispetto ad un governo di marca sunnita che, agli occhi del mondo arabo, non è stato in grado di difendere il paese da un’aggressione esterna. Al di là del ruolo strumentale rivestito dal Partito di Dio per gli interessi iraniani, è con la partita nucleare che si giocano gli equilibri su due dei teatri geopolitici più strategici dei prossimi decenni: sarà probabilmente la conclusione delle crisi nord-coreana e iraniana, se non proprio a mettere la parola fine, a delineare, per lo meno, lo scenario futuro. O, forse, no.

6. Per la Corea del Nord il paventare il possesso di armi nucleari rappresenta il tentativo di tenere in piedi il regime, camuffando la pesante crisi economica, e non costituisce, in realtà, il benché minimo pericolo per nessuno - e del resto è proprio degli ultimi giorni la notizia che Pyongyang ha definitivamente rinunciato al proprio programma. L'Iran - che forse potrebbe anche possedere tecnologia nucleare di basso livello, ma avrebbe bisogno di anni prima di riuscire a mettere in piedi almeno un progetto che possa definirsi serio - dal canto suo non sarebbe mai in grado di attaccare Israele con armi nucleari, dal momento che poi dovrebbe sopportare pesantissime ritorsioni: avere nel proprio arsenale una decina di testate nucleari significherebbe avere un potere di dissuasione contro attacchi dall'esterno, ma mai permetterebbe un first strike.
Ecco allora che il pericolo più grave per un' escalation della proliferazione degli armamenti può venire dall'insensata idea di piazzare missili intercettori in Polonia e radar nella Repubblica Ceca - da estendere ad Ucraina, Georgia (ricordate le rivoluzioni "arancione" e "delle rose"?) e anche all'Italia - nell'ambito del cosiddetto scudo spaziale. Cosa che ha destato - non a torto, aggiungerei - furibonde ire da parte del Cremlino. Putin ha immediatamente reagito prima con mosse dal vago sapore diplomatico - in sostanza se lo scudo non è uno strumento di offesa verso il suo paese, ma solo di difesa verso presunti attacchi iraniani, perché non piazzare i missili sul Caucaso invece che davanti alla Russia e in paesi ex-patto di Varsavia, ora neo-Nato? - e poi uscendo dai trattati ABM. I non sprovveduti, infatti, sanno benissimo che tale scudo non è altro che il tentativo da parte americana di garantirsi la possibilità di poter effettuare un attacco per primi e non certo quello di difendersi da improbabili - se non inesistenti - minacce altrui.

Note:

[1]
L’URSS fece esplodere la sua prima bomba A nel 1949 e la sua prima bomba H nel 1953; la Gran Bretagna ha sperimentato il suo primo ordigno a fissione nel 1952 e la sua prima bomba a fusione nel 1957; le date per la Cina sono rispettivamente il 1964 e il 1967; la Francia (1960 e 1968) fornì inoltre nel 1956 ad Israele il reattore e l’impianto di ritrattamento di Dimona, mentre il Canada, che non ha mai fatto esplodere ordigni, ha venduto all’India nel 1955 il reattore ad acqua pesante con il quale è stato prodotto il plutonio necessario alla costruzione della sua prima bomba. In riferimento alla cronologia della prima esplosione si hanno nell’ordine USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina; contrariamente, però, ad un’idea molto diffusa, non c’è alcun legame tra lo status di Membro Permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e quello di Stato facente parte del “club atomico”: i Membri Permanenti sono i vincitori della seconda guerra mondiale, mentre gli Stati autorizzati ad avere armi nucleari sono quelli che possedevano la bomba alla data di stipulazione del TNP.
[2] Il testo del Trattato condiziona la sua entrata in vigore alla firma e alla ratifica di almeno 40 Stati.
[3] La cifra va corretta a 188 se si considera che proprio nel 2003 la Corea del Nord ha deciso di ritirarsi dal Trattato; ad ogni modo gli altri paesi ritengono che il ritiro non sia accettabile, in quanto non conforme alle condizioni previste dal Trattato stesso per il recesso.

giovedì 30 agosto 2007

Imbarazzo






*si ringrazia Marco Viviani

mercoledì 22 agosto 2007

La sfrontata ipocrisia del cardinal Bertone

All'ipocrisia non c'è mai fine. Anzi, alcune volte supera limiti che pensavamo invalicabili. Perché un conto è fare finta di niente quando si sa di tenere un comportamento sbagliato, un conto è elevarsi a paladini della giustizia universale sapendo di predicare bene e razzolare male. E il palco non poteva che essere il meeting di CL, da sempre fucina di ipocrisia. E' il caso delle parole del cardinal Bertone, segretario di stato vaticano, il quale ci ha ricordato che tutti devono pagare le tasse, secondo leggi giuste nel destinare i proventi di esse a opere giuste e all'aiuto ai più poveri e ai più deboli, affermando come anche il Vangelo indichi di "dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" e citando il Salmo 71 - che a suo avviso dovrebbe essere il programma del politico cristiano: rendere giustizia ai poveri e salvare la vita ai miseri. Proprio quello che hanno sempre fatto...e, infatti, i proventi delle tasse devono essere dati a loro - che fanno opere giuste e di aiuto ai poveri, come sfrattare le pensionate dai loro immobili per affittarli a prezzi migliori - senza contare che poi loro le tasse non le pagano. Come l’esenzione per gli immobili Ici, gli sconti Ires per le attività, o il particolare trattamento che viene riservato ai dipendenti del Vaticano che non sono soggetti all’imposizione Irpef.
Senza contare
ipotesi peggiori in cui è coinvolto lo IOR (Istituto per le Opere di Religione) ossia la banca vaticana. Forse Bertone, Tonini e co. considerano la loro banca (trasformata nel 1942 da Pio XII in banca con scopi di lucro, dotata di personalità giuridica propria) ancora come un gruppo di missionari?
Cosa dire del crack del Banco Ambrosiano all'epoca della presidenza di Roberto Calvi (creatore di un impero con decine di società finanziarie in paradisi fiscali e invischiato in un pericoloso gioco di finanziamenti internazionali a realtà politiche ed economiche al limite della legalità) poi morto in circostanze a dir poco misteriose il 17 giugno 1982 ? Ai tempi della gestione di Roberto Calvi, il maggiore azionista del Banco era, appunto, lo IOR e nei processi ancora in corso si presume che esso ne fosse in realtà il diretto controllore, tanto da portare Roberto Calvi in un processo a dichiarare che "il Banco Ambrosiano non è più mio da tempo" (tre anni prima della sua morte). [QUI UNO SPECIALE SULLE ATTIVITA' DELLO IOR SUCCEDUTESI NEL TEMPO]
E la misteriosa sparizione di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia il 22 giugno 1983 all'età di 15 anni? Uno dei casi più oscuri della storia italiana che coinvolse Vaticano, IOR, Banda della Magliana, Banco Ambrosiano e servizi segreti di diversi stati, in un intreccio che non è ancora stato districato. E mai lo sarà.

martedì 31 luglio 2007

Immunità penale "su misura": le basi della seconda Repubblica

QUANDO INDAGANO SUI POLITICI SONO SEMPRE SOTTO ACCUSA

Massimo Fini - Il gazzettino 27/07/2007

È la solita storia. Da noi appena c'è un'indagine su un politico, immediatamente si apre un'inchiesta sul magistrato che l'ha iniziata. È il nuovo Codice di procedura penale italiano. Che non esiste in nessun altro Paese del mondo, civile o incivile, perché in questo modo è impossibile amministrare la giustizia. È una storia che parte nel 1994 dopo che la magistratura osò, per la prima volta, richiamare anche la classe dirigente a quel rispetto della legge cui tutti siamo tenuti. Questa volta, poiché ci sono di mezzo dei pezzi grossi dei Ds, contro il Gip Forleo si sono mossi il Guardasigilli, il Pg della Cassazione, il Capo dello Stato, i presidenti delle Camere, il presidente del Consiglio e, bipartisan, buona parte della classe politica, la sinistra (con l'eccezione di Di Pietro e Furio Colombo) che deve difendere i suoi, la destra (con l'eccezione di An e Udc) che non può rinnegare un decennio di devastante campagna di delegittimazione della Magistratura in difesa, soprattutto, di Berlusconi.Dalle confusissime motivazioni con cui Mastella ha richiesto, a fini disciplinari, le due ordinanze con cui la Forleo chiede al Parlamento l'autorizzazione a utilizzare le intercettazioni di D'Alema, Latorre, Fassino, in quanto nei loro confronti sono ipotizzabili dei reati, l'unica cosa che si capisce è che il Guardasigilli accusa il Gip di aver esorbitato dalle sue funzioni perché ha avanzato richieste che i Pm non avevano fatto. Ma chi ha messo nel cervellino di Mastella una sciocchezza del genere? Anche se in genere avviene il contrario, infinite volte è successo che il giudice riformi «in pejus» le richieste della Pubblica accusa. E, nel caso specifico, il Gip è un giudice delle indagini preliminari ed è in suo potere elevare imputazioni a soggetti che i Pm hanno trascurato.Ancor più grave, se possibile, l'intervento del Capo dello Stato. Nella forma e nella sostanza. Non è suo compito, nemmeno come presidente del Csm, sindacare singoli atti di singoli magistrati. Napolitano, pur non nominandolo, ha richiamato la Forleo «a non inserire in atti processuali valutazioni e riferimenti non pertinenti». Ma se il Gip chiede l'autorizzazione ad utilizzare le intercettazioni è ovvio che debba motivarla ed entrare nel merito. Non si tratta di nessuna «sentenza» anticipata ma solo di un passaggio del processo che sarà poi verificato da altri giudici.Poi c'è stata la difesa bipartisan di casta e l'aggressione politica alla Forleo e alla Magistratura. Prodi ha manifestato «solidarietà e sostegno» a D'Alema e Fassino. Il Presidente del Consiglio non può manifestare «solidarietà e sostegno» a degli indagati (perché non lo fà allora, in nome della presunzione di innocenza cui si è appellato, per Corona?). Si sono sentite cose inaudite. Il coordinatore di Forza Italia, Sandro Bondi, preannunciando il voto favorevole del suo partito a ripristinare «in toto» l'immunità parlamentare, ha affermato: «Bisogna distinguere sempre fra l'uso politico della giustizia e le indagini di magistrati indipendenti e scrupolosi». E chi è che decide se un magistrato è indipendente? Sandro Bondi? E se ogni volta che viene indagato un politico si accusa il magistrato di «uso politico della giustizia», com'è sempre avvenuto in questi anni, poiché da questo processo alle intenzioni è impossibile difendersi tanto varrebbe dire che gli uomini politici non sono indagabili. Lo stesso vale per l'altro specioso argomento per cui quando un magistrato indaga un politico o un vip è «per farsi pubblicità». Fabrizio Cicchitto, Fi, ha definito i magistrati «mostri incontrollabili» creati dalla sinistra, perché a suo tempo ebbero il torto di indagare il corrottissimo partito cui allora apparteneva, il Psi.Stiamo retrocedendo a Paese feudale. I nobili non lavoravano, non pagavano le tasse e avevano un diritto diverso da quello del Terzo Stato. Costoro non lavorano, non pagano le tasse su una parte enorme (100 mila euro l'anno) dei loro emolumenti, sono colmi di privilegi e, dopo lo choc del 1992-94, si sono precostituiti, di fatto, l'immunità penale come nemmeno durante la Prima Repubblica si era osato fare. Per molto meno si sono fatte rivoluzioni.

martedì 19 giugno 2007

Questioni irrisolte

Il tempo passa, nessuno ne parla, tutti dimenticano e alcune questioni rimangono irrisolte. I processi 'Calipari' e 'Abu Omar' sembrano fin dal loro inizio avviati verso una fine scontata - che non prevede colpevoli - e i media nazionali omettono di dare informazioni all'opinione pubblica. Se nessuno sa, del resto, è più facile produrre l'effetto desiderato. Dal canto suo, il governo - alle prese con l'inconsistenza e l'incapacità che sembra avere iscritte nel suo Dna - ha scelto di inchinarsi ai diktat d'oltreoceano e, nel caso Omar, ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale appellandosi al segreto di stato per bloccare i magistrati di Milano. Insomma, alcuni degli interessi dello stato sono stati lesi e noi stiamo zitti.

TIRATECI FUORI -
Nel caso Calipari si sta assistendo al tentativo da parte del Dipartimento alla difesa americano di accreditare e imporre una propria interpretazione delle leggi italiane, con l'evidente scopo di sottrarsi al processo di Roma: in sostanza, l'impossibilità per il ministero Usa di essere coinvolto in un processo di un altro stato deriverebbe - secondo le parole di Washington - dal fatto che gli Stati uniti sono una nazione sovrana. Non si capisce, però, perchè non dovremmo esserlo anche noi...
Ma torniamo indietro. All'inizio del processo, Giuliana Sgrena indicò di voler tirare in ballo l'amministrazione americana per il pagamento dei danni: il gup accettò la richiesta e l'atto di citazione - giunto a Washington il 13 giugno - è pienamente valido. Il nostro codice di procedura penale non pone l'obbligo di partecipazione al processo per il responsabile civile che viene citato e, quindi, nel caso di specie, il Dipartimento alla difesa può prendervi parte, può chiedere di esserne escluso (presentandosi almeno ad un'udienza) o può - come è probabile in questo caso, visto che per loro questo processo non esiste nemmeno - non presentarsi per niente.
E' chiaro, però, che se non si presenta il processo prosegue normalmente e in virtù di una sentenza definitiva (arriverà mai?) produce ugualmente i suoi effetti. Staremo a vedere l'opinione del tribunale all'udienza del 10 luglio.

SEGRETO DI STATO -
Appellandosi al segreto di stato il governo ha raggiunto l'obiettivo della sospensione del processo per il sequestro di Abu Omar, che vede imputato l'ex direttore del SISMI Nicolò Pollari insieme ad altre 33 persone, 26 delle quali sono agenti Cia. In attesa della decisioni sul conflitto di competenza tra Stato e Procura
, quindi, il processo è sospeso fino al 24 ottobre.
Per il giudice Magi è stata una scelta "discrezionale, ma necessaria", dal momento che la decisione della Corte potrebbe avere rilevanza e compromettere il processo. La non sospensione, inoltre, avrebbe potuto gettare ulteriore benzina sul fuoco delle polemiche. Se la Consulta dovesse accogliere il ricorso, molti degli elementi probatori su cui si basa il rinvio a giudizio (intercettazioni, verbali degli interrogatori, documenti sequestrati) non sarebbero più utilizzabili e tutto sarebbe annullato.
La scelta di sospendere il processo è sembrata impeccabile sotto il profilo tecnico-giuridico, ma non serve a nascondere le imperfezioni del sistema: nel caso in cui la Consulta rigettasse il ricorso, infatti, nulla impedirebbe al governo di presentarne un altro. Che vorrebbe dire sospensione ulteriore.

HANEFI LIBERO -
La bella notizia viene, invece, dall'Afghanistan e riguarda la liberazione (finalmente) di Ramatullah Hanefi. La vicenda meriterebbe ampio spazio e non può essere questa la sede di discussione (invito in ogni caso a ripassare un po' la cronologia degli avvenimenti dal sito di Peacereporter). Una domanda nasce, però, spontanea: era proprio necessario privare un individuo per 3 mesi della sua inviolabile libertà - senza accuse provate e tali da giustificare un simile trattamento - torturarlo, ridurlo in uno stato inumano, senza le più elementari garanzie e poi liberarlo (come era prevedibile con un po' di buon senso) perché gli elementi raccolti sono a dir poco solo indiziari e difficilmente sostenibili?
Anche per questa vicenda, però, sarà necessario aspettare i futuri sviluppi.

sabato 16 giugno 2007

Bandire le cluster bombs

clicca qui per firmare la petizione


Le bombe a grappolo (cluster bombs) sono armi da guerra che uccidono e feriscono migliaia di civili innocenti, sia al momento del loro utilizzo che nei mesi ed anni successivi, a causa della contaminazione da ordigni inesplosi che lasciano dietro di sé . Il loro uso continua a sfidare principi consolidati del diritto internazionale umanitario. Per i loro effetti indiscriminati, una volta rimaste inesplose sul terreno, le sub-munizioni rilasciate dalle cluster bombs sono assimilabili alle mine antipersona.
I problemi sollevati dall’uso delle munizioni cluster sono molteplici. Innanzitutto, data la loro natura di “armi d’area” in grado di disseminare submunizioni su vaste aree, rendono particolarmente problematico, se utilizzate in prossimità di aree abitate da civili, il puntamento su obiettivi di natura esclusivamente militare, rendendo così indiscriminati i loro effetti immediati, in palese violazione dell
’Art. 51 del I protocollo della Convenzione di Ginevra.
Una cluster bomb non esplosa mantiene la sua potenzialità letale praticamente all’infinito e diventa molto più pericolosa di una mina antipersona in quanto può esplodere alla minima sollecitazione anche casuale con effetti letali 3 volte superiori a quelli della più potente mina ad azione estesa ad oggi conosciuta. Inoltre non è un dato irrilevante che, come confermano i dati provenienti da zone di conflitto, vengano utilizzate indiscriminatamente anche in aree abitate,o nelle loro immediate vicinanze e che la conseguente contaminazione rallenti la fase di ricostruzione post-conflitto, la coltivazione dei campi, l’accesso ai pascoli, ai pozzi e renda mortalmente insicure strade, scuole ed abitazioni.
Nell’ultimo conflitto nel sud del Libano il 60% delle cluster bombs è stato lanciato nelle immediate vicinanze di centri abitati o villaggi – guarda caso nell’ultimo giorno di guerra. (fonte: Foreseeable harm. The use and impact of cluster munitions in Lebanon: 2006 – Landmine Action – UK). Sempre nello stesso conflitto, la stima del numero delle munizioni inesplose, come segnalato dal Mine Action Coordination Center delle Nazioni Unite nel sud del Libano superava verosimilmente il milione di ordigni.


I paesi che hanno in uso questi ordigni sono 15: Arabia Saudita, Bosnia Erzegovina, Eritrea, Etiopia, Finlandia, Francia, Israele, Nigeria, Olanda, Pakistan Regno Unito, Serbia, Stati Uniti, Sudan, Turchia.
I paesi contaminati dalle cluster bombs sono 22: Afghanistan, Albania, Arabia Saudita, Bosnia Erzegovina, Cambogia, Chad, Croazia, Eritrea, Etiopia, Iraq, Kuwait, Laos, Libano, Pakistan, Russia, Serbia, Montenegro, Sierra Leone, Sudan, Siria, Tajikistan, Vietnam.
Territori contaminati dalle cluster munitions: Cecenia e Kosovo.

I paesi che producono munizioni cluster sono 32 e tra questi vi è anche l’Italia con la Simmel Difesa di Colleferro (Roma). Il nostro paese inoltre è tra i 70 paesi detentori di stock di cluster bombs.

lunedì 11 giugno 2007

Se Israele si ostina a vivere la vita degli altri

Akiva Eldar, analista israeliano. L'articolo è tratto dal quotidiano Haaretz.

Esattamente quarant'anni fa è scattato l'ultimo giorno in cui i cittadini di Israele sono stati un popolo libero nella propria terra. Dopo quel giorno, abbiamo cominciato a pagare il prezzo di vivere la vita degli altri. Il regista tedesco Florian Henckel von Donnersmarck ha recentemente esplorato quel prezzo nel suo acclamato film «La vita degli altri» sul modus operandi della Stasi - la polizia segreta della Germania Est comunista.
La minaccia che è piombata su Israele il 4 giugno 1967 riguarda la sua stessa sopravvivenza. Ha cancellato dalle nostre coscienze l'idea che le nostre vite qui erano diverse. Quattro decadi di furtiva annessione e 20 anni di conflitto violento hanno contribuito a questa amnesia. Così, la nostra vittoria sul campo di battaglia - che doveva rendere le nostre vite migliori e più sicure - sta rendendo sia le nostre vite che quelle degli altri miserabili. Il 1966 aveva visto un capitolo importante nella breve storia di Israele. A dicembre, il governo di Levi Eshkol abolì la legge militare, che era praticata in Israele sulla base dei regolamenti del mandato britannico. Così facendo, il governo eliminò il principale ostacolo che impediva alla popolazione araba di Israele di condurre una vita normale. Sei mesi dopo, lo stesso governo decise di rendere indistinta la «linea verde», sfumando la differenza tra Israele e i territori di recente conquista. Di conseguenza, molti ebrei cominciano a considerare gli arabi di città come Baka al-Garbiyeh dalla parte israeliana della Linea verde più o meno come gli arabi di Baka al-Sharkiyeh, che erano dalla parte giordana. Ferite appena rimarginate furono riparte, e un incipiente sentimento di identità cominciò a frammentarsi.
Il bisogno di esercitare l'autorità sulla corposa popolazione dei territori costrinse il governo a rimettere in vigore la legge militare che aveva appena abolito. Il professor Yeshayahu Leibowitz non ebbe bisogno di 40 anni per capire che questo avrebbe trasformato Israele in uno stato di polizia e le Forze di difesa israeliane in un «esercito d'occupazione». Già nella primavera del 1968, aveva messo in guardia contro gli effetti dell'occupazione sull'educazione, la libertà di parola e di opinione e sulla natura democratica del governo. Leibowitz predisse che la corruzione tipica di ogni regime colonialista non avrebbe risparmiato Israele. Mise anche in guardia contro il collasso delle strutture sociali e la corruzione dell'uomo - tanto arabo che ebreo.
Ma neanche la profezia dell'apocalisse di Leibowitz potè prevedere la corruzione di valori determinata dall'impresa colonizzatrice e dall'estensione dei regolamenti di apartheid che avrebbero permesso e incoraggiato il furto di terre. Nessuno avrebbe potuto prevedere quanto tale impresa avrebbe danneggiato la coesione interna di Israele, né quanto avrebbe compromesso la reputazione di Israele agli occhi del mondo libero.
Nel giugno 1967, la piccola Gerusalemme ospitava 13 ambasciate straniere. Dopo l'approvazione della legge fondamentale su Gerusalemme capitale d'Israele, nel 1980, la città venne privata di tutte le sue ambasciate. È stato detto che i territori palestinesi ampliavano i margini di sicurezza della «piccola» Israele. Pochi ricordano che, alla metà degli anni '60, molti mesi prima che scoppiasse la guerra, il governo decise di ridurre il servizio militare obbligatorio di due mesi. Pochissimi soldati beneficiarono di questa riduzione perché i problemi di sicurezza provocati dall'occupazione costrinsero poi il governo a innalzare il servizio militare di 14 mesi - facendolo arrivare a tre anni.
Ma non è tutto. Durante la seconda guerra del Libano, i cittadini di Israele hanno pagato un caro prezzo per le ridotte capacità operative dell'esercito israeliano, conseguenza dell'uso dell'esercito come forza di polizia nei territori che Israele aveva conquistato nel giugno 1967 - fra cui il compito di vigilare sulle proprietà dei ladri di terra ebrei.È vero che in alcuni periodi l'altra parte non voleva discutere di nulla, nemmeno dei confini del 4 giugno 1967. Ma oggi, i 22 stati membri della Lega araba dichiarano che considerano questi confini una base per la pace - un risultato su cui nessuno avrebbe scommesso 40 anni fa. E così Israele sta perdendo l'opportunità di trasformare la sua vittoria militare nel più grande risultato di sempre. Sta perdendo la guerra d'indipendenza dal controllo della vita degli altri.

FONTE: il Manifesto

giovedì 24 maggio 2007

Crimen sollicitationis


se non fosse possibile visualizzare direttamente il filmato, cliccare qui



In questi ultimi giorni l'opinione pubblica italiana - o, meglio, una piccola parte di essa - è venuta a conoscenza di un documento segreto del Vaticano che delinea una strategia di comportamento nei confronti di ecclesiastici che si rendano colpevoli di abusi sessuali sui bambini. Diciamoci la verità: tutti in cuor nostro sepevamo che queste sono pratiche abituali e non nuove per i ministri della misericordia di Dio, ma ora, almeno, c'è la concreta possibilità di fare realmente luce su crimini da sempre taciuti. Il documento si chiama Crimen sollicitationis e, tutto improntato alla segretezza, ha quale scopo quello di coprire tali abominevoli fatti evitando a criminali della peggior specie la possibilità di essere, giustamente, puniti. Nessun media italiano (con qualche sporadica eccezione) ha fatto menzione di questo documento. Negli altri paesi europei, dove evidentemente l'influenza dei lor signori eminentissimi porporati sui mezzi d'informazione e sulla politica è invece pressoché nulla, di questa vicenda se ne è parlato: il filmato di cui sopra è, infatti, un documentario trasmesso dalla BBC nell'ottobre 2006.
Se non si trattasse di fatti gravissimi e totalmente ignoti - o, forse, volutamente ignorati dall'allocca massa bigotto-cattolica - verrebbe quasi da evitare ogni commento. Ma come si fa a non levare la propria voce di protesta in un momento come questo, in cui la santissima istituzione ha dato il via ad una crociata, che tanto ricorda la medioevale caccia alle streghe, contro coloro che rappresentano "il male e il nemico primo della società" - detta con le parole di Bagnasco (VERGOGNA) - contro coloro, insomma, che non si conformano al volere di santa romana chiesa e chiedono, a ragione, che vengano loro riconosciuti ed assicurati i naturali diritti di cittadinanza? Sto ovviamente parlando della questione Dico.

Perché ostacolare il legittimo tentativo di restituire i pieni diritti ad una parte importante ed estremamente variegata della popolazione? E' bene notare, infatti, che un tale provvedimento riguarderebbe una serie di ipotesi anche decisamente diverse tra loro: dalle coppie omosessuali a due vecchietti che hanno deciso di vivere gli ultimi anni dandosi una mano a vicenda e toccherebbe questioni tanto economiche (la reversibilità della pensione, il subentro nell'affitto o le vicende legate all'eredità) quanto umane (l'assistenza in caso di malattia prolungata è il caso più eclatante o anche semplicemente la scelta di vita operata spontaneamente da una giovane coppia). Così come, del resto, potrebbe facilmente prestarsi a manipolazioni e aggiramento di altre leggi, in special modo quella sull'immigrazione. Perché, dunque, trincerarsi dietro una posizione rigida, conservatrice, illogica e non al passo con i tempi? Perché intraprendere una crociata omofobica quando gli uomini sono tutti uguali e tutti figli di Dio? In che modo la famiglia di fatto dovrebbe costituire un pericolo per la famiglia "naturale" e "tradizionale"? Quali sono i numeri di uno strisciante, ma ben evidente malessere che affligge sempre di più il nucleo fondamentale dell'organizzazione umana?

Volendosi sforzare, non si riesce a capire come le unioni di fatto possano essere un pericolo per la famiglia così come concepita dal credo cattolico. Coloro che si considerano fedeli, o che comunque ritangono giusto conformarsi al corrispondente dettame, non avranno nessun tipo di ostacolo a proseguire sulla loro strada. Si teme forse che sempre meno giovani facciano ricorso alla categoria famigliare attualmente legale? Allora forse non si è capito che la società e l'uomo sono continuamente in evoluzione e che, se fino a un ventennio fa il punto d'arrivo di un giovane era il matrimonio, oggigiorno diversi fattori hanno permesso la nascita di soluzioni differenti, ma non per questo prive di una loro dignità. Ci vogliono far credere che optando per una convivenza i giovani saranno portati a fare meno figli? Se oggi non si fanno più figli non è certo per questo, ma per il fatto che poche coppie, alle prese con una sicurezza lavorativa inesistente e con un aumento generalizzato del costo della vita, possono permettersi una famiglia come quella che il Vaticano vorrebbe imporci.
Forse gli omosessuali sono colpevoli per tutti i divorzi che si verificano annualmente in Italia? Sono forse loro ad aver compiuto gli efferati delitti di Novi Ligure, Cogne, Erba, fino a quelli più recenti come ad esempio Marsciano? E' colpa loro se la stragrande maggioranza dei maltrattamenti e delle violenze fisico-psicologiche avvengono tra le mura domestiche? A me sembra, obiettivamente, che i problemi della famiglia siano ben altri, a cominciare da tutto ciò che non si è fatto in questi anni.

A tal proposito ritengo sia indicativa una lettera di Travaglio a Ruini pubblicata sull'Unità contenente alcune cifre interessanti. "Se la DC e i suoi numerosi eredi avessero fatto per la famiglia tutto ciò che avevano promesso, oggi le famiglie italiane dormirebbero tra due guanciali. Sa invece qual è il risultato? Che l'Italia investe nella spesa sociale il 26,4% del Pil, 5 punti in meno che nel resto d'Europa a 15, quella infestata di massoni, mangiapreti, satanisti e -per dirla con Tremaglia- culattoni. Se poi andiamo a vedere quanti fondi vanno alle famiglie e all'infanzia nei paesi che non hanno avuto la fortuna di avere in casa Dc e Vaticano, scopriamo altri dati interessanti. L'Italia è penultima in Europa col 3,8% della spesa sociale alle famiglie, contro il 7,7% dell'Europa, il 10,2% della Germania, il 14,3% dell'Irlanda. Noi diamo alla famiglia l'1,1% del Pil: meno della metà della media europea (2,4). Sarà un caso, ma noi siamo in coda in Europa per tasso di natalità: la Francia ha il record con 2 figli per donna, la media europea è 1,5, quella italiana 1,3. E il resto d'Europa ha i Pacs, noi no: pare che riconoscere i diritti alle coppie di fatto non impedisca le politiche per la famiglia, anzi. Lei che ne dice?Lei sa, poi, che per sposarsi e fare figli, una coppia ha bisogno di un lavoro stabile. Sa quanto spendiamo per aiutare i disoccupati? Il 2% della spesa sociale, ultimi in Europa. La media Ue è il 6%. La Spagna del terribile Zapatero spende il 12,5. I disoccupati che ricevono un sussidio in Italia sono il 17%, contro il 71 della Francia, l'80 della Germania, l'84 dell'Austria, il 92 del Belgio, il 93 dell'Irlanda, il 95 dell'Olanda, il 100% del Regno Unito. E per i giovani è ancora peggio: sotto 25 anni, da noi, riceve il sussidio solo lo 0,65%; in Francia il 43, in Belgio il 51, in Danimarca il 53, nel Regno Unito il 57. Poi c'è la casa. Anche lì siamo penultimi: solo lo 0,06% della spesa sociale va in politiche abitative (la media Ue è il 2%, il Regno Unito è al 5,5). Se in Italia i figli stanno meglio che nel resto del mondo, anche perché sono pochissimi, per i servizi alle madri siamo solo al 19° posto."

Perché allora invece di fomentare odio e di discriminare alcune categorie di persone i clericali non mettono in campo azioni volte ad aiutare chi un nucleo familiare non può formarlo, sostenerlo e mantenerlo? Perché il Vaticano, proprietario del 22% degli immobili su tutto il territorio italiano - uno su quattro a Roma - non mette a disposizione delle abitazioni per coloro che mantengono famiglie numerose con uno stipendio da miseria? Giunge spesso voce che, invece, le reverendissime eminenze sbattano fuori casa gli inquilini dei loro immobili per affittarli a prezzi suntuosi ad avvocati e notai, giusto per lucrare il più possibile. Ancora: perché non usano l'enorme cifra che risparmiano sull'Ici (grazie ad una legge del laboriosissimo governo Berlusconi che la sinistra non ha ancora cancellato e forse mai lo farà) costruendo ad esempio asili per i bambini di famiglie che altrimenti dovrebbero rinunciare ad uno stipendio per seguire i loro figli? O per mettere in campo politiche assistenziali verso tali soggetti? Sono queste le tematiche che dovrebbero emergere, non i falsi problemi con i quali i ministri della misericordia di Dio cercano di fomentare un sentimento omofobico senza precedenti. Purtroppo, quando ci sono di mezzo costoro, le verità sono sempre celate, censurate, insabbiate. Come il crimen sollicitationis...

sabato 12 maggio 2007

Missione compiuta

Sono passati quattro anni dal giorno in cui il presidente Bush annunciò dalla portaerei Abramo Lincoln che la missione in Iraq era compiuta. Quattro anni nei quali nessun risultato positivo è stato raggiunto. Già, certo...a vederla dal punto di vista umano...ma se teniamo conto di quelli che sono i veri interessi dell'amministrazione Usa i risultati sono stati raggiunti, eccome! Subito dopo la fase dell'invasione vera e propria del paese, l'obiettivo primario era quello di instaurare istituzioni fantoccio delle quali potersi servire a piacimento. Un governo pronto a vendersi e costituito da elementi graditi agli occupanti, un parlamento di fatto impossibilitato ad esprimere una dialettica politica reale ed il caos generalizzato nel paese, pericolosamente esposto a spinte divisioniste e largamente attraversato da violenze etniche, religiose e settarie che ne distruggono il tessuto sociale. Il clima e le condizioni ideali per far passare una legge sulla regolamentazione delle risorse petrolifere nazionali. Ora si tratterà di dare attuazione a questa legge e, in particolare, di garantire le condizioni di sicurezza necessarie alle corporations petrolifere - americane e inglesi, ovviamente - per compiere il furto della maggiore fonte di ricchezza degli iracheni. I risultati, dunque, sono stati raggiunti. Bisogna solo vedere a che prezzo - trovate un "listino" sul sito della Global Research.
Rispetto a tutto quello che si è detto e scritto, vale la pena far notare che i morti civili sono ormai incontabili e i soldati americani caduti si attestano oltre la soglia dei 3.400, senza contare tutti i mutilati dei quali, guarda caso, non si parla mai. L'Iraq è diventato il teatro di uno scontro dai contorni indefiniti mai visto prima e il suo peso ha cambiato gli equilibri di forza in Medio Oriente, a favore di un radicalismo cieco. Inevitabile. Non è affatto clamoroso osservare che quando c'era Saddam le condizioni fossero decisamente migliori. Non solo per l'Iraq, ma anche per tutto il Medio Oriente.
L'Iraq, dopo la prima guerra del Golfo e più di 10 anni di pesante embargo economico, esce ancor peggio da questo secondo conflitto. Se consideriamo gli elementi costitutivi di uno stato dobbiamo giungere alla conclusione che l'Iraq non lo è.

sabato 14 aprile 2007

Civiltà superiore



"The West won the world not by the superiority of its ideas or values or religion, but rather by its superiority in applying organized violence. Westerners often forget this fact, non-Westerners never do."
Samuel P. Huntington

venerdì 13 aprile 2007

Politica estera all'italiana

Sul caso Mastrogiacomo è stato detto di tutto e di più. Quello che è stato omesso - come al solito - è che in Italia le scelte di politica estera, anche le più critiche, vengono prese in base al tornaconto che si incassa sul piano interno. Basta ricostruire, da semplici osservatori, l'andamento dell'umore politico: se al rapimento di Mastrogiacomo, Adjmal Naqshbandi e Sayed Agha - rispettivamente interprete e autista dell'inviato di Repubblica - tutti mostravano platealmente le proprie apprensioni, subito dopo la sua liberazione si scatenava un polverone di accuse e contro-accuse, degenerato poi in un disinteresse diffuso per la sorte degli altri individui coinvolti - in particolare di Rahmatullah Hanefi, l'unico rimasto vivo. Vivo, ma incarcerato senza accuse provate e senza nessuna delle garanzie minime dagli agenti speciali del governo Karzai.
Il motivo è presto detto: la liberazione dei 5 capi talebani ha pesantemente infastidito i vertici militari USA, poco inclini a scendere a compromessi. L'ordine fatto recapitare alla marionetta Karzai è quello di smetterla con le concessioni, anche se a Washington sanno bene che un'eventuale defezione italiana in Afghanistan sarebbe difficilmente sopportabile. E allora è Rahmatullah Hanefi a pagare il conto, in compagnia di Emergency che ha minacciato il ritiro di tutto il suo personale per mancanza delle necessarie garanzie di sicurezza nel poter operare - curioso il fatto che tali garanzie manchino a causa di un governo che si proclama legittimo.
Cosa fa nel frattempo il governo italiano? Perché non fa più pressioni su Karzai e agli "alleati" d'oltreoceano per salvare Hanefi e l'organizzazione di Gino Strada? All'inizio della vicenda il governo aveva agito bene, puntando gran parte delle speranze di salvare Mastrogiacomo sull'immagine e il radicamento sul territorio e nella popolazione che Emergency si è guadagnata in anni di lavoro, gratuito e senza fare distinzione alcuna. L'unico rimprovero è forse ravvisabile nell'aver eccessivamente chiuso i canali dell'intelligence, che in questi casi garantiscono informazioni puntuali e una buona logistica, evitando sgradevoli sorprese. Che cosa ha fatto poi il governo? Nulla, ha abbandonato Hanefi ed Emergency al loro destino, limitandosi di tanto in tanto a qualche accenno di pressione giusto per salvare la faccia.
Nel frattempo Emergency sarà praticamente costretta a non operare e c'è già chi comincia a fare l'avvoltoio, attratto dalle strutture che Strada e i suoi collaboratori hanno messo in piedi in Afghanistan. Il prestigio italiano ne uscirà decisamente compromesso: in quei luoghi non siamo conosciuti per i sorrisi e le battute di Berlusconi o per la Ferrari, per i bei discorsetti di D'Alema o per la pizza, ma per l'inestimabile opera prestata da Emergency nel curare persone che altrimenti non avrebbero ricevuto assistenza.
Ma intanto il governo...